Fonte: Monthly Review - 01.06.2024
Intervista di Arman Spéth a John Bellamy Foster sul crescente interesse per il pensiero della decrescita e sull'importanza di introdurre la pianificazione democratica, finalizzata a una vera uguaglianza, in tutti i livelli della società. Versione riveduta e ampliata dell'intervista pubblicata per la prima volta nella primavera del 2024 sulla rivista svizzera Widerspruch.
Arman Spéth: La "decrescita" è sulla cresta dell'onda. Negli ultimi anni sono apparse numerose pubblicazioni, riconosciute a livello internazionale, che danno credito all'impostazione ecosocialista alla decrescita. La rivista Monthly Review, di cui lei è direttore, ha recentemente adottato questa prospettiva nel numero speciale di luglio-agosto 2023, “Planned Degrowth: Ecosocialism and Sustainable Human Development". Quali sono le ragioni di questa scelta e come spiega la popolarità degli approcci di sinistra alla decrescita?
John Bellamy Foster: Sebbene il termine "decrescita" si sia diffuso solo di recente, l'idea non è nuova. Almeno dal maggio 1974, a cominciare da Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, Monthly Review ha esplicitamente insistito sulla realtà dei limiti della crescita e, più in generale, sulla necessità di porre un freno alla crescita economica esponenziale e di realizzare un'economia di stato stazionario[1] (il che non elimina l’esigenza di crescita nelle economie più povere). Come affermarono all'epoca Magdoff e Sweezy, «invece di una panacea universale, si scopre che la crescita è essa stessa una causa di malattia». Per «arrestare la crescita», scrivevano, era necessaria la «ristrutturazione [della] produzione esistente» attraverso la «pianificazione sociale». Ciò era associato a una critica sistematica dello spreco economico ed ecologico del capitalismo monopolistico e dello sperpero del surplus sociale.
L'analisi di Magdoff e Sweezy ha dato un forte impulso all'ecologia marxiana negli Stati Uniti, in particolare negli ambiti della sociologia ambientale e dell'economia ecologica, ad esempio in The Sociology of Survival: Social Problems of Growth (1976) di Charles H. Anderson e The Environment: From Surplus to Scarcity (1980) di Allan Schnaiberg. Quindi, in questo senso, la "decrescita" non è una novità per noi e fa parte di una tradizione lunga oltre mezzo secolo. Il nostro numero su “Planned Degrowth” ha semplicemente cercato di sviluppare ulteriormente questo argomento guardando alle crescenti contraddizioni del nostro tempo.
Tuttavia, mentre Monthly Review insiste da tempo sulla necessità di azzerare nei Paesi ricchi la formazione di capitale netto [2], oggi la questione è diventata più urgente. Il termine "decrescita" ha risvegliato nelle persone ciò che il marxismo ecologico sta dicendo da molto tempo. È diventato quindi necessario dare una risposta più precisa su cosa essa significhi. L'unica risposta possibile è quella che i redattori di MR hanno fornito mezzo secolo fa. In altre parole, la questione ha due facce. Una è quella negativa di fermare la crescita insostenibile (misurata in termini di PIL). L'altra è quella positiva di promuovere una risposta sociale pianificata ai regimi di accumulazione capitalistica. Il nostro numero di “Planned Degrowth” cerca mettere in evidenza questa risposta più positiva, che solo l'ecosocialismo può offrire.
Per l'ecosocialismo, la nozione di decrescita, pur riconosciuta come una necessità nelle economie più sviluppate del nostro tempo, in cui l'impronta ecologica pro capite è superiore a quella che il pianeta come casa dell'uomo può sostenere, è sempre stata vista semplicemente come una parte di una transizione ecosocialista, e non come l'essenza stessa di tale transizione. Un percorso di decrescita, nella misura in cui è un percorso di de-accumulazione, si oppone direttamente alla logica interna del capitalismo, o del sistema di accumulazione del capitale. Per questa ragione, nel gennaio 2011 ho scritto un articolo intitolato “Capitalism and Degrowth: An Impossibility Theorem". La natura della lotta significa andare contro la logica dell'accumulazione capitalistica, anche se ci viviamo dentro. Questo è il carattere storico della rivoluzione, spinta oggi da una necessità assoluta: la lotta per la libertà umana e la lotta per l'esistenza umana sono ormai una cosa sola.
La relazione della decrescita con l’ecosocialismo è espressa nel modo più diretto da Jason Hickel in un articolo intitolato “The Double Objective of Democratic Ecosocialism” [Il doppio obiettivo del socialismo democratico] pubblicato nel numero di settembre 2023 di MR: «La decrescita […] si comprende meglio se la si considera un elemento all'interno di una più ampia lotta per l'ecosocialismo e l'anti-imperialismo». È una necessità, viste le attuali condizioni all’interno del nucleo ricco e imperialista dell'economia capitalista, ma non è una panacea e non è, di per sé, una base sufficiente per definire la trasformazione ecosocialista.
Il numero di luglio-agosto 2023 di MR era dedicato alla “Planified Degrowth”, ma l'accento veniva posto sulla necessità di riconfigurare la pianificazione alla luce nostri problemi ecologici, intendendola in un senso più ampio. Così, all'interno dell'ecosocialismo, la decrescita è semplicemente un riconoscimento realistico degli imperativi contemporanei al centro delle economie ricche, con le loro enormi impronte ecologiche, mentre l'evidenza corretta deve essere posta sulla pianificazione ecosocialista, piuttosto che sulla categoria stessa di decrescita.
Parte della popolarità del termine "decrescita" è dovuta al fatto che offre apertamente un approccio anticapitalista e non può essere cooptato dal sistema, al contrario di molte altre cose. Ma l'approccio complessivo dell'ecosocialismo non può essere articolato solo in termini negativi, come semplice opposto della crescita capitalista. Piuttosto, deve essere visto in termini di trasformazione delle relazioni sociali umane e dei mezzi di produzione da parte dei produttori associati.
AS: Nel suo bestseller Slow Down (2024), Kohei Saito sostiene di aver scoperto una “rottura epistemologica” – una trasformazione importante nel pensiero di Karl Marx negli ultimi anni della sua vita. Marx, sostiene Saito, si era trasformato in un “comunista della decrescita” e aveva abbandonato la sua “visione progressista della storia”, cioè aveva abbandonato l'idea dello sviluppo delle forze produttive come forza trainante della storia dello sviluppo umano. Cosa ne pensa? Come si relaziona il suo approccio alla decrescita con la sua interpretazione del materialismo storico?
JBF: Il primo libro di Saito, Karl Marx’s Ecosocialism [L’ecosocialismo di Karl Marx], era un'opera preziosa. Tuttavia, le tesi che avanza rispetto a Marx nei suoi lavori più recenti, che comprendono Marx in the Anthropocene (2022) e Slow Down (2024), sono scorrette, nonostante l'idea di un comunismo della decrescita, vista in termini più generali, sia molto importante.
È vero che Saito ha sollevato alcune questioni fondamentali. E tuttavia, c’è poco di nuovo nelle sue tesi. L'ecologia marxiana ha rimarcato la teoria della frattura metabolica di Marx per un quarto di secolo. Il fatto che Marx auspicasse ciò che è stato chiamato "sviluppo umano sostenibile" è stato sostenuto per tutto questo periodo da Paul Burkett, da me e da numerosi altri. Inoltre, è stato a lungo messo in evidenza che la base più solida di questo concetto nell'opera di Marx si trova nella Critica del Programma di Gotha e nella lettera (e nelle bozze di lettera) a Vera Zasulich - le stesse fonti su cui Saito si basa quasi esclusivamente per sostenere che Marx ha abbracciato il comunismo della decrescita. Anche l'attenzione rivolta dall'ecologia marxista ai contributi di Georgy Lukács e István Mészáros, su questo tema, è vecchia di almeno un decennio.
Ciò che può essere considerato nuovo nell'ultimo lavoro di Saito non è la sostanza ma la forma, insieme al carattere esagerato delle tesi che ora sostiene, che presuppone il rifiuto di gran parte della sua precedente analisi, esposta in L’ecosocialismo di Karl Marx. Nei suoi nuovi lavori, Saito introduce l'idea che Marx abbia abbandonato del tutto il produttivismo/prometeismo, che si suppone abbia dominato il pensiero di Marx almeno in forma latente fino al 1867 e alla pubblicazione di Il capitale. Saito definisce Il capitale di Marx come un'opera di transizione che incorpora una critica ecosocialista pur non avendo ancora superato del tutto il materialismo storico, che Saito stesso identifica con il produttivismo, il determinismo tecnologico e l'eurocentrismo. Solo nel 1868, ci viene detto, Marx effettua una rottura epistemologica, rifiutando del tutto l'espansione delle forze produttive e il materialismo storico, diventando così un “comunista della decrescita”.
A questo riguardo, ci sono due problemi fondamentali. In primo luogo, Saito non è in grado di fornire la minima prova che Marx, nei suoi ultimi anni di vita, fosse un comunista della decrescita, nel senso che rifiutasse l'espansione delle forze produttive. Né, del resto, Saito è in grado di fornire prove che Marx fosse prometeico ed eurocentrico nella sua opera matura degli anni Sessanta del XIX secolo (o anche prima), nella misura in cui il prometeismo è inteso come produzione fine a se stessa e l'eurocentrismo come l'idea che la cultura europea sia l'unica cultura universale. Non c’è assolutamente nulla a sostegno di queste affermazioni. Il fatto, ormai noto, che Marx vedesse potenzialità collettivistiche/egualitarie nella comune contadina russa (mir) è coerente con la sua visione generale dello sviluppo umano sostenibile. Tuttavia, non c'è alcuna giustificazione per ritenere che egli pensasse che una rivoluzione nella Russia zarista, un Paese ancora molto povero, sottosviluppato e in gran parte contadino, potesse avvenire senza l'espansione delle forze produttive.
In secondo luogo, l'immagine di Marx come comunista della decrescita è un anacronismo storico. Marx scrisse in un'epoca in cui il capitalismo industriale esisteva solo in un piccolo angolo del mondo e, anche allora, i trasporti a Londra, il centro del sistema, si basavano ancora sui cavalli e i calesse (senza contare le prime ferrovie). In nessun modo avrebbe potuto immaginare l'economia mondiale di oggi o il significato che la “decrescita” ha assunto alla fine del XX e all'inizio del XXI secolo.
L'analisi di Saito, nelle sue opere più recenti è quindi utile soprattutto per le controversie che ha generato e per la rinnovata attenzione a questi temi che il suo lavoro ha prodotto. In questo processo, ha indirettamente contribuito a farci progredire. Tuttavia, è importante applicare il metodo di Marx quando si analizzano le mutate condizioni storiche del presente, e in questo senso, l'abbandono del materialismo storico da parte di Saito, non è d’aiuto.
AS: Lei usa i termini “decrescita” e “de-accumulazione” in modo intercambiabile. Può spiegare cosa lega questi termini nella sua concezione?
JBF: “Decrescita” è un termine sfuggente, così come lo è il termine “crescita”. Quest'ultima riflette il modo (spesso irrazionale) in cui il PIL viene calcolato nell'ambito del capitalismo, espandendo la normale contabilità capitalistica, basata su un sistema di sfruttamento, a livello nazionale e persino globale. Il vero problema è l'azzeramento della formazione di capitale netto, cioè l'istituzione di un processo di de-accumulazione. Da tempo gli economisti ecologici marxisti e altri economisti ecologici non marxisti, come il compianto Herman Daly, hanno compreso questo fatto. La crescita, come dimostrano gli schemi di riproduzione di Marx, si basa sulla formazione di capitale netto. Riconoscerlo significa sottolineare che il problema è il sistema di accumulazione del capitale.
AS: L'idea della “decrescita pianificata” è al centro delle sue riflessioni. Potrebbe spiegare cosa intende esattamente e come la “decrescita pianificata” si differenzia da altri approcci alla decrescita?
JBF: Non credo ci sia nulla di complicato riguardo a ciò. La decrescita, e più in generale lo sviluppo umano sostenibile, non possono avvenire senza una pianificazione, che ci permetta di concentrarci sui veri bisogni umani e apra ogni sorta di nuove possibilità bloccate dal sistema capitalistico. Il capitalismo funziona ex post, attraverso la mediazione del mercato; la pianificazione è ex ante, e consente un approccio diretto alla soddisfazione dei bisogni, in linea con quella che Marx nelle sue Note su Adolph Wagner chiamava la «gerarchia dei [...] bisogni». Una pianificazione democratica integrata, che operi a tutti i livelli della società, è l'unica via per una società di uguaglianza sostanziale e sostenibilità ecologica, e per la sopravvivenza umana. I mercati continueranno a esistere, ma il percorso da seguire richiede, in ultima analisi, una pianificazione sociale nelle aree di produzione e di investimento, controllate dai produttori associati. In particolare, ciò è vero nel contesto di una situazione di emergenza planetaria come quella attuale. Come ho indicato, già nel maggio 1974 Magdoff e Sweezy sostenevano che l'arresto della crescita fosse essenziale all’interno delle economie ricche, data la crisi ecologica planetaria, ma che questo doveva essere affrontato in modo più positivo, in termini di ristrutturazione pianificata della produzione nel suo complesso.
Critiche alla decrescita
AS: Cédric Durand, nel suo articolo del settembre 2023 su Jacobin, intitolato "Living Together", critica la prospettiva della decrescita e scrive: «L'abbandono delle 'forze produttive del capitale' e il ridimensionamento della produzione si tradurrebbero in una de-specializzazione dell'attività produttiva, causando una drastica riduzione della produttività del lavoro e, in ultima analisi, un crollo del tenore di vita». Altri critici, come l'economista Branko Milanovic, ritengono, come ha scritto nel suo articolo "Degrowth: Solving the Impasse by Magical Thinking", pubblicato su SubStack nel 2021, che i sostenitori della decrescita «abbraccino un pensiero semi-magico e magico», perché non possono ammettere che l'approccio che sostengono comporterebbe una perdita del tenore di vita per la stragrande maggioranza della popolazione. Come risponde a queste critiche?
JBF: Durand e Milanovic avrebbero ragione se la questione fosse quella della "decrescita capitalista", che, come ho già detto, costituisce un teorema dell'impossibilità. Ma le trasformazioni necessarie ad affrontare le crisi ambientali e sociali odierne riguardano trasformazioni nei parametri che definiscono il capitalismo. Pertanto, tentare di criticare la decrescita insistendo sul fatto che essa ridurrà l’aumento della "produttività", misurato in termini ristretti di valore aggiunto capitalistico, significa semplicemente eludere la questione. Le vere questioni sono sempre state altre: a quale scopo aumentare la produttività, per chi farlo, a quale costo, a quale livello di sfruttamento, e determinata da quali criteri? Qual è il senso di aumentare la produttività nell'estrazione di combustibili fossili se ciò porta alla fine della vita sulla Terra come la conosciamo? Quante vite, come chiedeva William Morris nel XIX secolo, sono state rese inutili per produrre beni inutili e distruttivi a livelli sempre più alti di "efficienza"?
Inoltre, non è vero che la crescita economica è necessaria per migliorare la produttività, se quest'ultima è vista in termini di aumenti di produttività reale (aumento della produzione per ora di lavoro), in contrapposizione agli aumenti di "produttività" misurati semplicemente come crescita del valore aggiunto al PIL, che è una concezione molto ristretta e ingannevole, e nemmeno circolare. È perfettamente possibile generare infiniti miglioramenti qualitativi nella produzione, ridurre il tempo di lavoro per unità di produzione e quindi migliorare l'efficienza, in un contesto di formazione di capitale netto pari a zero, in particolare in una società a orientamento socialista. In questo caso, i miglioramenti della produttività sarebbero utilizzati per soddisfare bisogni sociali su larga scala, piuttosto che per l'espansione economica a beneficio di pochi. Sarebbero orientati principalmente al valore d'uso. Le ore di lavoro potrebbero essere ridotte. Ciò significherebbe che i benefici della produttività sarebbero condivisi e che le capacità umane in generale verrebbero aumentate.
AS: Nel suo libro Climate Change as Class War: Building Socialism on a Warming Planet (2022) e nei suoi articoli per la rivista Jacobin, Matt Huber si oppone esplicitamente al suo punto di vista, affermando che la soluzione della crisi ecologica richiede una massiccia espansione tecnologica. Come risponde a questo punto di vista?
JBF: Jacobin è attualmente la principale rivista socialdemocratica di sinistra negli Stati Uniti, e l’argomentazione di Huber si sviluppa in questa direzione. La socialdemocrazia, in contrapposizione al socialismo, si è sempre occupata di una "terza via" in cui le inconciliabilità tra lavoro e capitale (che oggi includono anche le inconciliabilità tra capitalismo e terra) possono presumibilmente essere riconciliate attraverso strumenti come le nuove tecnologie, l’aumento della produttività, i mercati regolamentati, l’organizzazione formale del lavoro e lo stato sociale (o ambientale) capitalista. Tuttavia, il sistema di base rimarrebbe inalterato. L'idea è che la socialdemocrazia possa organizzare il capitalismo meglio del liberalismo, e non che vada contro la logica fondamentale del capitalismo. Nel suo libro, Huber introduce la modernizzazione ecologica capitalista in una forma che non differisce molto dalla modernizzazione ecologica liberale, come rappresentata dal Breakthrough Institute[3], ma con l'aggiunta, nel suo caso, dei lavoratori addetti al servizio elettrico organizzati. Questa prospettiva ha costantemente definito l'approccio di Jacobin alle questioni ambientali, che in genere si è opposto all’ecosocialismo e all’ambientalismo in senso lato .Ho scritto un articolo intitolato "The Long Ecological Revolution" su Monthly Review nel novembre 2017, mettendo in discussione l'approccio fortemente ecomodernista di Jacobin a questo riguardo; l’articolo includeva pezzi di Leigh Phillips, che, nel suo libro Austerity Ecology and the Collapse-Porn Addicts (2015), è arrivato al punto di suggerire che «il pianeta può sostenere fino a 282 miliardi di persone [...] utilizzando tutta la terra[!]» e altre assurdità simili.
Nell'articolo che Huber ha scritto insieme a Phillips su Jacobin nel marzo di quest'anno (“Kohei Saito’s ‘Start from Scratch’ Degrowth Communism”), i due autori rifiutano il quadro teorico dei limiti planetari sostenuto dal consenso scientifico odierno, che cerca di demarcare i limiti biofisici della Terra quale casa sicura per l'umanità. Nel quadro teorico dei limiti planetari/Sistema Terra, il cambiamento climatico è presente come uno soltanto dei i nove limiti, la cui trasgressione minaccia l'esistenza umana. Al contrario, Huber e Phillips adottano una posizione praticamente identica a quella dell'economista neoclassico Julian Simon, autore di The Ultimate Resource (1981), che è stato il primo a diffondere la nozione di total human exemptionalism [totale esenzione dell'uomo] [4], secondo la quale non ci sono veri limiti ambientali all'espansione quantitativa dell'economia umana che non possano essere superati dalla tecnologia; che è possibile ottenere una crescita infinita su un pianeta finito. Su questa base, Simon è stato riconosciuto come il principale apologeta anti-ambientalista del capitalismo del suo tempo. In questa visione, la tecnologia risolve tutti i problemi indipendentemente dalle relazioni sociali. In modo quasi identico, «gli unici veri limiti permanentemente insuperabili ai quali siamo posti dinnanzi», affermano riduttivamente Huber e Phillips, «sono le leggi della fisica e della logica» — come se i limiti biofisici della vita sul pianeta non fossero un problema. Il cambiamento climatico, secondo questa visione, è solo un problema temporaneo da risolvere tecnologicamente, non una questione sociale-relazionale (o anche ecologica-relazionale). Ma per i marxisti, le relazioni sociali e la tecnologia, pur essendo distinguibili, sono inestricabilmente e dialetticamente intrecciate. Una visione che nega la crisi planetaria ricorrendo alla promessa di un deus ex machina tecnologico, mentre esclude sia i limiti storici che ecologici, è in conflitto con il materialismo storico, l'ecosocialismo e la scienza contemporanea, tutti e tre compresi.
Il consenso scientifico odierno, rappresentato ad esempio dall'IPCC [Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite] – in particolare le posizioni prese dagli scienziati, piuttosto che dai governi coinvolti nel processo – afferma con assoluta chiarezza che la tecnologia da sola non ci salverà, e che abbiamo bisogno di una sfida su scala rivoluzionaria all’attuale egemonia politico-economica. Siamo ora sull'orlo di un aumento di 1,5°C della temperatura media globale, e un aumento di 2°C non sarà molto lontano se non agiamo rapidamente. Abbiamo superato sei dei nove limiti planetari, e probabilmente ne supereremo altri. Tuttavia, questa traiettoria potrebbe essere modificata. Abbiamo già tutte le tecnologie necessarie per affrontare la crisi planetaria, a patto che vengano apportati i necessari cambiamenti nelle relazioni sociali esistenti. Ma qui sta il problema.
Huber e Phillips respingono polemicamente la decrescita come una strategia arretrata, anche se organizzata su una base ecosocialista pianificata. Sostengono invece che l'accumulazione di capitale netto può continuare indefinitamente se viene resa "verde" e se c’è una riconciliazione tra capitale e lavoro, e tra capitale e terra, secondo linee ecomoderniste. Nel migliore dei casi, si può guardare a questa proposta come l'approccio del Green New Deal o del Keynesianismo ecologico. Ma il loro approccio complessivo va oltre e rappresenta, di fatto, l’idea di "esenzionalismo umano totale" in cui tutti i limiti ambientali duraturi, associati ai cicli biofisici della Terra, vengono negati. Il principale difetto che trovo in questa analisi è che è disposta a rinunciare al realismo scientifico e alla critica dialettica per convenienza politica, finendo in una sorta di riformismo tecno-utopico che in realtà non va da nessuna parte, poiché si ritira da qualsiasi serio confronto con il sistema capitalistico. Non è affatto razionale, quando il problema è un sistema sociale che sta minacciando - nel giro di anni e decenni, e non di secoli - di trasgredire le condizioni del pianeta come luogo sicuro per l'umanità. Non c'è nulla di socialista o ecologico in tali prospettive.
Che fare?
AS: Nel suo articolo "Planned Degrowth," lei sottolinea la necessità di una trasformazione rivoluzionaria per superare le sfide ecologiche. Potrebbe spiegare cosa intende per trasformazione rivoluzionaria e perché la ritiene essenziale? E come risponderebbe alle argomentazioni che seguono il principio del "male minore" e sostengono la possibilità di una trasformazione ecologica all'interno del sistema capitalistico, anche a causa dell'urgenza della situazione?
JBF: La scienza odierna afferma che se l'umanità non vuole avviare, in questo secolo, la propria completa distruzione, abbiamo bisogno di cambiamenti nel nostro sistema socio-economico, nella tecnologia applicata e nel nostro intero rapporto con il Sistema Terra. Se non verranno attuate le necessarie e urgenti trasformazioni nel modo di produzione (che include le relazioni sociali), vedremo, in questo secolo, la morte e lo spostamento di centinaia di milioni, forse persino miliardi, di persone a causa dei cambiamenti climatici. Inoltre, il cambiamento climatico è solo parte del problema. Abbiamo ormai riversato nell'ambiente 370.000 diverse sostanze chimiche di sintesi, la maggior parte delle quali non è stata testata e molte delle quali sono tossiche: cancerogene, teratogene e mutagene. Le plastiche, un'altra nuova entità nella classificazione dei limiti planetari, sono ora fuori controllo, con la proliferazione globale e nel corpo umano di microplastiche e persino nanoplastiche (sufficientemente piccole da attraversare le pareti cellulari). Miliardi di sacchetti di plastica sono diffusi dalle multinazionali, principalmente nel Sud del mondo. Le carenze idriche globali stanno aumentando, le foreste e la copertura del suolo stanno scomparendo, e stiamo affrontando la sesta estinzione di massa nella storia del pianeta.
Con sei dei nove limiti planetari ormai superati, ci troviamo di fronte a pericoli senza precedenti per l'esistenza umana e a una crisi esistenziale per l'umanità. La causa comune di tutte queste crisi planetarie è il sistema di accumulazione del capitale, e tutte le soluzioni immediate devono andare contro la logica dell'accumulazione del capitale. La lotta avverrà naturalmente all'interno del sistema attuale, ma in ogni momento di questa lotta ci troveremo di fronte all'urgenza di anteporre le persone e il pianeta al profitto. Non c'è altra via. Il capitalismo è la morte dell’umanità.
La dimensione del cambiamento richiesto deve essere misurata sia in termini di tempo che di spazio. La nostra relazione con entrambi deve necessariamente essere rivoluzionata ed estendersi a tutto il mondo. Se ci riusciremo o meno, al momento non possiamo saperlo. Ma sappiamo che questa sarà la più grande lotta dell'umanità. In questa situazione non c'è "male minore." Come disse Marx su scala più piccola, riferendosi all'Irlanda dei suoi tempi, o "rovina o rivoluzione."
AS: Infine, come valuta la fattibilità della decrescita ecosocialista rispetto alle realtà politiche attuali (Kräfteverhältnisse)? Dove vede opportunità e dove vede ostacoli?
JBF: Le opportunità sono ovunque. Gli ostacoli, in gran parte frutto del sistema attuale, sono ovunque. Come ha detto Naomi Klein a proposito del cambiamento climatico: «This Changes Everything». Nulla può o rimarrà lo stesso. Questa è la definizione stessa di una situazione rivoluzionaria.
Lo studio più concreto e dettagliato su ciò che praticamente potrebbe essere fatto nelle circostanze attuali, si trova nel libro del 2017 di Fred Magdoff e Chris Williams, Creating an Ecological Society: Toward a Revolutionary Transformation. Come ha detto Noam Chomsky del loro libro, esso dimostra che «il “cambiamento sistematico rivoluzionario” necessario per evitare la catastrofe è alla nostra portata».
Note
[1] N.d.T. Un’economia in cui la produzione e i consumi sono stabili. Che non cresce, ma non è neppure in recessione. Dove popolazione e occupazione sono costanti. Fonte: https://economiacircolare.com/herman-daly-economia-stato-stazionario-ambiente/
[2] N.d.T. L'insieme delle attività dell'azienda costituisce il capitale lordo. La differenza tra attività e passività rappresenta il capitale netto.
[3] N.D.T. Il Breakthrough Institute è un centro di ricerca ambientale situato a Berkeley, in California, in linea con la filosofia ecomodernista. L'Istituto sostiene l'adozione della modernizzazione e dello sviluppo tecnologico (compresa l'energia nucleare e la cattura del carbonio) per affrontare le sfide ambientali. Fonte: Wikipedia.
[4] N.d.T. L’exemptionalism costituisce l’idea che gli esseri umani siano “esenti” da vincoli e forze naturali grazie alla loro capacità di adattarvisi tramite il cambiamento culturale.
John Bellamy Foster e Arman Spéth
Traduzione e revisione di Giovanni Fava, Walter Dal Cin e Luciano Dal Mas
Fonte: Monthly Review vol. 76, n. 02 (01.06.2024)
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https://www.worldsocialism.org/spgb/socialist-standard/2020s/2024/no-1437-may-2024/book-reviews-foot-whitehead-huber/