Fonte: Monthly Review - 01.07.2024
 
John Bellamy Foster e Brett Clark introducono il numero speciale di MR su "L'imperialismo nell'Indo-Pacifico", analizzando le modalità su come la super-regione sia stata concettualizzata dagli strateghi geopolitici e quale sia il suo ruolo nella strategia militare degli Stati Uniti.




Indo-Pacifico è un termine con una lunga storia nel lessico imperialista. Ha origine negli scritti di Karl Haushofer, il principale teorico tedesco della geopolitica, nel suo Geopolitics of the Pacific Ocean del 1924 e in numerose altre opere.[1] Haushofer fu addetto militare tedesco in Giappone nel 1908-1909 e viaggiò molto in Asia orientale. Grazie a queste esperienze, sarebbe poi diventato un importante analista geopolitico. Nella Prima Guerra Mondiale servì come comandante di brigata, raggiungendo, alla fine della guerra, il grado di maggiore generale. Rudolf Hess, che era stato aiutante di campo di Haushofer e poi suo allievo, fu uno dei suoi principali discepoli. Nel 1920, Hess si iscrisse al Partito Nazista. Dopo il Putsch di Monaco del 1923, quando Adolf Hitler e Hess furono confinati nella prigione della Fortezza di Landsberg, Haushofer istruì entrambi in geopolitica, mentre Hitler dettò a Hess il Mein Kampf. Un decennio dopo, quando Hitler salì al potere in Germania, Hess fu nominato vice Führer del Partito Nazista. Per Haushofer fu creata una cattedra speciale di geografia politica all'Università di Monaco.[2]

La designazione di Indo-Pacifico come regione geopolitica nasce dalla strategia imperiale globale di Haushofer, che mirava a ritagliare una nuova "Pan-regione" (simile alla Pan-America sotto l'egemonia statunitense) in Estremo Oriente, che sarebbe stata guidata da Germania, Giappone e Russia/URSS. L'obiettivo era quello di superare il controllo coloniale britannico e statunitense dell'Oceano Indiano e delle regioni del Pacifico occidentale, con lo scopo di creare un nuovo impero indo-pacifico sotto l'egemonia tedesco-giapponese, in grado di contrastare a livello globale il dominio della super-regione euro-atlantica da parte delle vecchie potenze coloniali. A differenza dell'Euro-Atlantico, il controllo imperialista anglo-americano dell'Indo-Pacifico era visto da Haushofer come vulnerabile a un'alleanza tedesco-eurasiatica. Haushofer fondò quindi la sua analisi sulla nozione di «Pacifico imperialisticamente conteso».[3]

Le idee di Haushofer suscitarono un enorme interesse negli Stati Uniti durante e fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Secondo Hans W. Weigert, che scrisse su Foreign Affairs, pubblicazione del Council of Foreign Relations, nel luglio 1942, Geopolitics of the Pacific Ocean di Haushofer era «la Bibbia della geopolitica tedesca», generalmente considerata una "super scienza", negli Stati Uniti. A West Point si riteneva che Haushofer avesse reso possibili le vittorie di Hitler sia in pace che in guerra. Nell'articolo di Weigert su Foreign Affairs, Haushofer veniva biasimato per aver distrutto «l'unità della razza bianca» perché sosteneva un'alleanza con il Giappone e altre potenze eurasiatiche contro Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. (Haushofer stesso, che qualificava la Francia come una «potenza per metà africana» e utilizzava la nozione di «razza superiore», era un razzista). «Il patto di non aggressione russo-tedesco del 9 agosto 1939», nota Weigert, «fu il più grande trionfo di Haushofer». Haushofer sollevò la possibilità di un'alleanza centroeuropea-eurasiatica e di un dominio globale del "World Island”, dell'Eurasia, simile a quello contro cui metteva in guardia Halford Mackinder, il fondatore britannico della geopolitica.[4] Nel 1939, a seguito del Patto di non aggressione, Haushofer scrisse: «Finalmente, la collaborazione delle potenze dell'Asse e dell'Estremo Oriente si pone distintamente dinanzi all'anima tedesca. Finalmente c'è una speranza di sopravvivenza contro la politica dell'Anaconda [l'accerchiamento strangolante] delle democrazie occidentali».[5]

Haushofer si rallegrava delle «gesta, esteriormente brillanti, dell'imperialismo». Piuttosto che essere il nemico dell'umanità, come affermavano i "materialisti marxisti", l'imperialismo era per lui una manifestazione della lotta darwiniana "per la conservazione della vita", un prodotto della "volontà di potenza" e della ricerca di "spazio vitale" (Lebensraum). Egli ammirava non solo la storia dell'imperialismo statunitense, che considerava eccezionalmente violenta, ma anche l'abile "scrittura speculare" di pensatori geopolitici statunitensi come Isaiah Bowman, che riuscivano a riflettere l'immagine dell'imperialismo statunitense in modo da farla apparire come anti-imperialista. In realtà, ribadiva Haushofer, il potere imperiale statunitense, sia effettivo che potenziale, era in quel tempo "insuperabile".[6]

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, durante l'ondata di lotte per la decolonizzazione, l'analisi geopolitica di Haushofer - insieme alla sua analisi della vera natura dell'imperialismo britannico e statunitense - era così preoccupante per le potenze coloniali dominanti in Occidente, che il termine geopolitica fu, nella discussione pubblica, messo al bando per decenni dall'ideologia occidentale della Guerra Fredda. Tuttavia, all'inizio degli anni Novanta, dopo la fine dell'Unione Sovietica, è riemerso un imperialismo molto più "nudo" nella ricerca del dominio mondiale unipolare da parte degli Stati Uniti. Più recentemente, come hanno scritto Timothy Doyle e Dennis Rumley in The Rise and Return of the Indo-Pacific, la geopolitica classica è stata pienamente «"riesumata" nel nuovo contesto della Guerra Fredda» rappresentato dal confronto degli Stati Uniti con la Cina.[7]

Tuttavia, durante gli anni della Guerra Fredda (1946-1991), la geopolitica, sebbene non pubblicizzata come tale, ha costituito la base dello sviluppo della grande strategia imperialista degli Stati Uniti. Tale opinione era associata a personaggi del calibro di Nicholas Spykman, Dwight D. Eisenhower, Dean Acheson, George Kennan, Paul Nitze, John Foster Dulles, Henry Kissinger, Eugene Rostow, Zbigniew Brzezinski e Alexander Haig, insieme al Council of Foreign Relations, colloquialmente noto come "imperial brain trust".[8]

Come nel caso della "geopolitica", il termine "Indo-Pacifico" è stato di fatto escluso dalla discussione pubblica per molti anni, a causa della sua associazione con le potenze dell'Asse e del contesto originario in cui era apparso, che metteva in discussione il colonialismo britannico, statunitense e francese nell'Asia meridionale e orientale - anche se derivava da una prospettiva imperialista rivale. Oggi, tuttavia, questa precedente nozione di "Pacifico imperialisticamente conteso" è stata capovolta. Non più rivolta a denunciare il ruolo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna come potenze imperiali nell'Oceano Indiano e nel Pacifico occidentale, come nella concezione originale di Haushofer, la categoria dell'Indo-Pacifico rappresenta ora una grande strategia imperiale per accerchiare e contenere strategicamente la Cina, concepita come una "potenza revisionista"* che minaccia l'"ordine basato sulle regole" dominato dagli Stati Uniti. Nei loro documenti degli ultimi anni, gli Stati Uniti si sono dichiarati una potenza dell'Indo-Pacifico, che cerca di stabilire il proprio dominio sovrano in gran parte della regione.[10] Come ha dichiarato nel 2021 il Segretario di Stato americano Antony J. Blinken, «gli Stati Uniti sono stati a lungo, sono e saranno sempre una nazione dell'Indo-Pacifico. Questo è un fatto geografico, dai nostri Stati della costa del Pacifico a Guam [in Micronesia, N.d.T.], ai nostri territori [colonie] in tutto il Pacifico».[11]

Nel 2007, il primo ministro giapponese Shinzo Abe, alleato degli Stati Uniti, ha aperto la strada a questa grande transizione strategica con l'introduzione del concetto di confluenza degli oceani Indiano e Pacifico, come parte di un tentativo di stabilire un dialogo strategico con l'India contro la Cina. Tuttavia, il primo utilizzo del termine "Indo-Pacifico" da parte di un importante leader politico nel secondo dopoguerra è stato in un discorso tenuto nel 2010 dal Segretario di Stato americano Hillary Clinton alle Hawaii, mentre si preparava a partire per un grande tour asiatico, in cui ha presentato l'Indo-Pacifico come concetto geopolitico per una nuova e più ampia alleanza strategica in Asia. Il suo discorso e l'intero viaggio in Asia sono stati intesi come un'ouverture per precedere il "Pivot to Asia" del presidente americano Barack Obama dell'anno successivo. Nel discorso della Clinton, il "bacino indo-pacifico" costituiva la base per far sì che la Marina indiana operasse nella super-regione insieme a quella statunitense e in particolare nel Mar Cinese Meridionale, in un processo di "impegno globale" e "dispiegamento avanzato". Il fatto che la nuova strategia indo-pacifica fosse rivolta direttamente alla Repubblica Popolare Cinese era scritto in ogni riga del discorso della Clinton, anche se non dichiarato apertamente.[12]

Il discorso della Clinton nel 2010 era anche volto a rafforzare la ripresa delQuadrilateral Security Dialogue (Quad)  [Dialogo Quadrilaterale sulla Sicurezza] tra Stati Uniti, Giappone, Australia e India. Il dialogo Quadrilaterale era stato interrotto durante l'amministrazione del Primo Ministro australiano Kevin Rudd, ed è stato ripreso nel 2010 dal suo successore, Julia Gillard, pochi mesi prima del discorso della Clinton. Pertanto, il richiamo della Clinton al "bacino indo-pacifico" come nuovo campo operativo delle forze armate statunitensi, in collaborazione con l'India, era stato pensato per apportare un significato strategico al rinnovato Quad, evidenziando il potenziale di un più ampio allineamento contro la Cina che avrebbe dovuto includere l'India (sebbene quest'ultima non abbia firmato un trattato di difesa con gli Stati Uniti).[13] Nonostante sia stato menzionato solo sinteticamente dalla Clinton, il drastico cambiamento che rappresentava il richiamo all'Indo-Pacifico è stato evidente fin da subito. Il termine è stato rapidamente diffuso, a partire dall'anno successivo, dai due principali alleati militari degli Stati Uniti nel Pacifico occidentale, Giappone e Australia, nonché dai documenti strategici statunitensi. Tuttavia, sotto Obama, l'Indo-Pacifico era ancora concepito come una confluenza oceanica, che si estendeva dalla costa orientale dell'Africa al Pacifico occidentale, al di fuori della sfera di potere sovrano degli Stati Uniti (a parte le sue colonie nella regione - Guam e Samoa americane).[14]

La  National Security Strategy statunitense del 2017, con la presidenza di Donald Trump, si è concentrata sull'Indo-Pacifico come area strategica chiave a livello globale, incentrata su una potenziale guerra con la Cina.[15] In conformità con questa nuova concezione, l'U.S. Pacific Command (USPACOM),  è stato rinominato U.S. Indo-Pacific Command (USINDOPACOM). La nuova mappa strategica dell'Indo-Pacifico, che delinea il campo operativo dell'USINDOPACOM, sottolinea come l'Indo-Pacifico sia il principale teatro strategico per affrontare la Cina, in quella che oggi viene ampiamente definita nei circoli strategici e di governo statunitensi come la "nuova guerra fredda" contro la Cina. Pertanto l'USINDOPACOM (vedi Mappa 1), rispetto alla precedente concezione dell'amministrazione Obama, ha spostato verso est l'intera mappa dell'Indo-Pacifico, comprendendo l'area che va dal confine occidentale dell'India alla costa pacifica degli Stati Uniti. Questo include lo Stato delle Hawaii e i territori coloniali statunitensi nel Pacifico, e porta gli Stati Uniti a far parte dell'Indo-Pacifico. È questa mappa strategico-militare elaborata dall'USINDOPACOM che domina oggi tutte le discussioni strategiche statunitensi sulla super-regione, contrassegnata da una serie di basi che, combinate con quelle dell'United States Central Command  (USCENTCOM), sono destinate a costituire un "gigantesco cappio" intorno alla Cina.[16] Descrizioni dell'Indo-Pacifico più orientate all'economia, come quella canadese, non includono gli Stati Uniti (o il Canada), ma si limitano alle "quaranta economie" della regione comprendendo, come un'unica entità, l'intero gruppo dei Paesi insulari del Pacifico, alcuni dei quali sono colonie/territori statunitensi.


Mappa 1. USINDOPACOM - Mappa dell'Indo-Pacifico, Area of Responsibility


Fonte:About USINDOPACOM: Area of Responsibility,” U.S. Department of Defense, pacom.mil.


Nei documenti strategici, gli Stati Uniti hanno ufficialmente designato la Cina come "Potenza revisionista", sostenuta dalla Russia, etichettata come "Stato maligno", mentre l'etichetta di "Stato canaglia" è applicata alla Repubblica Popolare Democratica di Corea (Corea del Nord).[17] La Cina è vista come il principale nemico nella grande strategia imperiale degli Stati Uniti, poiché è un'economia in rapida ascesa - oggi è la seconda economia mondiale e probabilmente presto supererà quella degli Stati Uniti - e per il suo rifiuto di accettare l'imperialistico "ordine internazionale basato sulle regole", dominato dagli Stati Uniti e introdotto alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nell'Indo-Pacific Strategy del 2019, del Dipartimento della Difesa statunitense, si afferma che l'obiettivo strategico primario è mantenere gli Stati Uniti come "potenza militare preminente", sia nell'Indo-Pacifico che a livello globale.[18] Ciò si traduce negli sforzi statunitensi per rallentare l'avanzata della Cina, limitando contemporaneamente la sua proiezione di potenza a livello mondiale. La maggior parte delle strategie statunitensi per vincere la Nuova Guerra Fredda contro la Cina mirano ad una sconfitta strategico-geopolitica di quest'ultima, per far crollare il Presidente cinese Xi Jinping e distruggere l'enorme prestigio del Partito Comunista Cinese, per portare ad un cambio di regime interno e alla subordinazione esterna della Cina all'imperium statunitense.[19]

Apparentemente, queste azioni dovrebbero essere intraprese in difesa della stessa regione indo-pacifica, in risposta alla cosiddetta "coercizione e aggressione" della Cina.[20] È vero che la Cina, come ogni grande potenza, ha cercato di consolidare la propria sovranità e la propria area di controllo nel Mar Cinese Meridionale per ragioni strategiche ed economiche, trovandosi così in dispute giurisdizionali con le Filippine ed altre nazioni. Pechino è inoltre assolutamente ferma sulla sua politica di un'Unica Cina, sostenuta da quasi tutte le nazioni del mondo - compresi, ufficialmente, gli Stati Uniti - che stabilisce che Taiwan rimanga parte della Cina, sebbene con un'autorità governativa separata, con l'aspettativa della sua eventuale riunificazione con la terraferma. Tuttavia, nell'Indo-Pacifico, nulla di tutto ciò ha portato a temere un'aggressione militare da parte della Cina, con una spesa militare pro capite in calo, negli ultimi due decenni, in quasi tutti gli Stati dell'Asia orientale (compresi sia quelli che hanno stipulato trattati di difesa con gli Stati Uniti sia quelli che non li hanno stipulati), anche se negli ultimi anni Washington ha cercato di modificare questa situazione.[21] Sono piuttosto gli Stati Uniti, che vedono l'ascesa della Cina come una minaccia alla propria supremazia globale - con la super-regione dell'Indo-Pacifico che viene vista sempre di più come il luogo cardine della "Nuova Guerra Fredda" - a spingere l'intera umanità verso una Terza Guerra Mondiale.


L’Indo-Pacifico e la Nuova Guerra Fredda


La trasformazione delle relazioni di Washington con Pechino, iniziata nel 2010, è stata una reazione all’enorme successo dell’economia cinese e al relativo declino di quella degli Stati Uniti, insieme ai cambiamenti percepiti nella posizione politico-economica della Cina, che stava sempre più tracciando un percorso indipendente. Come ha osservato Yi Wen, economista e vicepresidente della Federal Reserve Board di St. Louis, tra il 1978 e i primi anni 2000, «la Cina ha compresso in una sola generazione i circa 150-200 (o più) anni di rivoluzionari cambiamenti economici vissuti dall’Inghilterra nel 1700-1900, dagli Stati Uniti nel 1760-1920 e dal Giappone nel 1850-1960».[22] Nel 1978, il reddito pro capite della Cina era solo un terzo di quello dell’Africa subsahariana, con 800 milioni di cinesi che vivevano, nel 1981, con meno di 1,25 dollari al giorno. Nel 2018, il reddito pro capite della Cina era salito al livello medio mondiale, e il paese aveva eliminato la povertà assoluta all’interno dei suoi confini.[23] Nel 1953, la Cina rappresentava il 2,3% del potenziale di produzione industriale mondiale, ma nel 2020, la sua quota della produzione manifatturiera mondiale era salita a circa il 35%. Oggi, la Cina è il principale esportatore mondiale, con una quota del commercio mondiale, nel 2020, di circa il 15%, rispetto a circa l’8% degli Stati Uniti.[24]

La Grande Crisi Finanziaria fu uno spartiacque.[26] Anche se la Cina subì un enorme calo della domanda esterna di beni, la sua economia si riprese rapidamente mentre il resto dell’economia mondiale cadde in una profonda stagnazione e recuperò solo lentamente. La Cina, con il suo ampio settore statale, è riuscita a uscire in gran parte inalterata dalla Grande Crisi Finanziaria, con un tasso di crescita a due cifre, mentre quello che The Economist battezzava come "ricco mondo moribondo" stava lottando per raggiungere una qualsiasi crescita positiva.[27] A Washington, lo shock è stato forte. Non solo, la Cina, a quel punto, era il motore della crescita economica mondiale: nel 2010 aveva superato il Giappone, diventando la seconda economia mondiale. Nulla sembrava poter fermare il suo rapido sviluppo. Da tempo, i teorici della tendenza alla stagnazione economica del capitalismo monopolistico sostenevano che la scarsa performance di tutte le economie capitalistiche mature - gli Stati Uniti e il Canada, l’Europa occidentale e il Giappone - fosse associata a bassi livelli di investimenti netti, dovuti a una sovraccumulazione di capitale ai vertici delle società, e al calo dei profitti previsti sui nuovi investimenti che ne derivava.[28] A seguito della Grande Crisi Finanziaria, economisti mainstream come Lawrence Summers si sono appropriati di questa analisi (senza conoscerne le origini), scrivendo di "stagnazione secolare".[29] Ma mentre i paesi del nucleo imperialistico dell’economia capitalistica mondiale crescevano sempre più lentamente a causa della mancanza di formazione di capitale netto ** (accompagnate dall’accumulo di crediti finanziari ai vertici della società), la Cina era un esempio esattamente opposto, con livelli storicamente elevati di investimento netto per decenni, portando a tassi di crescita epocali.[30]

La grande strategia indo-pacifica della Clinton, seguita nel 2010-2011 dal “Pivot to Asia” di Obama, fu una risposta a questo cambiamento epocale nell’economia mondiale. In questa situazione, Washington si trovava impigliata in numerose contraddizioni. Non solo gli Stati Uniti, uscendo da una profonda recessione, erano desiderosi di ottenere una parte maggiore del valore economico generato in Asia, e in particolare in Cina, ma allo stesso tempo cercavano di rallentare la crescita della potenza cinese attraverso un processo di accerchiamento strategico, tramite il potenziamento delle basi militari, alleanze e partenariati, limitazioni tecnologiche, e la creazione di accordi commerciali che avrebbero avvantaggiato le potenze imperialiste ridimensionando, allo stesso tempo, la Cina.

Tuttavia, la strategia di Obama, affinché gli Stati Uniti sfruttassero le varie dimensioni del potere contro la Cina, si manteneva ancora relativamente cauta, dati gli sviluppi politici che si stavano verificando proprio in Cina. A partire dal Diciassettesimo Congresso del Partito nel 2007, nella seconda metà del decennio di Hu Jintao come segretario generale del Partito Comunista Cinese e presidente della Cina, la dominante ala riformista (definita anche come destra) in Cina era sempre più sfidata dai conservatori (definiti anche come sinistra). Sebbene le linee della disputa non fossero rigidamente stabilite, i primi si identificavano maggiormente con le riforme di mercato introdotte da Deng Xiaoping, e ulteriormente portate avanti dal suo successore Jiang Zemin, mentre i secondi mantenevano un approccio più centrato sullo Stato e si richiamavano, in vari modi, a Mao Zedong. Ciò si poteva desumere dalle principali linee di contesa, focalizzate su come definire lo "Sviluppo Scientifico" e una "Società Armoniosa". Quest’ultima questione ruotava intorno alle Tre Rappresentanze di Jiang Zemin, proposte nel 2000, che delineavano il corso dell’avanzamento della Cina. In questo caso, una "Società Armoniosa": «[1] Rappresenta le tendenze di sviluppo delle forze produttive avanzate; [2] Rappresenta gli Orientamenti di una Cultura Avanzata; e [3] Rappresenta gli interessi fondamentali della stragrande maggioranza del popolo cinese».[31] Le Tre Rappresentanze erano state originariamente introdotte come risposta alla sinistra, e avrebbero dovuto continuare il percorso riformista in direzione del liberalismo/neoliberalismo.

Al contrario, l’approccio conservatore consisteva nel promuovere il “Socialismo con Caratteristiche Cinesi” e farne l’asse per lo Sviluppo Scientifico e una Società Armoniosa. Ciò che è sorprendentemente emerso nel Diciassettesimo Congresso del Partito, è stata l'importanza assegnata al Socialismo con Caratteristiche Cinesi quale “indicazione di percorso” determinante per lo sviluppo politico cinese, rappresentando, perciò, una vittoria per la sinistra. Le Tre Rappresentanze di Jiang vennero derubricate, e non furono più viste come un contributo indipendente, ma incorporate all’interno del Socialismo con Caratteristiche Cinesi, che «assimila tutto ciò che è venuto dopo Mao». In seguito Xi avrebbe definito il “Sistema Teorico del Socialismo con Caratteristiche Cinesi” come il Secondo Balzo Storico dopo Mao, mentre il Pensiero di Xi Jinping, associato al Socialismo con Caratteristiche Cinesi per una Nuova Era, avrebbe conseguito lo status di Terzo Balzo.[32]

Al forte ritorno del conservatorismo/sinistrismo nel Diciassettesimo Congresso del Partito, ha fatto seguito un ulteriore rafforzamento della sinistra nel Partito, dopo la Grande Crisi Finanziaria del 2008-2009 iniziata negli Stati Uniti. Con l’intero nucleo imperialista dell’economia capitalistica mondiale - così come le economie più dipendenti del Sud globale - che entrava in una crisi sistemica di scala, senza precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale, il prestigio del neoliberalismo in Cina cominciò a diminuire, sebbene rimanesse forte tra gli economisti cinesi formati all’estero. Il cambiamento, rispetto alle concezioni occidentali, si poteva notare negli articoli chiave pubblicati in riviste importanti come Red Flag Manuscript. Una delle principali manifestazioni di ciò, è stata l'improvvisa inversione di tendenza nelle analisi sulla fine dell’Unione Sovietica. Dal 1994 al 2008, le spiegazioni principali addotte per il fallimento sovietico erano, in ordine: la mancanza di riforme di mercato, la crisi istituzionale e l’erosione ideologica, mentre la costruzione del partito era appena evidente. Tuttavia, nel periodo 2009-2018, le prime due di queste spiegazioni scomparvero del tutto, mentre l'attenzione si spostò sui fallimenti che riguardavano l’erosione ideologica e la costruzione del partito, con un maggiore accento  sui cattivi leader (cioè, sulla corruzione).[33]

L’ascesa di Xi a segretario generale del partito e presidente, è stata vista da molti come una vittoria per i riformisti di destra. Nei circoli di politica estera degli Stati Uniti, si sperava che Xi fosse un altro Michail Gorbačëv, e ampliasse la privatizzazione dell’economia cinese e le riforme liberali, che avrebbero finito per far cadere il Partito Comunista Cinese.[34] Nei primi anni del suo primo mandato, a molti Xi sembrava effettivamente seguire un percorso riformista. Il suo “Sogno Cinese” di una Cina di nuovo forte e avviata a diventare "una grande società socialista moderna" (dopo essersi "rialzata" sotto Mao e essere diventata "più prospera" sotto Deng) era spesso visto come una posizione puramente nazionalista.[35] Ma ben presto divenne chiaro che per Xi, il Sogno Cinese era interamente in accordo con il Socialismo con Caratteristiche Cinesi, e che non solo egli si trovava d’accordo con la posizione conservatrice (di sinistra), ma rappresentava un "Gorbačëv al contrario", che si dedicava a ristabilire la «connessione tra partito e popolo, in stile Linea di Massa».[36] Un fattore chiave, che portò all’inimicizia occidentale, è stata la presentazione nel 2013, da parte di Xi, della Belt and Road Initiative [Nuova Via della Seta], che aveva come obiettivo la realizzazione di una massiccia infrastruttura globale che avrebbe collegato la Cina, in termini di relazioni geo-economiche, al Sud globale e all’Europa.

Se il “Pivot to Asia” di Obama mirava a potenziare l’accerchiamento militare e geo-economico della Cina, il guanto di sfida non era stato ancora lanciato in modo decisivo da Washington, poiché gli strateghi statunitensi speravano ancora in un nuovo Gorbačëv, che avrebbe minato internamente il partito, indebolendo la Cina e la sfida globale che essa rappresentava. Nel 2015, non solo era chiaro che Xi fosse sincero nel portare avanti il socialismo, con le sue proposte per la Nuova Era, ma che il vento spirava contro i riformisti.[37] Gli strateghi repubblicani intorno a Trump, durante la sua campagna elettorale del 2016, furono i primi a chiedere una Nuova Guerra Fredda con la Cina (cercando nel contempo una détente [distensione] con la Russia). I democratici, al contrario, nonostante l’appello di Obama per un "pivot", erano ancora concentrati più sulla Russia che sulla Cina.[38] Ma con l’inizio della Nuova Guerra Fredda da parte di Trump, che varò enormi aumenti delle tariffe sulla Cina, aumenti di sanzioni e una grande spinta militare, i democratici si allinearono rapidamente. La Cina fu quindi dichiarata una "Potenza Revisionista" che minacciava «l’ordine internazionale basato sulle regole». Questa frase, sia chiaro, non si riferisce al diritto internazionale, al sistema di diplomazia internazionale westfaliano, all’assemblea generale delle Nazioni Unite, alla Corte Internazionale di Giustizia o anche all’Organizzazione Mondiale del Commercio (che gli Stati Uniti hanno ridotto a una non-entità, minando il suo processo giuridico). Piuttosto, l’«ordine internazionale basato sulle regole» indica le principali istituzioni (economiche e militari) dell’imperium globale degli Stati Uniti: dalla Banca Mondiale, al Fondo Monetario Internazionale, all’egemonia del dollaro, al sistema globale di basi militari e alleanze statunitensi.[39]

Fin dove si sia spinto, negli Stati Uniti, il discorso della Nuova Guerra Fredda, sempre più centrato sull’Indo-Pacifico, si può vedere in un articolo intitolato "No Substitute for Victory: America’s Competition with China Must Be Won Not Managed", nel numero di maggio/giugno 2024 di Foreign Affairs, scritto da Matt Pottinger e Mike Gallagher.[40] Pottinger è stato il vice consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, nella Casa Bianca di Trump, dal 2019 al 2021. Gallagher è stato un rappresentante degli Stati Uniti del Wisconsin dal 2017 al 2024, e presidente dell'House Select Committee on the Chinese Communist Party. Ora lavora per la società Palantir Technologies, una multinazionale statunitense di sorveglianza e data mining [estrazione di dati], supportata dalla CIA, con forti legami con il deep state e Israele.[41] Pottinger e Gallagher appoggiano con forza la posizione aggressiva dell’amministrazione Biden verso la Cina, ma sostengono che non sia ancora abbastanza, perché non ha dichiarato ufficialmente una “Nuova Guerra Fredda” con la Cina.

Ignorando in gran parte il fatto che, sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti sono stati chiari sia a parole che nei fatti circa il loro coinvolgimento in un’offensiva strategica contro la Cina, Pottinger e Gallagher, capovolgendo la realtà, proclamano che «una guerra fredda è già in corso contro gli Stati Uniti da parte dei leader cinesi» – affermazione a cui Washington non ha risposto in modo sufficiente.[42] La loro prova di ciò, è che la Cina ha fornito supporto militare alla Russia nella sua guerra con l’Ucraina, sotto forma di polvere da sparo, semiconduttori, droni non specificati, «e altri beni». Pechino, ci viene detto, si è preparata per un possibile intervento militare contro Taiwan (una parte della Cina). Inoltre, la Cina ha sfruttato il suo controllo sugli algoritmi di TikTok per scatenare una propaganda contro Israele a seguito dell’Al-Aqsa Flood palestinese il 7 ottobre 2023, utilizzando poi il suo potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare la condanna di Hamas. In aggiunta a questo, ci viene riportato alla memoria il pallone cinese che ha deviato rotta attraverso gli Stati Uniti (sebbene questo non costituisse una minaccia per la sicurezza), accompagnato dalla pretesa, come sosteneva l’amministrazione Trump, che il COVID-19 fosse in qualche modo un «Virus della Cina» e potesse avere avuto origine in un laboratorio cinese – fatto che gli investigatori scientifici hanno ormai completamente smentito.[43]

Quale prova dell’"aggressione" cinese, tutto questo è pietoso in termini storico-mondiali. Confrontati con gli esempi reali di massicci interventi militari statunitensi all’estero negli ultimi trentacinque anni, durante i quali gli Stati Uniti sono stati coinvolti in guerre, contro-insurrezioni, colpi di stato, sanzioni ed embarghi su tutti i continenti abitati, causando la morte di milioni di persone, le cosiddette "aggressioni" cinesi, difficilmente possono considerarsi rilevanti.[44] In un curioso ribaltamento di ruoli, la Cina è accusata da Pottinger e Gallagher di costituire una minaccia aggressiva, pericolosa e intollerabile per le centinaia di basi militari statunitensi in Asia, che attualmente circondano la Cina stessa.[45]

Gran parte del tentativo di Pottinger e Gallagher, di giustificare una Nuova Guerra Fredda contro la Cina, è rivolto direttamente a Xi, criticato per aver affermato che il mondo attuale si trova nel «caos», il che, nella loro immaginazione bellicosa, significa che Xi sta maliziosamente «fomentando il caos globale» a spese degli Stati Uniti. Xi deve essere condannato, inoltre, non solo per il suo ruolo di «agente del caos» ma per aver «denigrato Gorbačëv», che come capo del Partito Comunista Sovietico ha presieduto alla distruzione dell’URSS. Xi dovrebbe quindi essere classificato, secondo Pottinger e Gallagher, come un "nemico implacabile" degli Stati Uniti, responsabile dell’"imperialismo del CCP [Chinese Communist Party]" – anche se non è chiaro: "imperialismo" in relazione a cosa.[46] (È notevole che la denominazione ufficiale sia Communist Party of China [CPC]. Questo sottolinea il fatto che il CPC appartiene specificamente alla Cina piuttosto che essere parte di un’entità internazionale. CCP, al contrario, è comunemente usato, in modo improprio in Occidente e in particolare negli Stati Uniti, con l'obiettivo di suggerire, in modo molto acuto, l'esatto contrario per effetto propagandistico.)[47]

È del tutto essenziale, dichiarano Pottinger e Gallagher, che l’opposizione alla Cina, e in particolare, al Partito Comunista Cinese, sia presentata per quello che è: una Nuova Guerra Fredda, da vincere o da perdere. «Il disagio dei politici statunitensi riguardo al termine "guerra fredda"», scrivono, “fa sì che essi trascurino il modo in cui esso può mobilitare la società. Una guerra fredda offre un quadro comprensibile che gli americani possono usare per guidare le proprie decisioni», consentendo in questo modo «al governo degli Stati Uniti [...] di reclutare la prossima generazione di cool warriors [...] da schierare contro la Cina».[48] I preparativi di guerra degli Stati Uniti contro la Cina, propongono i due, dovrebbero essere notevolmente ampliati, aumentando «l’impronta militare degli Stati Uniti» nell’Indo-Pacifico, e Washington dovrebbe armare tutte le sue relazioni politiche ed economiche nella super-regione strategica. Oltre a ciò, insistono, gli Stati Uniti dovrebbero spendere «ulteriori» 100 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni sotto forma di un «fondo di deterrenza» per dominare lo Stretto di Taiwan, nelle acque territoriali cinesi. Complessivamente, chiedono un vasto aumento della «spesa per le armi e la base industriale [militare] destinata all’Indo-Pacifico».[49]

Una parte cruciale dell’argomentazione di Pottinger e Gallagher in Foreign Affairs, è che Washington dovrebbe essere chiara riguardo allo "stato finale" che mira a raggiungere nella Nuova Guerra Fredda con la Cina, che non è altro che la fine del governo di Xi e la distruzione del Partito Comunista Cinese, replicando gli sviluppi del periodo Gorbačëv nell’Unione Sovietica. Piuttosto che modellarsi su Gorbačëv, come speravano le potenze occidentali, Xi, accusano i due, si è modellato su "Joseph Stalin". Lo "stato finale" che si vuole promuovere è quindi lo stesso che il presidente Ronald Reagan aveva avanzato riguardo all’URSS: porre fine al «male nel mondo moderno» attraverso la distruzione esterna e interna del Partito Comunista Cinese, per porre fine alla Rivoluzione Cinese, ormai settantacinquenne.[50]

Il fatto che l’articolo di Pottinger e Gallagher dedicato a una Nuova Guerra Fredda intensificata contro la Cina sia apparso sulla rivista di punta del Council of Foreign Relations – Foreign Affairs – significa che ha in qualche modo ottenuto il sostegno bipartisan dell’ordine strategico statunitense. La stessa amministrazione Biden giustifica il suo rafforzamento militare nell’Indo-Pacifico in termini di necessaria difesa delle nazioni della super-regione di fronte all’ascesa della Cina. Ciò richiede un «dispiegamento avanzato» più aggressivo da parte degli Stati Uniti. Secondo la Indo-Pacific Strategy of the United States del 2022, la Cina «cerca di diventare la potenza più influente al mondo», sostituendo gli Stati Uniti, e proprio per questo costituisce un pericolo per i paesi nell’Indo-Pacifico e per il mondo intero. Inoltre, l’obiettivo dichiarato di Washington è portare la North Atlantic Treaty Organization (NATO) più attivamente nell’Indo-Pacifico. Al centro dell'intera strategia indo-pacifica c'è la costruzione di una forte relazione con l'India, come «fornitore netto di sicurezza» all'interno del Quad.[51] A ciò si aggiunge l'articolazione di una strategia di armamento generale, che trasforma i beni militari statunitensi in ulteriore potere economico e il potere economico in potere strategico-militare.[52]

Quale parte della Nuova Guerra Fredda contro la Cina, l’amministrazione Biden non solo ha mantenuto le tariffe di Trump che hanno armato le relazioni commerciali, ma le ha portate, nel maggio 2024, a livelli che la rivista The Economist ha definito “ultra-elevati.” La tariffa sui veicoli elettrici cinesi è quadruplicata dal 25% al 100%, mentre la tariffa sui pannelli solari è aumentata dal 25% al 50%, sulle batterie agli ioni di litio dal 7,5% al 25%, e su siringhe e aghi dallo 0% al 50%. Lungi dal libero scambio, questa è una guerra commerciale.[53]

Tuttavia, i tentativi statunitensi di limitare lo sviluppo cinese si basano, in ultima analisi, sul suo accerchiamento strategico, facendo forza sulle sue cinque alleanze di difesa nell’Indo-Pacifico (con Giappone, Australia, Corea del Sud, Filippine e Thailandia), e con i suoi numerosi partenariati strategici. L’obiettivo è formare un conflitto tra blocchi, o quella che Haushofer, nella sua geopolitica molto esplicita, chiamava una strategia “Anaconda”, di costrizione dell'avversario attraverso la coercizione militare.[54]

Nell'aprile del 2024, le forze armate statunitensi hanno iniziato a dispiegare nell'Indo-Pacifico un nuovo sistema missilistico terrestre a raggio intermedio, noto come Typhon, che comprende missili da crociera Tomahawk, missili intercettori multiuso Supersonic Standard Missile-6 (SM-6) e il sistema di lancio verticale terrestre Mark 41. È la prima volta che Washington introduce un sistema missilistico offensivo terrestre a medio raggio in tutto il mondo da quando, nel 2019, si è ritirata unilateralmente dal trattato con la Russia sulle forze nucleari a raggio intermedio, che vietava il dispiegamento di tutti questi missili.

Nel caso di Typhon, il sistema missilistico serve a scopi multipli, trasportando "carichi utili" sia nucleari che non nucleari. Il sistema missilistico Typhon, attualmente installato a Luzon Nord nelle Filippine, nella prima catena di isole a sud di Taiwan, ha una gittata di oltre 1.600 chilometri (nel caso dei missili Tomahawk), in grado di raggiungere la costa orientale della Cina, lo Stretto di Taiwan e le basi dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese. Sebbene il nuovo sistema sia stato introdotto su base "temporanea" nelle Filippine, non c'è certezza, secondo il Congressional Research Service statunitense, che il suo dispiegamento non sarà permanente, mentre il comandante dell'U.S. Army Pacific ha indicato che gli Stati Uniti intendono installare sistemi Typhon permanenti nell'Indo-Pacifico. Pechino considera l'attuale dispiegamento di tali missili come una grave provocazione che potrebbe generare una corsa agli armamenti strategici. Questi dispiegamenti, da parte di Washington, di sistemi missilistici terrestri a raggio intermedio nell'Indo-Pacifico segnano chiaramente una pericolosa escalation, che minaccia una Terza Guerra Mondiale.[55]

Tuttavia, tutte le evidenze confermano che la maggior parte delle nazioni dell’Indo-Pacifico hanno ridotto la loro spesa militare nell’ultimo decennio e non hanno reali paure di aggressione militare da parte della Cina, con cui hanno sperimentato crescenti interazioni economiche, stimolando una crescita condivisa nella regione.[56] Pertanto, si ritiene ampiamente che il principale perturbatore dei processi di pace comparati nell’Indo-Pacifico siano gli Stati Uniti, che hanno come obiettivo esplicito il mantenimento del loro ruolo imperiale egemonico, cioè, la loro preminenza sia nella super-regione indo-pacifica che nel mondo.


Controllo del mare e accerchiamento della Cina

Oggi, la "narrazione speculare" di Washington continua, soprattutto nel contesto dell’Indo-Pacifico, in cui il suo imperialismo viene presentato come antimperialismo e fondamentale per il mantenimento della "pace" nella regione per settantacinque anni, dalla Rivoluzione cinese. Ci viene detto che il ruolo degli Stati Uniti nella regione è quello di promuovere «libertà e apertura», offrire »autonomia e opzioni» e stabilire «approcci basati su regole».[57] Nel complesso, gli obiettivi sono il mantenimento della «sicurezza» e della «prosperità regionale». In questa grande strategia imperiale, la geopolitica e la geoeconomia sono profondamente intrecciate.[58] Oggi, circa «due terzi dell’economia mondiale» hanno la loro base qui, il che ha stimolato ulteriori investimenti finanziari, politici e militari nella regione che Washington vede come «il centro di gravità del mondo».[59]

Per riuscire nel suo obiettivo di «costruire un equilibrio di influenza nel mondo che sia quanto più favorevole agli Stati Uniti», Washington ci dice che deve proteggere i suoi alleati nell’Indo-Pacifico dal «bullismo» e dal «comportamento dannoso» della Cina.[60] Questa è una necessità assoluta, poiché «il Chinese Communist Party (CCP)», sostiene il Dipartimento di Stato americano, «rappresenta la minaccia centrale dei nostri tempi», aspirando a diventare una superpotenza sia regionale che globale. Pertanto, la Cina, ci viene detto, «non è un cittadino modello del mondo» ma una «potenza revisionista» e deve essere contrastata.[61] Secondo l'Indo-Pacific Strategy di Biden, questo piano prevede di costruire «alleanze con trattati corazzati»; creare una maggiore connettività «tra l’Indo-Pacifico e l’Euro-Atlantico» che si estende fino alle nazioni all’interno della NATO; creare una «deterrenza integrata» negli «ambiti di guerra»; aumentare gli investimenti nel miglioramento delle capacità e delle operazioni militari statunitensi, comprese esercitazioni congiunte con gli alleati; e l’espansione della presenza militare statunitense.[62] Strategicamente, significa dare priorità alla «più grande forza asimmetrica», ovvero la «rete di alleanze e partenariati di sicurezza» degli Stati Uniti nella regione per «sviluppare e dispiegare capacità di guerra avanzate» per proteggere i cittadini e gli interessi acquisiti.[63] Il più ampio piano imperiale prevede la strategia Anaconda, ovvero circondare la Cina con basi militari statunitensi e utilizzare i vari trattati di alleanza e accordi di sicurezza come base per cercare di «contenere la Cina» strategicamente.[64] Queste azioni, in particolare la ripresa del Quad Security Dialogue, hanno sollevato dubbi sul fatto che gli Stati Uniti stiano cercando di creare una NATO asiatica come parte della loro Nuova Guerra Fredda, qualcosa che è stato più volte lasciato intendere da Washington.[65]

Sebbene gli Stati Uniti affermino con forza di essere «una potenza indo-pacifica» con legami che risalgono a centinaia di anni fa, la loro posizione strategica nella regione oggi, che comprende vere e proprie colonie come Guam e Samoa americane, nonché dipendenze e serie di basi militari – è in gran parte il prodotto storico della Guerra ispano-americana, della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra Fredda. Uno stato americano, Hawaii, è descritto dalle forze armate statunitensi come pienamente all'interno della sua regione di operazioni USINOPACOM, che, insieme alle colonie statunitensi nella super-regione, intende affermare il ruolo degli Stati Uniti come potenza sovrana all'interno dell'Indo-Pacifico, nonché la forza militare preminente.

Quando, a metà del XX secolo, il Regno Unito iniziò a "ritirarsi" dall’Indo-Pacifico, firmò una serie di accordi di intelligence per condividere informazioni riguardanti Cina e URSS. L'accordo UKUSA (Regno Unito - Stati Uniti d'America) fu firmato nel 1946. Questo accordo fu ampliato nel 1948 e nel 1956 per includere Australia, Canada e Nuova Zelanda, istituendo i "Cinque Occhi" che raccolgono e condividono difesa, risorse umane e intelligence geopolitiche, per coordinare gli sforzi tra le agenzie di intelligence all’interno e tra le nazioni. I suoi sforzi coordinati furono impiegati per monitorare le operazioni del Viet Minh nella guerra del Vietnam. Nel 1971 il Regno Unito stabilì anche iFive Power Defence Arrangements tra sé e i membri del Commonwealth: Australia, Malesia, Nuova Zelanda e Singapore, in base ai quali le nazioni accettarono di consultarsi reciprocamente su potenziali minacce nella regione per garantire la "stabilità" dell’Indo-Pacifico.[66]

Nel tentativo di espandere ulteriormente la propria presenza nell’Indo-Pacifico, Washington ha affermato la propria potenza navale, sia militarizzando le nazioni alleate contro la presunta minaccia della Cina, sia costruendo un’infrastruttura geopolitica più ampia. Delle quaranta nazioni dell’Indo-Pacifico, gli Stati Uniti, come notato, hanno solo alleanze militari (patti di difesa) con cinque nazioni: Australia, Giappone, Filippine, Repubblica di Corea (Corea del Sud) e Thailandia. Queste alleanze, più offensive che difensive, hanno come obiettivi principali la Cina, la Corea del Nord e la Russia.[67] Nello sforzo di costruire un blocco strategico più ampio, Washington ha anche tentato di stabilire ulteriori partenariati di sicurezza con India, Indonesia, Malesia, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam.

Gli Stati Uniti vedono sempre di più l’India come un attore chiave all’interno della loro grande strategia imperiale, indicando che «l’India gioca un ruolo vitale nel realizzare la nostra visione condivisa per un Indo-Pacifico libero e aperto».[68] Pertanto, nel 2016, gli Stati Uniti hanno stabilito un importante partenariato di difesa con l’India per elevare la sua capacità militare e posizionarla come «fornitore di sicurezza della rete» nella super-regione. Questo accordo fornisce all’India un «accesso senza licenza» per l’acquisto di tecnologie militari supervisionate dal Dipartimento del Commercio. Il commercio di difesa militare con l’India, coordinato dal Bureau of Political-Military Affairs degli Stati Uniti, è aumentato «da quasi zero nel 2008 a oltre 20 miliardi di dollari nel 2020».[69] Oltre a incoraggiare l’India ad acquistare aerei da combattimento Lockheed Martin e Boeing, gli Stati Uniti hanno offerto all’India, un paese con cui non ha accordi, un sistema aereo senza pilota di categoria 1 per il regime di controllo della tecnologia missilistica.

Nel tentativo di basarsi sui trattati esistenti e sui tentativi di avvicinare l’India agli Stati Uniti, il Quad è stato ripreso (ancora una volta) nel 2017, con l’obiettivo dichiarato di limitare l’influenza cinese nell’Indo-Pacifico. Questo dialogo informale sulla sicurezza si è svolto principalmente tra Australia, India, Giappone e Stati Uniti. La presenza dell'India è la chiave in quello che viene definito il dialogo tre-più-uno, poiché gli altri tre fanno già parte del sistema di alleanza militare diretto dagli Stati Uniti nella regione. L’India è stato un partecipante prudente, non volendo sostenere pienamente gli obiettivi occidentali, né modificare profondamente la propria posizione all’interno della regione, o assumere un ruolo di fronte alla sicurezza. Inoltre, nel 2005, l’India ha firmato un partenariato strategico con la Cina per promuovere la prosperità e la pace, per questo ha molteplici partenariati all’interno della regione. Nuova Delhi si è opposta alle proposte di espandere l’adesione al Quad. Tuttavia, le collaborazioni Quad hanno coinciso con un aumento delle esercitazioni militari congiunte nell’Indo-Pacifico, che Washington vede come il precursore di un blocco strategico allargato dell’Indo-Pacifico. Il Quad sfida le rivendicazioni marittime della Cina nel Mar Cinese Meridionale. Si presenta come un veicolo per promuovere gli interessi dell'Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e come la base per lo sviluppo politico-economico. In linea con il "quadro economico indo-pacifico" generale di Biden, è concepito come un contrasto all’iniziativa cinese Belt and Road.[70] Ad oggi, il Quad non ha guadagnato molto terreno come mezzo per portare avanti obiettivi più ampi, ma resiste come uno dei numerosi accordi strategici per sfidare la Cina.

Gli Stati Uniti e tre dei loro alleati – Australia, Giappone e Filippine, ora collettivamente denominati Squad (da non confondere con il Quad) – hanno condotto esercitazioni navali collettive nel Mar Cinese Meridionale nell’aprile e nel maggio 2024. Gli alleati della squadra affermano che queste esercitazioni militari hanno lo scopo di aumentare le loro «capacità congiunte» e «difendere il diritto alla libertà di navigazione e di sorvolo e il rispetto dei diritti marittimi ai sensi del diritto internazionale». La provocazione è chiara, poiché queste operazioni hanno avuto luogo all’interno del «confine marittimo della Cina» e sono viste dalla Cina come parte di Washington che mostra i suoi «muscoli da cannoniera».[71]

Più significativa è la rete di basi militari nell’Indo-Pacifico che circonda la Cina, destinata a mantenere la supremazia navale. Gli Stati Uniti danno per scontato da tempo, di potersi muovere liberamente e impunemente nell’Indo-Pacifico, inviando anche navi e aerei militari attraverso lo Stretto di Taiwan, all’interno delle acque territoriali cinesi, con la giustificazione di garantire la protezione e la sicurezza delle nazioni asiatiche e contribuire a garantire il libero scambio attraverso il partenariato transpacifico. Questa presenza strategica è sempre più importante per Washington, data l’espansione della capacità navale cinese e l’ampliamento del commercio tra la Cina e altri paesi asiatici, che ha ridotto il ruolo economico relativo degli Stati Uniti nella super-regione.

Secondo il rapporto US Defense Infrastructure in the Indo-Pacific del giugno 2023, del Congressional Research Service, gli Stati Uniti hanno «almeno 66 siti di difesa significativi sparsi nella regione», altrimenti specificati come «l'epicentro della geopolitica del 21° secolo».[72] Alcune di queste basi si trovano sulla costa del Pacifico degli Stati Uniti (a causa del modo in cui il Congresso americano ha definito la super-regione indo-pacifica). Altri possedimenti e territori non governativi degli Stati Uniti (inclusa la colonia americana di Guam) si estendono attraverso l'Oceano Pacifico. Altri ancora si trovano in nazioni alleate, tra cui Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine. Questa infrastruttura militare indo-pacifica, cioè la rete di basi nella super-regione, «ospita più di 375.000 militari statunitensi».[73]

Utilizzando la linea del cambio di data internazionale, per dividere l'Indo-Pacifico in est e ovest, gli Stati Uniti hanno ventisei basi militari a est (dalla costa del Pacifico degli Stati Uniti alla linea del cambio di data) e quaranta basi a ovest (dalla linea del  cambio di data nell'Oceano Pacifico fino alla fine del confine del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti nell'Oceano Indiano).[74] (Vedi Mappa 2: “Siti 'significativi' di difesa statunitensi selezionati nell'Indo-Pacifico.”) Secondo il rapporto del Congressional Research Service, quelli nell'est, sebbene cruciali per il mantenimento della rete complessiva, sono visti come meno probabili bersaglio delle armi convenzionali utilizzate dagli avversari. Al contrario, le basi militari nel Pacifico occidentale sono nodi chiave nelle operazioni militari avanzate, pur essendo potenzialmente nel raggio d’azione delle armi convenzionali. Ancora più importante è la serie di basi a ovest che costituisce il principale punto di partenza per qualsiasi attacco diretto dagli Stati Uniti.

Mappa 2. Siti “significativi” selezionati per la difesa statunitense nell’Indo-Pacifico


Fonte:
adattato da “Figura 2: Defense Sites in the Indo-Pacific”, U.S. Congress, Congressional Research Service, U.S. Defense Infrastructure in the Indo-Pacific, 6 giugno 2023.


Queste "significative" sessantasei basi militari statunitensi nell’Indo-Pacifico, designate dal Congressional Research Service, sono solo una parte delle infrastrutture di difesa impiegate per circondare la Cina: come ha notato il defunto John Pilger, ci sono realisticamente circa quattrocento basi militari che circondano la Cina.[75] Le basi nell’Indo-Pacifico sono cruciali per mantenere la supremazia navale. Sono viste come una componente significativa del contenimento strategico della Cina. A tal fine, gli Stati Uniti stanno negoziando attivamente con le nazioni ospitanti per stabilire basi aggiuntive, sia in modo permanente che come luoghi di emergenza per le operazioni di supporto. Dal 2011 si sono assicurati altre dodici basi in Australia e nelle Filippine. Nuove strutture e installazioni vengono costruite a Guam e in Giappone. Tra gli anni fiscali 2020 e 2023, il Congresso ha stanziato 8,9 miliardi di dollari per sostenere la costruzione di nuovi siti militari nell’Indo-Pacifico. La Pacific Deterrence Initiative è stata proposta nel 2020, ed è stata utilizzata per finanziare ulteriori investimenti per modernizzare, rafforzare ed espandere la presenza militare, le capacità e le infrastrutture statunitensi nell’ambito dell’USINDOPACOM, al fine di migliorare la reattività contro la Cina e assicurare agli alleati il sostegno militare statunitense.[76]

Una componente chiave della rete di basi militari statunitensi è il Compacts of Free Association, altrimenti noto come COFA. Questi accordi internazionali tra gli Stati Uniti e le Isole Marshall, la Micronesia e la Repubblica di Palau, furono inizialmente stabiliti negli anni ’80, garantendo agli Stati Uniti il permesso esclusivo di gestire basi militari sulle loro terre. Queste nazioni insulari si trovano tutte tra le Hawaii e le Filippine. Di conseguenza, gli accordi negoziati sono fondamentali per stabilire e mantenere il controllo degli Stati Uniti sul corridoio principale e ininterrotto attraverso il Pacifico centrale, nonché per collegarsi direttamente alla rete di basi militari a ovest della linea internazionale del cambio di data nell’Indo-Pacifico. Gli accordi separati sono stati rinnovati e firmati nel 2023, estendendo tali diritti per i prossimi vent'anni. In cambio, gli Stati Uniti continueranno a fornire assistenza finanziaria, che include il servizio postale, per un totale di oltre 7 miliardi di dollari.

Uno dei più recenti ed aggressivi accordi di blocco militare stabiliti da Washington è AUKUS, che comprende Australia, Regno Unito e Stati Uniti. Istituito nel 2021, AUKUS si basa sulla promozione della sicurezza militare, superando l’accordo di intelligence Five Eyes. Ci sono molti interessi nel perseguire tecnologie associate alla guerra informatica ed elettronica. Inoltre, un obiettivo importante coinvolge sia il Regno Unito che gli Stati Uniti per aiutare l’Australia ad acquisire sottomarini a propulsione nucleare come parte dell’espansione della capacità militare di quest’ultima. Questo accordo ha suscitato grave preoccupazione da parte di altri paesi dell’Indo-Pacifico, tra cui Indonesia e Malesia, sulla possibilità che l’AUKUS possa provocare ulteriori conflitti, proliferazione nucleare nel Pacifico occidentale ed esiti mortali. I sottomarini a propulsione nucleare sono visti come un pericoloso primo passo verso l’introduzione di sottomarini dotati di armi nucleari, in questo caso su istigazione di due potenze nucleari occidentali. I colloqui iniziali sull’espansione di AUKUS si sono concentrati sul Giappone, che supporta l’Australia nel ricevere sottomarini a propulsione nucleare, e sulla Nuova Zelanda, che ha dichiarato che potrebbe prendere in considerazione la partecipazione agli aspetti non-nucleari della partnership.[77]

Dato lo sviluppo delle infrastrutture militari ed economiche statunitensi, dirette principalmente contro la Cina, e di cui Pechino è profondamente consapevole, [Pechino] ha cercato di intraprendere azioni per salvaguardare la propria sicurezza. Tuttavia, Washington assicura ai suoi alleati che il suo Joint Concept for Access and Maneuver in the Global Commons, precedentemente noto come Air Sea Battle, offre un approccio integrato che «interromperà, distruggerà e sconfiggerà» le strategie militari difensive degli avversari, come la Cina.[78] C’è poca esitazione negli ambienti militari statunitensi nel fare riferimento ad una possibile Terza Guerra Mondiale nell’Indo-Pacifico, anche se questa si trasformerebbe quasi inevitabilmente in uno scambio termonucleare che metterebbe a rischio tutta l’umanità. Per questo motivo, la Nuova Guerra Fredda contro la Cina promossa da Washington, incentrata sul controllo dell’Indo-Pacifico, è una chiara manifestazione di quella che oggi è «la fase potenzialmente più pericolosa dell’imperialismo».[79]


Tardo Imperialismo e Indo-Pacifico


La realtà sostanziale che governa l’attuale strategia imperiale statunitense è il forte declino dell’egemonia economica, finanziaria e politica degli Stati Uniti nel mondo. Dalla Seconda Guerra Mondiale, il capitalismo statunitense ha governato l’economia mondiale attraverso un “imperialismo egemonico globale”. Ora che questa egemonia sta venendo meno, nel periodo del tardo imperialismo, Washington si trova ad affrontare una serie di contraddizioni ineliminabili all’interno del sistema.[80]

La spinta degli Stati Uniti verso un dominio mondiale unipolare, in seguito alla fine dell’Unione Sovietica nel 1991, è stata un riflesso delle tendenze espansive del capitalismo stesso e delle sue innate divisioni tra Stati-nazione. L’imperialismo è intrinseco al capitalismo e ne rappresenta il volto globale. Tre decenni dopo l’avvio del dominio unipolare, tuttavia, la situazione si sta rapidamente spostando verso un mondo multipolare. Sebbene gli Stati Uniti, con la loro vasta potenza militare, siano ancora la forza preminente di distruzione globale, la loro capacità di tradurla in un rinnovamento del proprio potere economico e politico è limitata. Gli scontri militari con altre grandi potenze sollevano il problema dell'Armageddon globale. Come ha recentemente riconosciuto anche lo stratega repubblicano, e aggressivo falco anti-cinese, Elbridge Colby, principale autore, nel 2018, della National Defense Strategy dell’amministrazione Trump, i giorni del "primato" degli Stati Uniti come potenza egemonica mondiale sono finiti: «una politica estera di supremazia degli Stati Uniti, semplicemente non è possibile».[81] Procedere in questa direzione è quindi una follia.

Oltre a tutto ciò, gli Stati Uniti si trovano di fronte la Repubblica Popolare Cinese, un paese che ha registrato la più rapida crescita economica di tutta la storia, basata su una formazione sociale molto diversa, che fa affidamento sui punti di forza sia dello Stato che del mercato sotto forma di Socialismo con Caratteristiche Cinesi. Essendo una civiltà di cinquemila anni, la Cina rappresenta una sfida culturale ed economica per l’Occidente, spingendo, con le sue iniziative di civiltà globale, verso nuove norme globali. La Cina, invece di cercare di creare un blocco militare contrapposto a quello degli Stati Uniti e dei suoi alleati, si è opposta alla formazione di qualsiasi "confronto tra blocchi".[82]

La risposta statunitense è stata quella di considerare l’ascesa della Cina sempre più come una questione di sicurezza da affrontare strategicamente. Gli Stati Uniti riconoscono che se la presenza economica complessiva della Cina nell’Indo-Pacifico dovesse espandersi ulteriormente, il controllo degli Stati Uniti su quello che oggi è il centro industriale del globo diminuirebbe proporzionalmente, portando alla fine dell’impero statunitense. Con decenni di stagnazione economica, derivanti dal capitalismo monopolistico alle spalle e senza alcuna via d’uscita visibile, gli Stati Uniti non sono in grado di mantenere il proprio dominio esclusivamente con mezzi economici. Quindi, la classe capitalista statunitense, insieme a quella dei suoi alleati occidentali, sta ora minacciando, con le sue azioni, di far crollare il tetto sull’intera l’umanità.

Per giustificare la sua escalation nell’Indo-Pacifico, Washington ha dovuto dipingere Pechino come una minaccia per le nazioni circostanti. Tuttavia, delle oltre quaranta nazioni dell’Indo-Pacifico, solo cinque hanno trattati di difesa con gli Stati Uniti, per lo più frutto di guerre passate. In effetti, la percezione generale dei paesi dell’Indo-Pacifico negli ultimi due decenni è stata quella di una crescente sicurezza, grazie a quella che viene effettivamente considerata la posizione non aggressiva della Cina e alle relazioni economiche e commerciali sempre più integrate. Per quanto si verifichino dispute commerciali e territoriali, la Cina è generalmente vista in Asia come una fonte di sviluppo economico collettivo. Ha firmato più accordi di libero scambio con i Paesi dell’Indo-Pacifico rispetto agli Stati Uniti. Sta inoltre fornendo ingenti fondi per lo sviluppo ad altre nazioni dell’Indo-Pacifico. Nel 2017. la Cina ha distribuito 36 miliardi di dollari in tali fondi, facendo impallidire i 3 miliardi di dollari provenienti dagli Stati Uniti.[83] In generale, le nazioni della super-regione vedono un’economia integrata con la Cina come una soluzione vantaggiosa per tutti, mentre percepiscono come una proposta perdente, la militarizzazione delle relazioni economiche e politiche per volere degli Stati Uniti.

Come ha sostenuto lo stimato studioso di relazioni internazionali David C. Kang in American Grand Strategy and East Asian Security in the Twenty-First Century (2017) e in altri lavori, negli ultimi due decenni si è assistito ad un calo generale delle spese militari, in percentuale del PIL, nei maggiori stati dell’Asia orientale. Se si considerano gli undici stati più grandi, la percentuale è scesa a circa la metà di quella di due decenni e mezzo prima, passando da una media del 3,35% nel 1990, a una media dell’1,8% nel 2015, una tendenza che è continuata.[84] Ciò indica, oggettivamente, una percezione di aumento, piuttosto che di diminuzione, della sicurezza nazionale nella regione. È questo clima di pace che gli Stati Uniti minacciano di turbare, non per il bene dell’Asia orientale ma per preservare a tutti i costi la loro preminenza come potenza mondiale.

C. Wright Mills ha affermato che «la causa immediata della Terza Guerra Mondiale è la sua preparazione».[85] Gli Stati Uniti, di fronte alla fine del loro imperialismo egemonico globale, non solo si stanno preparando per una Terza Guerra Mondiale, ma la stanno attivamente provocando. Ci sono segnali, tuttavia, che un movimento antimperialista di massa sta nuovamente emergendo negli Stati Uniti e negli altri Paesi del nucleo imperialista dell’economia mondiale capitalista, a partire dal movimento Free Palestine, in risposta alla guerra genocida di Israele a Gaza, sostenuta da Washington. Il movimento mondiale deve essere antimperialista, anticapitalista, contro la guerra ed ecologico. Poiché l’alternativa è lo sterminismo*** globale, è una lotta che solo l’umanità può vincere.


Note

* N.d.T. Questa è la traduzione letterale di revisionist power, da intendersi come una potenza che mette in discussione gli attuali rapporti di forza.

** N.d.T.
L'insieme delle attività dell'azienda costituisce il capitale lordo. La differenza tra attività e passività rappresenta il capitale netto.

*** N.d.T. Il termine exterminism, qui ripreso da J. B. Foster, ed adottato anche da Dario Paccino, è stato usato per la prima volta dallo storico inglese Edward P. Thompson, vedi: https://newleftreview.org/issues/i121/articles/edward-thompson-notes-on-exterminism-the-last-stage-of-civilization.



[1] Karl Ernst Haushofer, Geopolitics of the Pacific Ocean, Lewiston, New York, Edwin Mellen Press, 2002.

[2] Derwent Whittlesey, Haushofer: The Geopoliticians, in Makers of Modern Strategy, a cura di Edward Meade Earl, Princeton, Princeton University Press, 1973, pp. 384–411; Derwent Whittlesey, The German Strategy of World Conquest, New York, Farrar and Rinehart, 1942, pp. 70–78; Holger H. Herwig, The Demon of Geopolitics: How Karl Haushofer “Educated” Hitler and Hess, New York, Rowman and Littlefield, 2016; John Bellamy Foster, “The New Geopolitics of Empire, Monthly Review 57, n. 8, gennaio 2006, pp. 2–6. Il testo di Whittlesey indica che Hess era un "aiutante di campo" di Haushofer, ma ciò non è presente in altre testimonianze. Whittlesey, Haushofer: The Geopoliticians, p. 408.

[3] Haushofer, The Geopolitics of the Pacific Ocean, pp. 1, 10, 209–10, 217–20; Timothy Doyle e Dennis Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, Oxford, Oxford University Press, 2019, pp. 28–39.

[4] Halford Mackinder, Democratic Ideals and Reality, New York, Henry Holt and Co., 1919, p. 186.

[5] Hans W. Weigert, Haushofer and the Pacific, Foreign Affairs 20, n. 4. luglio 1942, pp. 732–42; Robert Strauss-Hupé, Geopolitics: The Struggle for Space and Power, New York, G. P. Putnam Sons, 1942, p. 152; Franz Neumann, Behemoth, Oxford, Oxford University Press, 1942, p. 144; Foster, The New Geopolitics of Empire, p. 4. L'influenza di Haushofer diminuì rapidamente nella Germania nazista dopo la fuga di Hess in Gran Bretagna. Haushofer si era chiaramente opposto (anche se non sappiamo quanto apertamente) all'invasione dell'Unione Sovietica da parte di Hitler e all'invasione della Cina da parte dell'Impero del Giappone, in quanto entrambe in conflitto con la sua idea di un nuovo imperium eurasiatico. Fu rinchiuso per un breve periodo nel campo di concentramento di Dachau e suo figlio fu coinvolto nel tentativo di assassinare Hitler. L'esercito americano lo arrestò alla fine della guerra e lo interrogò. Si suicidò poco dopo . Foster, The New Geopolitics of Empire, p. 5.

[6] Haushofer, Geopolitics of the Pacific Ocean, pp. 1, 10, 14, 208–11, 217.

[7] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, p. 49. Sebbene Geopolitics of the Pacific Ocean di Haushofer, nonostante la sua immensa influenza, sia stato sostanzialmente bandito in ambito anglo-americano e non sia stato tradotto in inglese per tutto il periodo della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra Fredda, una traduzione fu pubblicata nel 2002, sotto la direzione di Lewis A. Tambs, diplomatico dell'amministrazione di Ronald Reagan, il quale sosteneva che la geopolitica dell'Indo-Pacifico di Haushofer fosse essenziale per combattere la Cina. Lewis A. Tambs, prefazione a Geopolitics of the Pacific Ocean, pp. xv–xix. Sul riemergere di un nudo imperialismo, vedi John Bellamy Foster, Naked Imperialism, New York, Monthly Review Press, 2006.

[8] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo Pacific, p. 32; Lawrence H. Shoup e William Minter, Imperial Brain Trust: The Council on Foreign Relations and American Foreign Policy, New York, Monthly Review Press, 1977.

[9] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report: Preparedness, Partnerships, and Promoting a Networked Region, 1 giugno 2019, p. 7, defense.gov. Sull'ordine basato sulle regole e la Cina, vedi John Bellamy Foster, “The New Cold War on China,” Monthly Review 73, no. 3, luglio–agosto 2021, pp. 1–20.

[10] The White House, Indo-Pacific Strategy of the United States, 04.02.2022, whitehouse.gov.

[11] Antony J. Blinken, A Free and Open Pacific,14.12.2021, state .gov.

[12] Hillary Rodham Clinton, America’s Engagement in the Asia-Pacific, intervento a Honolulu, 08.10.2018, state.gov; D. Gnanagurnathan, India and the Idea of the Indo-Pacific, East Asia Forum, 20.10.2012.

[13] Clinton, “America’s Engagement in the Asia-Pacific.”

[14] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo Pacific, p. 78.

[15] White House, National Security Strategy of the United States of America, dicembre 2017, pp. 45–46.

[16] The Coming War on China: Pilger Says US Is the Real Threat in the Pacific, Not China, Sydney Morning Herald, 09.02.2017.

[17] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, 7, 11–12.

[18] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, pp. 15–16.

[19] Vedi Matt Pottinger e Mike Gallagher, No Substitute for Victory: America’s Competition with China Must Be Won, Not Managed, Foreign Affairs, maggio-giugno 2024), 25–39; David Geaney, “What Would Victory Against China Look Like?,” Journal of Indo-Pacific Affairs, September 21, 2023; Foster, “The New Cold War on China,” 16.

[20] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, p. 5.

[21] David C. Kang, Still Getting Asia Wrong: No ‘Contain China’ Coalition Exists, Washington Quarterly, Inverno 2023, pp. 79–98; David C. Kang, American Grand Strategy and East Asian Security in the Twenty-First Century, Cambridge, Cambridge University Press, 2017.

[22] Yi Wen, The Making of an Economic Superpower: Unlocking China’s Secret of Rapid Industrialization, Working Paper 2015-006B, Economic Research Division, Federal Reserve Board of St. Louis, 02.08.2015, stlouisfed.org. Vedi anche Cheng Enfu, China’s Economic Dialectic: The Original Aspiration of Reform, New York, International Publishers, 2019.

[23] Yi Wen, China’s Rapid Rise: From Backward Agrarian Society to Industrial Powerhouse in Just 35 Years, Regional Economist, Federal Reserve Board of St. Louis, 11.04.2016; John Ross, China’s Great Road, Glasgow, Praxis Press, 2021, p. 23; Yi Wen, Income and Living Standards Across China, On the Economy (blog), Federal Reserve Board of St. Louis, 08.01.2018.

[24] David Christian, Maps of Time, Berkeley, University of California Press, 2004, pp. 406–9; Paul Bairoch, The Main Trends in National Economic Disparities Since the Industrial Revolution, in Disparities in Economic Development Since the Industrial Revolution, New York, St. Martin’s Press, 1981, pp. 7–8; Ben Norton, China Is ‘World’s Sole Manufacturing Superpower,’ with 35% of Global Output, Geopolitical Economy Report, 31.01.2024, geopoliticaleconomy.com. Queesto paragrafo è tratto dalla prefazione di John Bellamy Foster a: Cheng, China’s Economic Dialectic, pp. vii–xiii.

[25] Alessandro Nicita e Carlos Razo, China: Rise of a Trade Titan, UNCTAD, 27.04.2021, unctad.org.

[26] Sulla Grande Crisi Finanziaria, vedi John Bellamy Foster e Fred Magdoff, The Great Financial Crisis: Causes and Consequences, New York, Monthly Review Press, 2009.

[27] John Bellamy Foster e Robert W. McChesney, The Endless Crisis, New York, Monthly Review Press, 2012, pp. 158-59; The Next China, The Economist, 29.07.2010.

[28] Vedi Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, Stagnation and the Financial Explosion, New York, Monthly Review Press, 1987.

[29] Vedi Hans G. Despain, Secular Stagnation: Mainstream Versus Marxian Traditions, Monthly Review 67, n. 4, settembre 2015, pp. 1–11.

[30] John Ross, U.S. Dooms Itself to Defeat in Peaceful Competition with China, MR Online, 08.05.2014.

[31] What Is ‘Three Represents’ CPC Theory?, senza data, china.org.cn.

[32] Lin Le, Chinese Politics Since Hu Jintao and the Origin of Xi Jinping’s Strongman Rule: A New Hypothesis, Texas National Security Review, The Scholar, 6, n. 4, Autunno 2023, pp. 38–40, 62–64, tsnr.org.

[33] Lin Le, Chinese Politics Since Hu Jintao, p. 67; David Shambaugh, China’s Leaders: From Mao to Now, Cambridge, Polity, 2021, p. 292, 297; Susan Shirk, Overreach: How China Derailed Its Peaceful Rise, Oxford, Oxford University Press, 2018, p. 160. Uno dei più grandi errori di Gorbaciov, secondo Xi, è stato quello di sottrarre i militari al controllo del Partito. Vedi, Shambaugh, China’s Leaders, p. 297.

[34] Shambaugh, China’s Leaders, p. 317; Lin Le, Chinese Politics Since Hu Jintao, p. 43; Shirk, Overreach, pp. 42, 183–84.

[35] Xi, The Governance of China, vol. 3, p. 12; Foster, The New Cold War on China, 10, 14–15. Sebbene l'analisi di Xi sia sorprendentemente coerente, nel secondo volume di The Governance of China (2014–17) si nota una maggiore enfasi sul "socialismo con caratteristiche cinesi" e, nello specifico, sulle modalità sociali di governance, rispetto al primo volume (2012-14). Xi Jinping, The Governance of China, vol.1, Beijing, Foreign Languages Press, 2014, sec. ed., 2018; Xi Jinping, The Governance of China, vol. 2, Beijing, Foreign Languages Press, 2017.

[36] Shambaugh, China’s Leaders, p. 317; Lin Le, Chinese Politics Since Hu Jintao, p. 43.

[37] Lin Le, Chinese Politics Since Hu Jintao, pp. 73–75; vedi anche Xi, A Bright Future for Socialism with Chinese Characteristics, 20.08.2014, The Governance of China, vol. 2, pp. 3–17.

[38] John Bellamy Foster e Robert W. McChesney, Trump in the White House, New York, Monthly Review Press, 2017, pp. 32, 51–52, 84–85.

[39] Foster, The New Cold War on China, pp. 7–9.  Sull'effettiva distruzione da parte di Washington del processo giuridico del World Trade Organization, vedi, Notes from the Editors, Monthly Review 75, n. 5, ottobre 2023.

[40] Matt Pottinger e Mike Gallagher, No Substitute for Victory: America’s Competition with China Must Be Won, Not Managed, Foreign Affairs, maggio-giugno 2024, pp. 25–39.

[41] Caitlin Johnstone, Empire Managers Explain Why this Movement Scares Them, Caitlin Johnstone (blog), 09.05.2024, caitlinjohnstone.com.au.

[42] Pottinger e Gallagher, No Substitute, p. 26.

[43] Pottinger e Gallagher, No Substitute, pp. 27–30.

[44] David Michael Smith, Endless Holocausts, New York, Monthly Review Press, 2020, pp. 208–9, 256–57.

[45] Pottinger e Gallagher, No Substitute, p. 35.

[46] Pottinger e Gallagher, No Substitute, p. 26, 28, 39.

[47] CCP or CPC: A China Watcher’s Rorschach, China Media Project, 30.03.2023, chinamediaproject.org.

[48] Pottinger and Gallagher, No Substitute, p. 37.

[49] Pottinger e Gallagher, No Substitute, pp. 34–35.

[50] Pottinger e Gallagher, No Substitute, pp. 38–39.

[51] The White House, Indo-Pacific Strategy of the United States, p. 5, 13, 16.

[52] Il legame che si sta creando tra potere militare e potere economico, che essenzialmente arma tutte le relazioni economiche nei confronti della Cina, cercando di utilizzare la leva del potere bellico degli Stati Uniti per ottenere ulteriori vantaggi economici, è molto chiaro nelle recenti dichiarazioni di Blinken. Vedi Notes from the Editors, Monthly Review 75, n. 7, dicembre 2023.

[53] Biden Outdoes Trump with Ultra-High China Tariffs, The Economist, 14.05.2024; Michael Roberts, Tariffs, Technology and Industrial Policy, The Next Recession, 20.05.2024.

[54] Tami Davis Biddle, Coercion Theory: A Basic Introduction for Practitioners, Texas National Security Review 3, n. 2, Primavera 2020, p. 94, 109.

[55] The U.S. Army’s Typhon Strategic Mid-Range Fires (SMRF) System, Congressional Research System, 16.04.2024; Xiaodon Liang, U.S. Sends Once-Barred Missiles to Philippines Exercise, Arms Control Association, maggio 2024; China Resolutely Opposes US’ Deployment of Mid-Range Missile System in Asia-Pacific Region in Bid to Seek Unilateral Military Advantage: Chinese FM, Global Times, 18.04.2024; Ashley Roque, Army’s New Typhon Strike Weapon Headed to Pacific in 2024, Northrop Grumman/Breaking Defense, 18.11.2023; Drago Bosnic, U.S. Moves Previously Banned Missiles Closer to China and Russia, Struggle/La Lucha, 17.04.2024.

[56] Kang, Still Getting Asia Wrong.

[57] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, pp. 7–8, 12.

[58] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, p. 69.

[59] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, p. 4.

[60] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, p. 5.

[61] U.S. Department of State, Chinese Communist Party: Threatening Global Peace and Security, gwnnaio 2021.

[62] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, pp. 4,10, 12–13.

[63] U.S. Department of Defense, Indo-Pacific Strategy Report, p. 12.

[64] Congressional Research Service, U.S. Defense Infrastructure in the Indo-Pacific: Background and Issues for Congress, 06.06.2023; Kang, Still Getting Asia Wrong.

[65] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, p. 53.

[66] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, p. 48.

[67] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, p. 64.

[68] U.S. Department of State, U.S. Security Cooperation with India, 20.01.2021.

[69] U.S. Department of State, U.S. Security Cooperation with India.

[70] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, pp. 53–54, 59–61; Kang, Still Getting Asia Wrong, pp. 90–91; White House, Quad Leaders’ Joint Statement: ‘The Spirit of the Quad, 12.03.2021.

[71] Vijay Prashad, United States Assembles the Squad Against China, Struggle/La Lucha, 17.05.2024.

[72] Congressional Research Service, introduction to U.S. Defense Infrastructure in the Indo-Pacific, 1, sottolineatura aggiunta.

[73] Congressional Research Service, U.S. Defense Infrastructure in the Indo-Pacific, pp. 1–4.

[74] Congressional Research Service, U.S. Defense Infrastructure in the Indo-Pacific, pp. 3, 7–8.

[75] John Pilger, There Is a War Coming Shrouded in Propaganda, John Pilger (blog), 01.05.2023, braveneweurope.com.

[76] Congressional Research Service, U.S. Defense Infrastructure in the Indo-Pacific, p. 22, 27, 30; U.S. Department of Defense, Pacific Deterrence Initiative: Department of Defense Budget Fiscal Year (FY) 2025, marzo 2024.

[77] Kang, Still Getting Asia Wrong, p. 91; Bonnie Denise Jenkins, AUKUS: A Commitment to the Future, osservazioni presso il Consiglio Atlantico, Washington DC, 27.11.2023, state.gov; U.S Department of Defense, AUKUS Defense Ministers’ Joint Statement, comunicato stampa, 08.04.2024. Vedi anche il sito web del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti su AUKUS: defense.gov/Spotlights/AUKUS.

[78] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, p. 71; Douglas Stuart, San Francisco 2.0: Military Aspects of the U.S. Pivot toward Asia, Asian Affairs: An American Review 39, n. 4, 2012, pp. 202–18; New US Military Concept Marks Pivot to Sea and Air, Strategic Comments, vol. 18, n. 4, 2021, pp. 1–3.

[79] Doyle e Rumley, The Rise and Return of the Indo-Pacific, p. 71; István Mészáros, Socialism or Barbarism, New York, Monthly Review Press, 2001, p. 97.

[80] Mészáros, Socialism or Barbarism, pp. 51–52. Sul concetto di "tardo imperialismo", vedi John Bellamy Foster, Late Imperialism, Monthly Review 71, n. 3, luglio-agosto 2019, pp. 1–19.

[81] Elbridge Colby, America Must Face Reality and Prioritise China Over Europe, Financial Times, 23.05.2024.

[82] Chinese FM Expresses Solemn Position Regarding US’ Actions to Advance ‘Indo-Pacific Strategy’ Targeting China, Urging US to Stop Bloc Confrontation, Global Times, 15.04.2024. Sul trio di recenti iniziative globali della Cina - l'Iniziativa per la Sicurezza Globale, l'Iniziativa per lo Sviluppo Globale e l'Iniziativa per la Civiltà Globale - vedi, Notes from the Editors, Monthly Review 74, n. 11, aprile 2023; e, Notes from the Editors, Monthly Review 75, n. 6, Novembre 2023.

[83] Kang, Still Getting Asia Wrong, p. 84.

[84] Kang, American Grand Strategy and East Asian Security in the Twenty-First Century, p. 1; Kang, Still Getting Asia Wrong, p. 81, 84.

[85] Wright Mills, The Causes of World War III, New York, Simon and Schuster, 1958, p. 47.


John Bellamy Foster e Brett Clark

Traduzione e revisione di Walter Dal Cin, Luciano Dal Mas, Claudio Della Volpe e Giovanni Fava

Fonte: Monthly Review vol. 76, n. 03 (01.07.2024)


  Saggi e articoli da Monthly Review in traduzione italiana