Fonte: Monthly Review - 01.05.1949

Pubblicato per la prima volta nel maggio di settantasei anni fa, nel numero inaugurale di Monthly Review: An Independent Socialist Magazine, “Perché il socialismo?” di Albert Einstein è un classico inaspettato. Scritto negli Stati Uniti durante la caccia alle streghe maccartista, costituì un atto di sfida, sostenendo una causa per il socialismo che non ha eguali né ai suoi tempi né ai nostri. Eppure, la sua stessa esistenza è stata fonte di imbarazzo per un establishment che ha continuamente cercato di sminuirne il significato iconoclastico, insieme al socialismo stesso auspicato da Einstein.

Il saggio di Einstein, accompagnato da un dettagliato commento di John Bellamy Foster, è stato recentemente ripubblicato da Monthly Review Press. L'introduzione di Foster racconta la storia dell'impegno che Einstein ebbe per tutta la vita nei confronti del socialismo e gli eventi che portarono alla pubblicazione di “Perché il socialismo?”, e contestualizza l'importanza del suo saggio nel momento in cui entriamo in un'epoca di crisi planetaria e di nuove minacce di guerra mondiale. Nei settantasei anni trascorsi dalla sua pubblicazione, “Perché il socialismo?” è una di quelle rare dichiarazioni la cui forza non ha fatto che crescere nel tempo, raggiungendo negli anni un numero incalcolabile di lettori. È di fondamentale importanza che il messaggio di Einstein continui a diffondersi per garantire il futuro dell'umanità.






Perché il socialismo?



È consigliabile per chi non sia un esperto di questioni economiche e sociali esprimere opinioni in merito al socialismo? Per svariate ragioni credo di sì.

Consideriamo innanzitutto la questione dal punto di vista della conoscenza scientifica. Potrebbe sembrare che non vi siano differenze metodologiche essenziali tra l’astronomia e l’economia: in entrambi i campi, gli scienziati tentano di scoprire leggi di validità generale entro un ordine circoscritto di fenomeni, in modo da rendere il più chiaramente comprensibili le connessioni tra questi fenomeni. Ma in realtà le differenze metodologiche esistono. La scoperta di leggi generali nel campo economico è resa difficile dal fatto che spesso i fenomeni economici osservati sono influenzati da numerosi fattori che sono difficili da valutare separatamente. Inoltre, l'esperienza accumulata dall'inizio del cosiddetto periodo civilizzato della storia dell'umanità è stata, come è noto, ampiamente influenzata e limitata da cause che non sono affatto di natura esclusivamente economica. Ad esempio, molti dei maggiori stati dovettero la loro esistenza a politiche di conquista. I conquistatori si imposero, legalmente ed economicamente, come la classe privilegiata del paese conquistato. Essi si riservarono il monopolio della proprietà terriera e crearono una casta sacerdotale con membri appartenenti alla loro stessa classe. I sacerdoti, avendo il controllo dell'educazione, trasformarono la divisione in classi della società in una istituzione permanente ed elaborarono un sistema di valori dal quale il popolo fu da allora in poi, in larga misura inconsciamente, guidato nel suo comportamento sociale.

Ma la tradizione storica è, per così dire, cosa di ieri; non abbiamo di fatto superato quella che Thorstein Veblen definì la «fase predatoria» dello sviluppo umano. I fatti economici oggi osservabili appartengono a quella fase e le stesse leggi che possiamo eventualmente ricavare da essi non sono applicabili ad altre fasi. Poiché lo scopo reale del socialismo è precisamente quello di superare e procedere oltre la fase predatoria dello sviluppo umano, la scienza economica allo stato attuale può gettare ben poca luce sulla società socialista del futuro.

In secondo luogo, il socialismo mira ad un fine etico-sociale. La scienza non può creare fini e, ancor meno, imporli agli esseri umani; la scienza, però, può fornire i mezzi con cui raggiungere determinati fini. Ma i fini stessi sono concepiti da persone con alti ideali etici e – se questi ideali non sono sterili, ma vitali e forti – sono assunti e portati avanti da quella larga parte dell'umanità che, semi-inconsciamente, determina la lenta evoluzione della società.

Per queste ragioni, dovremmo stare attenti a non sopravvalutare la scienza e i metodi scientifici quando si tratta di problemi umani; e non dovremmo dare per scontato che gli esperti siano gli unici ad avere il diritto di esprimersi su questioni che riguardano l'organizzazione della società.

Da un pò di tempo, innumerevoli voci affermano che la società umana sta attraversando una crisi e che la sua stabilità è stata seriamente compromessa. Tipico di una tale situazione è il fatto che gli individui si sentano indifferenti o addirittura ostili verso il gruppo sociale, piccolo o grande, a cui appartengono. Per illustrare il mio pensiero, voglio qui ricordare un'esperienza personale. Recentemente discutevo con una persona intelligente e di larghe vedute sulla minaccia di una nuova guerra che, a mio giudizio, comprometterebbere seriamente l'esistenza dell'umanità, e facevo notare che solo un'organizzazione internazionale potrebbe proteggerci da questo pericolo. Allora il mio interlocutore, con molta calma e freddezza, mi disse: «Perché siete così profondamente contrario alla scomparsa della razza umana?».

Sono sicuro che solo un secolo fa nessuno avrebbe fatto un'affermazione di questo tipo con tanta leggerezza. È l'affermazione di un uomo che si è sforzato invano di raggiungere un equilibrio dentro di sé e ha più o meno perso la speranza di riuscirci. È l'espressione di dolorosa solitudine e isolamento di cui soffrono tante persone in questi tempi. Qual è la causa? Esiste una via d'uscita?

È facile sollevare tali questioni, ma è difficile rispondervi con un certo grado di sicurezza. Devo tentare, tuttavia, come meglio posso, anche se sono ben consapevole del fatto che i nostri sentimenti e i nostri sforzi sono spesso contraddittori e oscuri, e che non possono essere espressi in facili e semplici formule.

L'uomo è, allo stesso tempo, un essere solitario e un essere sociale. Come essere solitario, cerca di proteggere la propria esistenza e quella di coloro che gli sono più vicini, di soddisfare i propri desideri personali e di sviluppare le proprie innate capacità. In quanto essere sociale, cerca di ottenere il riconoscimento e l'affetto dei suoi simili, di condividere le loro gioie, di confortarli nei loro dolori e di migliorare le loro condizioni di vita. Soltanto l'esistenza di questi diversi e spesso contradittori sforzi, spiega il carattere particolare di un uomo, e la loro particolare combinazione determina la misura in cui un individuo può raggiungere un equilibrio interiore e può contribuire al benessere della società. È possibile che la forza relativa di queste due pulsioni sia in gran parte determinata dall'eredità. Ma la personalità che alla fine emerge è in gran parte formata dall'ambiente in cui un individuo viene a trovarsi durante il proprio sviluppo, dalla struttura sociale in cui cresce, dalla storia di quella società e dal giudizio che essa dà sui differenti tipi di comportamento. Il concetto astratto di “società” significa per il singolo essere umano la somma totale delle relazioni dirette e indirette con i suoi contemporanei e con tutti gli uomini delle generazioni precedenti. L'individuo è in grado di pensare, sentire, lottare e lavorare da solo; ma dipende così tanto dalla società, nella sua esistenza fisica, intellettuale ed emotiva, che è impossibile pensare a lui o comprenderlo al di fuori della struttura sociale. È la “società” che fornisce all'uomo il cibo, i vestiti, una casa, gli strumenti di lavoro, il linguaggio, le forme e la maggior parte dei contenuti del pensiero; la sua vita è resa possibile dal lavoro e dalle realizzazioni dei molti milioni di uomini del passato e del presente nascosti dietro quella piccola parola: “società”.

È perciò evidente che la dipendenza dell'individuo dalla società è un fatto naturale che non può essere abolito, proprio come nel caso delle api o delle formiche. Tuttavia, mentre l'intero ciclo vitale delle api e delle formiche è determinato fin nei più piccoli dettagli da rigidi istinti ereditari, i modelli sociali e le interrelazioni degli esseri umani sono molto variabili e suscettibili di mutamenti. La memoria, la capacità di creare nuove combinazioni e il dono della comunicazione verbale, hanno reso possibile fra gli esseri umani degli sviluppi che non sono dettati direttamente da necessità biologiche. Questi sviluppi si manifestano nelle tradizioni, nelle istituzioni e nelle organizzazioni, nella letteratura, nelle scoperte scientifiche, nelle realizzazioni ingegneristiche e nelle opere d'arte. Questo spiega come sia possibile che, in un certo senso, l'uomo possa influenzare la propria vita attraverso il proprio comportamento, e che in questo processo possano giocare un ruolo il pensiero e la volontà consapevoli.

L'uomo acquisisce alla nascita, per eredità genetica, una costituzione biologica che dobbiamo considerare fissa e inalterabile, che comprende gli impulsi naturali caratteristici della specie umana. Inoltre, nel corso della vita, egli acquisisce una struttura culturale che riceve dalla società tramite la comunicazione e molti altri tipi di influenze. È questa struttura culturale ad essere, nel corso del tempo, soggetta a mutamenti e a determinare in larga misura le relazioni tra l'individuo e la società. L'antropologia moderna ci ha insegnato, attraverso lo studio comparato delle cosiddette civiltà primitive, che il comportamento sociale degli esseri umani può differire notevolmente, a seconda dei modelli culturali predominanti e dei tipi di organizzazione che prevalgono nella società. È su questo fatto che coloro che lottano per migliorare il destino dell'uomo possono fondare le loro speranze: gli esseri umani non sono condannati, a causa della loro costituzione biologica, a distruggersi reciprocamente o restare in preda a un destino crudele, da loro stessi causato.

Se ci domandiamo come la struttura della società e l'atteggiamento culturale dell'uomo debbano essere modificati per rendere la vita umana il più soddisfacente possibile, dobbiamo essere sempre consapevoli del fatto che ci sono certe condizioni che non possono essere modificate. Come abbiamo già ricordato, la natura biologica umana non è, per motivi materiali, soggetta a cambiamenti. Inoltre, gli sviluppi tecnologici e demografici degli ultimi secoli hanno creato delle condizioni destinate a durare. In popolazioni stabili relativamente dense, dotate dei beni indispensabili alla continuazione della loro esistenza, sono assolutamente necessari un'estrema divisione del lavoro e un sistema produttivo fortemente centralizzato. È finita del tutto l'epoca – che a volgersi indietro può sembrarci idilliaca – in cui gli individui o i gruppi relativamente piccoli potevano essere completamente autosufficienti. Non è un'esagerazione dire che il genere umano costituisce, oggi come ieri, una comunità planetaria di produzione e consumo.

Giunto a questo punto del discorso posso indicare brevemente ciò che secondo me costituisce l’essenza della crisi del nostro tempo. Si tratta delle relazioni dell'individuo con la società. L'individuo è diventato più consapevole che mai della propria dipendenza dalla società. Ma non sente questa dipendenza come una risorsa positiva, come un legame organico, come una forza protettiva, ma piuttosto come una minaccia ai suoi diritti naturali, o addirittura alla sua esistenza economica. Inoltre, la sua posizione sociale è tale che le spinte egoistiche del suo comportamento vengono sempre più accentuate, mentre le sue spinte sociali, che per natura sono più deboli, si deteriorano progressivamente. Tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro posizione sociale, soffrono a causa di questo processo di deterioramento. Inconsciamente prigionieri del proprio egoismo, si sentono insicuri, soli e privati ​​dell'ingenua, semplice e non sofisticata gioia di vivere. L'uomo può trovare un significato nella vita, per quanto breve e pericolosa sia, solo votandosi alla società.

L'anarchia economica della società capitalistica così come esiste oggi è, a mio parere, la vera fonte del male. Vediamo di fronte a noi un'enorme comunità di produttori i cui membri lottano incessantemente per privarsi a vicenda dei frutti del loro lavoro collettivo, non con la forza, ma complessivamente, in fedele complicità con gli ordinamenti legali. Da questo punto di vista, è fondamentale comprendere che i mezzi di produzione, vale a dire l’intera capacità produttiva necessaria per produrre sia i beni di consumo che il capitale addizionale, possono legalmente essere - e solitamente lo sono - proprietà privata dei singoli individui.

Per semplicità, nella discussione che segue chiamerò “lavoratori” tutti coloro che sono esclusi dalla proprietà dei mezzi di produzione, sebbene ciò non corrisponda esattamente all'uso consueto del termine. Il proprietario dei mezzi di produzione è in grado di comprare la forza lavoro del lavoratore. Utilizzando i mezzi di produzione, il lavoratore produce nuovi beni che diventano proprietà del capitalista. Il punto essenziale di questo processo è la relazione tra ciò che il lavoratore produce e quanto viene pagato, entrambi misurati in termini di valore reale. Per quanto il contratto di lavoro possa essere “libero”, ciò che il lavoratore riceve è determinato non dal valore reale dei beni che produce, ma dai propri bisogni minimali e dalla richiesta di forza-lavoro da parte dei capitalisti, rapportata al numero di lavoratori in concorrenza tra di loro per i posti di lavoro. È importante comprendere che anche in teoria il salario del lavoratore non è determinato dal valore del suo prodotto.

Il capitale privato tende a concentrarsi nelle mani di pochi, in parte a causa della concorrenza tra i capitalisti e in parte perché lo sviluppo tecnologico e la crescente divisione del lavoro spingono alla formazione di unità di produzione più grandi a spese di quelle più piccole. Il risultato di questi sviluppi è un'oligarchia del capitale privato il cui enorme potere non può essere controllato efficacemente nemmeno da una società organizzata politicamente in forma democratica. Ciò è vero poiché i membri degli organi legislativi sono selezionati da partiti politici, ampiamente finanziati o comunque influenzati da capitalisti privati ​​che, a tutti gli effetti pratici, separano l'elettorato dalla legislatura. La conseguenza è che i rappresentanti del popolo non tutelano sufficientemente gli interessi delle fasce più deboli della popolazione. Inoltre, nelle condizioni attuali, i capitalisti privati ​​controllano inevitabilmente, direttamente o indirettamente, le principali fonti di informazione: stampa, radio, educazione. È quindi estremamente difficile, e nella maggior parte dei casi del tutto impossibile, che il singolo cittadino giunga a conclusioni obiettive e faccia un uso intelligente dei propri diritti politici.

La situazione prevalente in un'economia basata sulla proprietà privata del capitale è perciò caratterizzata da due principi fondamentali: in primo luogo, i mezzi di produzione (capitale) sono di proprietà privata e i proprietari ne dispongono a loro piacimento; in secondo luogo, il contratto di lavoro è libero. Naturalmente non esiste, in quanto tale, una società capitalista pura. In particolare, va osservato che i lavoratori tramite lunghe e aspre lotte sono arrivati a conquistare, per certe categorie, una forma in qualche modo migliorata del “libero contratto di lavoro”. Ma nel complesso, l'economia odierna non differisce molto dal capitalismo “puro”.

Si produce per il profitto, non per l'uso. Non vi è alcun provvedimento che garantisca che tutti coloro che possono e vogliono lavorare ne abbiano sempre la possibilità; esiste quasi sempre un “esercito di disoccupati”. Il lavoratore teme costantemente di perdere il posto di lavoro. Quando i lavoratori disoccupati e mal pagati non costituiscono un mercato in grado di dare profitti, la produzione di beni di consumo diminuisce, con conseguente grave danno. Il progresso tecnologico si traduce spesso in un aumento della disoccupazione piuttosto che in un alleggerimento del carico di lavoro per tutti. Il movente del profitto, insieme alla concorrenza tra capitalisti, è responsabile di un'instabilità nell'accumulazione e nell'utilizzo del capitale che porta a crisi sempre più gravi. La concorrenza sfrenata porta a un enorme spreco di lavoro, e a quel deterioramento della coscienza sociale degli individui che ho precedentemente menzionato.

Questo deterioramento degli individui lo considero il male peggiore del capitalismo. Tutto il nostro sistema educativo soffre di questo male. Una esagerata attitudine competitiva viene inculcata nello studente, che viene addestrato al culto del successo economico, come preparazione alla sua futura carriera.

Sono convinto che esiste una sola via per eliminare questi gravi mali: la creazione di un'economia socialista, accompagnata da un sistema educativo orientato a fini sociali. In un'economia di questo tipo, i mezzi di produzione sono posseduti dalla collettività e da essa vengono utilizzati in modo pianificato. Un'economia pianificata, che regoli la produzione in base ai bisogni della comunità, distribuirebbe il lavoro necessario tra tutti coloro che sono in grado di lavorare e garantirebbe i mezzi di sussistenza a ogni uomo, donna e bambino. L'educazione dell'individuo, oltre a promuovere le sue innate capacità, tenderebbe a sviluppare in lui un senso di responsabilità verso i propri simili, anziché l'esaltazione del potere e del successo, come avviene attualmente nella nostra società.

Tuttavia, è necessario ricordare che un'economia pianificata non è ancora socialismo. Un'economia pianificata in quanto tale può essere accompagnata dal completo asservimento dell'individuo. Il raggiungimento del socialismo richiede la soluzione di alcuni problemi socio-politici estremamente difficili: in che modo è possibile, in vista di una centralizzazione di vasta portata del potere politico ed economico, evitare che la burocrazia diventi onnipotente e prepotente? Come proteggere i diritti dell'individuo e assicurare contemporaneamente un contrappeso democratico al potere della burocrazia?

La chiarezza sugli obiettivi e sui problemi del socialismo è di fondamentale importanza nella nostra epoca di transizione. Dal momento che, nelle circostanze attuali, la discussione libera e gratuita di questi problemi è stata oggetto di un forte tabù, considero la fondazione di questa rivista un importante servizio pubblico.


Albert Einstein

Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org

Fonte: Monthly Review 2009, vol. 61, n.01 (01.05.2009)


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