Fonte: Monthly Review - 01.12.2023

Mahesh Maskey, redattore di Bampanth (Kathmandu - Nepal), intervista John Bellamy Foster sulla crescente diffusione dell'ecologia marxiana tra i socialisti del Sud e del Nord del mondo e sulla storia di solidarietà tra Monthly Review e sinistra nepalese.



Mahesh Maskey
: Nel mondo accademico, lei è stato uno tra i pionieri nel mostrare, e poi approfondire, l’originalità della prospettiva marxista rispetto alle problematiche ecologiche e alla critica del sistema capitalista. I Paesi del Sud globale sembrano dover fare una scelta difficile tra sviluppo ed ambiente. Può spiegare in parole semplici perché e come sia possibile uno sviluppo ecofriendly, e come esso sia realizzabile nei paesi economicamente più poveri?

Bellamy Foster: La crescente consapevolezza del fatto che la questione ecologica sia cruciale, insieme a quella economica, e che le due siano intrinsecamente correlate, non fa che rendere più chiare le condizioni in cui attualmente versano i Paesi poveri. La vera scelta non è tra sviluppo e ambiente, ma piuttosto tra sviluppo capitalista periferico, congiunto ad un sottosviluppo determinato da condizioni di dominio imperialista, e una rottura rivoluzionaria del sistema che applichi un modello socialista di sviluppo umano sostenibile. Quindi, aggiungendo il fattore ecologico, diventa più chiaro come il mondo sia diviso tra nazioni sovrasviluppate nel cuore del capitalismo e paesi sottosviluppati alla periferia. Il consumo energetico pro capite degli Stati Uniti supera di sessanta volte quello del Nepal, mentre una condizione di equilibrio dal punto di vista ecologico, per il mondo nel suo complesso, si aggira intorno a un terzo dell’attuale livello statunitense. Ciò significa che gli Stati Uniti sono enormemente sovrasviluppati rispetto a ciò che la terra e la popolazione mondiale possono sostenere, mentre il Nepal, a causa di questo sistema si è trovato in condizioni di grave sottosviluppo. Dietro questa realtà diseguale e a sostegno di essa agiscono i meccanismi dell’imperialismo, che determinano in larga parte la relativa posizione delle nazioni all’interno del sistema capitalistico mondiale.

Ciò significa che dobbiamo unire la tradizionale critica marxiana dello sviluppo imperialista con la critica ecologica, che per molti versi porta il problema a un livello più profondo, permettendoci di configurare in maniera più adeguata un percorso alternativo. L’essenza del problema dello sviluppo è stata articolata da Paul A. Baran in The Political Economy of Growth alla fine degli anni Cinquanta. Si tratta di capire se un Paese possa ottenere il controllo e mobilitare il surplus economico, per potenziare e pianificare il proprio sviluppo interno, il che significa confrontarsi con le dimensioni di classe interne alla società e con le forze imperialiste esterne. Queste, ovviamente, non sono separate nel capitalismo periferico, poiché è sempre presente una classe di comprador [1] allineata allo sviluppo imperialista, in contrapposizione alle esigenze interne di un Paese. La lotta di classe è quindi legata alla lotta antimperialista. Nei Paesi post-rivoluzionari che in qualche misura sono riusciti a superare gli elementi parassitari dei comprador attivi all’interno della propria società e che sono stati in grado di svincolarsi, almeno in parte, dall’economia mondiale, stanno emergendo nuove possibilità nella creazione e nell’utilizzo del surplus economico, rendendo così possibile uno sviluppo più autonomo che non è più determinato dall’imperialismo e dalle forze di mercato capitaliste.

Nel capitalismo, ciò che definisce lo sviluppo economico è l’aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL) e l’accumulazione di capitale, cioè il valore di scambio generato nella società, indipendentemente dai fini sociali. Tuttavia, il delinking [2], che è sempre possibile, consente una forma di sviluppo che parte dai valori d’uso, dando la priorità al soddisfacimento dei bisogni primari della popolazione ponendo così le basi per un vero sviluppo umano. Scopriamo allora che le economie a orientamento socialista del Sud globale, sebbene spesso ancora povere, sono in grado di migliorare enormemente le condizioni della popolazione in ambiti quali la sostenibilità e la sovranità alimentare, l’accesso all’acqua potabile, la disponibilità di elettricità, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia, l’assistenza sanitaria, i diritti delle donne, l’aspettativa di vita, l’abitazione, la riduzione della povertà e così via. Nelle aree di sviluppo umano, come dimostrato dalle Nazioni Unite, i Paesi poveri del Sud globale che adottano un orientamento socialista si avvicinano sorprendentemente, o addirittura le superano in alcuni aspetti, alle nazioni ricche del Nord globale, come gli Stati Uniti, rendendo insensate le misure di sviluppo che si concentrano semplicemente sul PIL.

Un approccio ecologico incentrato sullo sviluppo umano sostenibile, attraverso una pianificazione socialista, non è altro che un'ampliamento del tradizionale attenzione verso le persone che include la dimensione materiale più fondamentale dell’ambiente in cui viviamo. Questo fatto si può forse notare più facilmente guardando a Cuba, dove l'importanza data allo sviluppo umano sostenibile, in particolare dal 1992, è stato il segreto del suo successo. Nei Paesi poveri, infatti, non esiste una contraddizione fondamentale tra l’attenzione ai bisogni umani e quella all’ambiente.

MM: Come valuta l’impatto che le sue proposte teoriche hanno avuto sul dibattito scientifico e sull’azione dal basso? Pensa che, in un futuro prossimo, le principali economie capitalistiche siano costrette a cambiare rotta e a ridefinire lo sviluppo in termini di sopravvivenza ecologica e di uguaglianza?

JBF: Il mio lavoro e quello di molti altri all’interno della tradizione ecologica marxista ha avuto come scopo quello di sviluppare una critica classica, intesa in termini storico-materialistici, nella quale le idee vengano considerate in relazione alle condizioni materiali entro cui sorgono e la teoria abbia come fine la prassi rivoluzionaria. La natura sistematica di tale approccio critico, che si sviluppa a partire dal marxismo classico, ha fatto sì che esso non potesse essere ignorato, e questo ha fatto breccia in modo significativo nel mondo accademico. Tuttavia, esso si scontra inevitabilmente con barriere ideologiche che spesso provengono, ironicamente, non solo dalla destra, ma anche da quelle fronde della sinistra accademica che risiedono in quello che Georg Lukács chiamava il "Grand Hotel Abyss" [3], dove vengono sollevate questioni radicali, spesso in grande stile, ma in modi che il più delle volte sono scollegati da, e persino ostili al cambiamento emancipativo. Sia chiaro, qui sto parlando per lo più delle Università occidentali, con le quali ho più familiarità, mentre le cose sono piuttosto differenti, dal punto di vista intellettuale e pratico, in molte parti del Sud globale.

Quindi, se il marxismo ecologico continua a guadagnare terreno nelle università, è perché nelle organizzazioni e nei movimenti ecologici in giro per il mondo – per esempio nel Movimento Sem Terra del Brasile (MST) – e in paesi dove esso ha assunto una forma più reale in rapporto alla relazione fra teoria e prassi, come in Cina, Venezuela, e Cuba, questo tipo di analisi sta dando i suoi frutti.

Nutro invece poca speranza rispetto alla possibilità che i maggiori stati capitalisti, così come sono costituiti al giorno d’oggi, si spostino verso problematiche relative all’equità [equality] e alla sussistenza [survival] ecologica, prendendo le mosse soltanto da questo tipo di critica. È vero, come disse Karl Marx, che le idee possono diventare una forza materiale quando si diffondono tra le masse. Tuttavia, questa diffusione dipende essa stessa dall’evoluzione delle condizioni materiali. Oggi, le condizioni materiali stanno mutando ovunque e in modo più rapida e irreparabile in ambito ambientale. Ciò creerà nuovi movimenti, con divisioni e fratture tra le classi, che finiranno per essere condizionati sempre più da fattori ecologici, non solo economici. Qualsiasi cambiamento reale in direzione dell’equità e della sussistenza verrà innanzitutto dal basso della società e incarnerà una logica anticapitalista, anche se emergerà da un contesto capitalista. È necessario che i cambiamenti di portata rivoluzionaria si manifestino nel centro del sistema-mondo capitalista, poiché è qui che l’intera crisi planetaria ha avuto origine, ed è qui che i mezzi per affrontarla sono più disponibili. Tuttavia, la radicale riorganizzazione del mondo comincerà senz’altro nel Sud globale, dove la minaccia economica ed ambientale è più grande, e attraverso i movimenti globali contro il sistema.

MM: Si sottolinea spesso come i pensatori marxisti siano molto bravi ad offrire critiche del sistema capitalista contemporaneo, ma piuttosto vaghi nel fornire alternative che siano concrete ed operative. Quale è la sua posizione rispetto a questa critica nel contesto del cambiamento climatico e dell’incipiente crisi ecologica?

JBF: Questi attacchi retorici sono generalmente basati su una vera e propria negazione, se non su un deliberato inganno. Ciò è vero in special modo per il cambiamento climatico e per l’emergenza ecologica planetaria in generale. Le “alternative concrete e operative” necessarie per mitigare la catastrofe climatica sono ben note, a partire dalla necessità di mantenere i combustibili fossili nel sottosuolo, sviluppando al contempo forme alternative di produzione, consumo e utilizzo dell’energia. Esistono centinaia, se non migliaia, di misure efficaci che potrebbero essere adottate immediatamente per mitigare il cambiamento climatico e garantire la sopravvivenza e persino la prosperità delle comunità umane. Fred Magdoff e io abbiamo elencato molte di queste alternative pratiche più di dieci anni fa nel nostro libro What Every Environmentalist Should Know About Capitalism. Il problema è che tutte le “alternative concrete e operative” all’attuale traiettoria suicida sono di fatto bloccate dal capitalismo, esattamente per le stesse ragioni per cui esso ha prodotto il cambiamento climatico: vale a dire la continua promozione dell’accumulazione illimitata come forza motrice della società sotto il segno del principio Après moi, le déluge. Di conseguenza, pur sapendo precisamente cosa fare, un approccio basato sulle riforme è insufficiente. La risposta al cambiamento climatico e all’emergenza planetaria in generale richiede un cambiamento di portata rivoluzionaria che minacci il sistema di potere esistente.

A questo proposito, è fondamentale guardare alla scienza. Esaminiamo l’ultimo rapporto di valutazione (AR6) dell’Intergovenmental Panel on Climate Change (IPCC), in particolare il Summary for Policymakers redatto dagli scienziati per il Working Group III, riguardante la mitigazione, prima che fosse censurato dai governi (il Summary for Policymakers degli scienziati, non censurato, è disponibile sulla pagina web della Monthly Review). Vi si afferma ripetutamente che è necessaria una trasformazione economica, sociale ed ecologica su larga scala. E che è necessario attuare un cambiamento di portata rivoluzionaria, non solo per mitigare il clima, ma anche per prevenire la morte di massa. Questo dato è supportato da innumerevoli studi scientifici.

Qualunque bambino è oggi in grado di proporre “alternative concrete e operative”, che sarebbero efficaci nel contribuire a risolvere il problema del cambiamento climatico, nonché alla portata della società, se l’attuale sistema – basato sulla divisione di classe e imperialistico – di accumulazione del capitale non bloccasse il cambiamento in ogni momento. Il fatto è che le misure oggi necessarie per la sopravvivenza umana – tutte alla portata dell’uomo per mezzo di un radicale riordino delle priorità sociali – chiedono di andare contro la logica dell’accumulazione del capitale e sono quindi bollate come “impraticabili” dal sistema. Inoltre, dobbiamo ricordare che il cambiamento climatico è solo una parte dell’emergenza planetaria che il capitalismo ha di fronte, che comprende anche il superamento dei limiti planetari [4] per quanto riguarda l’estinzione delle specie, l’acidificazione degli oceani, le fratture nei cicli dell’azoto e del fosforo, la perdita della copertura forestale, la scomparsa dell’acqua dolce, l’inquinamento chimico e così via, tutti elementi dovuti all’attuale egemonia politico-economica.

La situazione è diventata così grave da richiedere misure urgenti per proteggere le comunità umane in tutto il mondo, dal momento che il cambiamento climatico, che ha natura catastrofica, se non già del tutto irreversibile, è già in atto e minaccia le persone in ogni parte del globo. Ma il sistema continua a generare disuguaglianza e concentrazione di potere e di risorse ai vertici, insieme all’espropriazione sfrenata della natura, consegnando la grande maggioranza dell’umanità al suo presumibile destino, determinato dall’economia mondiale imperialista.

MM: Il Nepal è uno dei Paesi montuosi in cui le vulnerabilità dovute al cambiamento climatico sono sproporzionatamente elevate e l’impatto sui gruppi emarginati particolarmente duro. Realisticamente, quali strategie consiglierebbe di perseguire a paesi come il Nepal per quanto concerne loro agenda interna e internazionale?

JBF: Rispetto al Nepal posso rispondere solo in termini molto generali e sulla base di principi di massima. Il Nepal è stato inserito nell’elenco dei Paesi a più alto rischio per quanto riguarda i disastri globali. Gli attuali problemi ambientali comprendono il caldo record, lo scioglimento dei ghiacciai (spesso definiti “torri d’acqua”), l’imprevedibilità dei monsoni, che portano con sé piogge torrenziali e siccità, le inondazioni, la deforestazione, l’erosione del suolo, gli incendi su larga scala, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, la perdita di biodiversità (ricordiamo che il Nepal comprende alcuni tra i luoghi cruciali della biodiversità), la diminuzione della produttività agricola e la mancanza di servizi igienici gestiti e di acqua pulita disponibile per milioni di persone. La povertà assoluta in ampie zone del Paese e l’emarginazione di buona parte della popolazione interagiscono con gli eventi meteorologici estremi associati al cambiamento climatico.

In queste difficili circostanze è essenziale riuscire a introdurre un sistema di controllo e pianificazione economica di matrice statale (senza escludere i mercati) che permetta di definire le priorità dell’ecosviluppo. A ciò, si dovrebbe aggiungere il controllo statale delle finanze. I progetti più vantaggiosi per la popolazione, in quanto finalizzati ai bisogni e alla sicurezza di base, come acqua pulita, servizi igienici, cibo adeguato, alloggi, riduzione della povertà, assistenza sanitaria, protezione dell’ambiente, istruzione ed altre necessità primarie, dovrebbero avere la priorità rispetto ai progetti di prestigio orientati al profitto e basati sul mercato, che avvantaggiano, nella maggior parte dei casi, un numero ristretto di persone. Si dovrebbe esercitare un maggior grado di sovranità alimentare e di autosufficienza nazionale, nel senso di libertà dal controllo economico esterno.

Considerata la vulnerabilità del Nepal ai disastri naturali, occorrerebbe prendere come esempi Cuba (anche se è un’isola) e il Kerala in India, che hanno istituito programmi statali efficaci per proteggere le loro popolazioni dai disastri naturali. In questo caso, la questione non riguarda tanto le specifiche tipologie di disastri naturali da affrontare, quanto l’istituzione di mezzi organizzati per una rapida mobilitazione di risorse e popolazioni al servizio dell’interesse comune in caso di emergenza. Un’Attenzione particolare dovrebbe essere riservata ai bisogni delle popolazioni emarginate. Alla base della società, in particolare nelle aree rurali (ma non solo), l’attenzione dovrebbe essere rivolta alla promozione dell’organizzazione comunitaria/collettiva e allo scambio comunitario di valori d’uso, con il sostegno dello Stato, in quanto vitali per l’intero progetto rivoluzionario.

Occorre ricordare che il mero sviluppo economico, misurato dal PIL, è essenzialmente privo di significato se alla popolazione mancano le condizioni per sopravvivere. In questo caso, la pianificazione statale è cruciale – non nella forma di un’economia di comando, ma nell'adozione di una pianificazione centrale radicata nella partecipazione popolare di massa, nell’organizzazione comunale e nello sviluppo di quadri politici. Questa strategia deve basarsi sulle classi popolari, cioè sugli operai e sui contadini, dando così voce a una prospettiva di classe e antimperialista che è necessariamente socialista o comunista.

A livello globale, l’approccio capitalista all’emergenza ecologica planetaria predominante consiste nella finanziarizzazione della natura, vale a dire nell’idea che la risposta al problema ecologico si trovi nella mercificazione non solo delle risorse naturali in senso tradizionale, ma anche di tutto il “capitale naturale” o dei servizi ecosistemici (visti in termini di valore di scambio). Date le condizioni estreme in cui versa il Nepal, con i crescenti rischi ambientali derivanti dal cambiamento climatico e la povertà, è naturale cercare un aiuto finanziario esterno. Tuttavia, è fondamentale che la pianificazione economica, ecologica e sociale interna, e la promozione dei bisogni basilari della popolazione abbiano la priorità. Permettere alla finanza globale di prendere il controllo in nome della promozione di ciò che la Banca Mondiale (in concomitanza con un accordo di finanziamento da 100 milioni di dollari per il 2022 con il Nepal), chiama in modo ingannevole «sviluppo verde, resiliente al clima e inclusivo» e «uso produttivo sostenibile del capitale naturale», in un clima di “riforma” economica, porta al pericolo che il Nepal perda il controllo sovrano del proprio percorso di sviluppo. È significativo che il livello complessivo del debito del Nepal sia più che raddoppiato nel solo 2018-19, passando da 7 a 15 miliardi di dollari (o 2.000 miliardi di rupie nepalesi). Questo fatto potrebbe spingere molto rapidamente il Paese oltre il precipizio del debito, come nel caso assai recente dello Sri Lanka. In tali circostanze, è possibile che prenda piede quello che Naomi Klein ha definito con parole celebri “capitalismo delle catastrofi”, ovvero il neoliberismo estremo accompagnato da una shock therapy, in cui gli interessi dei paesi stranieri dettano le regole del gioco.

Com’è ovvio, molto dipende dal tipo di finanziamento esterno che è in ballo e dal modo in cui esso viene integrato all’economia nel suo complesso. Ad esempio, la maggior parte dei prestiti esterni offerti ai Paesi poveri porta con sé il rischio di far precipitare questi ultimi in una trappola del debito, così come di piegarli a progetti che servono prevalentemente gli interessi stranieri, piuttosto che quelli nazionali. La finanziarizzazione del “capitale naturale” promossa dalle principali organizzazioni economiche internazionali capitaliste e da molti gruppi imprenditoriali rappresenta un inganno per un Paese povero caratterizzato dalla presenza di risorse naturali, poiché mira a rimuovere la sovranità del loro controllo. Nonostante si parli di promozione della resilienza e di un uso sostenibile del “capitale naturale” del Paese, questa è una modalità di svendita del futuro in nome della “sostenibilità”. Tutto, quindi, dipende dalla forza della governance interna e da una pianificazione che miri a ciò che è più essenziale per la popolazione nel suo complesso e che unisca l’organizzazione comunale, la partecipazione popolare e la mobilitazione di massa. Per quanto riguarda i capitali esteri, la corruzione deve essere doppiamente evitata. Per quanto possibile, in materia di autosufficienza, il Nepal dovrebbe cercare di attingere ai risultati positivi di altri Stati socialisti o a orientamento socialista.

MM: Negli ultimi anni il marxista giapponese Kohei Saito ha sostenuto con forza l’idea di un “comunismo della decrescita”, ma non ha fornito possibili percorsi per raggiungere questo obiettivo. Qual è la sua critica alla proposta di Saito e quale significato essa potrebbe avere per i Paesi del Sud globale?

JBF: Saito è un importante pensatore ecosocialista, il cui Karl Marx’s Ecosocialism del 2016 ha avuto un ruolo significativo nella nostra comprensione, nella teoria classica di Marx, della “frattura metabolica”. Nel suo libro, Saito ha anche rigettato fermamente l’idea che l’opera di Marx sia caratterizzata da “prometeismo” o produttivismo estremo. In larghissima parte tutto ciò era in linea con le tesi che Paul Burkett e io avevamo sviluppato in precedenza nel suo libro Marx and Nature (1999) e nel mio articolo “Marx’s Theory of Metabolic Rift” (1999) e nel libro Marx’s Ecology (2000).

Tuttavia, le opere più recenti di Saito, tra cui il suo bestseller giapponese Capital in the Anthropocene del 2020 e Marx in the Anthropocene del 2022, si discostano radicalmente dalla precedente interpretazione fornita in Karl Marx’s Ecosocialism. In questi nuovi scritti, Saito sostiene di aver scoperto una rottura epistemologica nel pensiero di Marx avvenuta a partire dal 1868, dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale nel 1867. Negli ultimi anni Marx si sarebbe sbarazzato del prometeismo che Saito ora, ribaltando la propria analisi precedente, sostiene essere stato presente nel pensiero di Marx fino a quel momento, con il risultato che Marx avrebbe abbandonato in gran parte l’idea dello sviluppo delle forze produttive, optando invece per il “comunismo della decrescita”.

L’intera argomentazione di Saito per sostenere che Marx fosse un sostenitore del comunismo della decrescita nel suo ultimo decennio e mezzo si basa principalmente su due sole opere di Marx: la Critica del Programma di Gotha del 1875 e la lettera a Vera Zasulich del 1881 (comprese le bozze della lettera). L’idea che questi celebri manoscritti indichino la possibilità di un futuro più sostenibile non è, ovviamente, nuova. Gli ecosocialisti sostengono da tempo che la Critica del Programma di Gotha e le lettere/bozze di lettere a Zasulich riflettano ciò che Burkett, nel titolo del suo articolo dell’ottobre 2005 su Monthly Review, ha definito «La visione di Marx dello sviluppo umano sostenibile».

La mossa distintiva di Saito, tuttavia, è stata quella di suggerire che la Critica del Programma di Gotha e la lettera/bozza di lettera a Zasulich avessero di mira un vero e proprio comunismo della decrescita, e non solo la maturazione di una concezione dello sviluppo umano sostenibile che avrebbe caratterizzato, più in generale, il pensiero di Marx. Nonostante ciò, poiché non vi sono prove concrete del fatto che Marx abbia davvero sostenuto quella che si potrebbe ragionevolmente chiamare decrescita, Saito si è spinto a sostenere che l’improvviso allontanamento da un precedente prometeismo (ed eurocentrismo), che ora ritiene sia rinvenibile in tutte le principali opere di Marx fino alla pubblicazione del Capitale nel 1867, rappresenti di per sé una rottura epistemologica che segna lo sviluppo di un nuovo comunismo della decrescita. Ironicamente, ciò significa che ora Saito si trova costretto a ripudiare il risultato principale del suo Karl Marx’s Ecosocialism di pochi anni prima, dove aveva concluso che definire Marx un pensatore prometeico costituiva una proiezione del tutto falsa, «imposta al pensiero di Marx» da critici fuorvianti. È significativo che Saito abbia ora invertito la rotta e sostenga che Marx avesse un orientamento prometeico fino alla stesura del Capitale, ma che non sia in grado di trovare alcun passaggio nel Capitale, o altrove, che lo dimostri.

Lasciando da parte tutti gli altri punti deboli, l’idea di Saito che in Marx, nel XIX secolo, vi sia una reale elaborazione della decrescita è profondamente antistorica. Marx scriveva nel bel mezzo della rivoluzione industriale. Tra l’inizio della rivoluzione industriale nel XVIII secolo e la prima Giornata della Terra nel 1970, il potenziale produttivo industriale mondiale è aumentato di circa 1.730 volte. Pertanto, oggi viviamo in quella che è stata definita, a giusto titolo, un’economia globale, in cui le nazioni ricche, capitaliste e imperialiste, che sono al centro dell’economia mondiale, hanno un’impronta ecologica pro capite di gran lunga superiore a quella che il Sistema Terra può sostenere e in cui il pianeta, come casa sicura per l’umanità, è seriamente minacciato. Di conseguenza, la decrescita è diventata una necessità per i settori più ricchi dell’economia mondiale del XXI secolo, insieme all’obiettivo di zero emissioni di carbonio, per consentire all’umanità di sopravvivere. Inutile dire che tutto ciò è molto lontano dalle condizioni che Marx affrontava ai suoi tempi.

Nel numero speciale di luglio-agosto 2023 di Monthly Review, intitolato “Planned Degrowth: Ecosocialism and Sustainable Human Development“, abbiamo cercato di rendere operativa la decrescita in termini socialisti rispetto al centro ricco dell’economia mondiale. Ciò significava mettere in risalto il tipo di pianificazione economica, ecologica e sociale necessaria per trasformare in realtà l’indispensabile riconciliazione tra il metabolismo sociale umano e il metabolismo universale della natura. Essenziale è l’abbandono del PIL come principale indicatore di progresso e l’enfasi sul soddisfacimento dei bisogni primari basati sui principi socialisti di uguaglianza sostanziale e sostenibilità ecologica. Come sostengono i diversi autori del numero speciale, questo obiettivo può essere raggiunto solo attraverso una trasformazione di portata rivoluzionaria attraverso il superamento dell’attuale egemonia politico-economica.

Storicamente, il principio della decrescita non è universale ma fa riferimento al contesto del XXI secolo e in particolare alle economie sottosviluppate del sistema. Un approccio ecologico socialista globale nel secolo attuale, come già detto, deve tenere conto delle condizioni molto diversificate che dividono il Nord e il Sud del mondo a causa del sistema mondiale imperialista. In questo senso, la decrescita pianificata, necessaria nei settori ricchi dell’economia mondiale del nostro tempo, deve essere vista come ausiliaria al principio fondamentale di Marx dello sviluppo umano sostenibile. Nelle regioni più povere del Sud globale, il problema non è il sovrasviluppo, ma il sottosviluppo, anche se oggi la soluzione deve assumere la forma dell’ecosviluppo. Il pregio dell’analisi di Saito sul comunismo della decrescita è che ci pone di fronte queste domande.

MM: I recenti piani di sviluppo cinesi fanno appello all’esigenza di perseguire una “civiltà ecologica”, anche se le caratteristiche salienti di tale civiltà rimangono molto meno chiare. Cosa intende per civiltà ecologica e come potrebbe essere utile ad altri Paesi in via di sviluppo?

JBF: Il concetto di civiltà ecologica, sviluppato in Cina nello specifico, trae il suo significato dal fatto che incarna una concezione storico-materialista della transizione dal capitalismo al socialismo. In questo contesto lo sviluppo umano sostenibile diventa l’oggetto del socialismo maturo, in linea con l’analisi ecologica classica di Marx e Friedrich Engels. Questa visione è del tutto antitetica al capitalismo come modo di produzione.

La nozione stessa di civiltà ecologica può essere fatta risalire all’ultimo decennio dell’Unione Sovietica, quando filosofi e scienziati elaborarono il concetto, radicato nella classica critica ecologica di Marx. Il concetto è stato rapidamente ripreso dagli studiosi cinesi ed è diventato un elemento centrale della visione del socialismo con caratteristiche cinesi. I teorici cinesi si sono basati sull’affinità dell’ecologia marxiana, con le sue radici che affondano nell’antico materialismo greco, con il naturalismo organico incorporato nell’antico taoismo e confucianesimo.

La concezione della civiltà ecologica in Cina ha trovato il suo massimo sviluppo nell’analisi di Xi Jinping, che ha affermato come esso sia l’elemento che definisce l’evoluzione di una società socialista matura e implica un movimento che «incoraggia uno stile di vita semplice, moderato, verde e a basse emissioni di carbonio che si oppone alla stravaganza e al consumo eccessivo», e che rappresenta il passaggio a una società socialista sostenibile. Si guarda alla civiltà ecologica come il corrispettivo di una “Cina bella”, capace cioè di incorporare valori estetici. Xi fa riferimento all’avvertimento di Engels circa l’imminente “vendetta” della natura, qualora non si trovasse un modo per promuovere la riconciliazione tra umanità e natura. A tali dichiarazioni sono seguite di pari passo misure concrete in quasi tutti i settori della pianificazione cinese per realizzare una civiltà ecologica così intesa.

Sebbene, com’è ovvio, siano presenti molte contraddizioni e non sappiamo se l’obiettivo di una civiltà ecologica in un socialismo maturo verrà raggiunto, non c’è dubbio però che il Partito Comunista Cinese stia compiendo sforzi enormi per giungervi. Si tratta di un approccio rivoluzionario all’ecologia, che supera di gran lunga le nozioni occidentali di Green New Deal, che sono principalmente proposte sulla carta. La concezione e i tentativi cinesi di istituire una civiltà ecologica costituiscono quindi una delle principali speranze per uno sviluppo ecologico sostenibile nel mondo di oggi.

 MM: Anche il termine ecosocialismo ha recentemente attirato molta attenzione. Ritiene che questo concetto possa trovare un seguito tra i movimenti socialisti globali, in particolare nel Sud del mondo?

 JBF: Il termine ecosocialismo è emerso in diversi modi negli ultimi decenni, a partire da progetti ampiamente diversificati tra loro. Alcuni pensatori hanno trovato nell’ecosocialismo una critica implicita all’attuale socialismo di tipo sovietico, dipinto dai media dominanti come molto più distruttivo, dal punto di vista ecologico, del capitalismo, cosa che oggi sappiamo essere errata (a questo proposito si veda, soprattutto, il notevole Socialist States and the Environment di Salvatore Engel-Di Mauro). Altri hanno visto nell’ecosocialismo un modo per recuperare ed estendere i temi ecologici all’interno del socialismo e costruire un movimento che unisse le tradizionali aspirazioni della classe operaia ai necessari cambiamenti ambientali. In Cina, la nozione di “marxismo ecologico” ha prevalso su quella di “ecosocialismo”, rivelando un approccio più apertamente rivoluzionario ed esplicitamente marxista. Tutte le analisi ecosocialiste, tuttavia, sono state influenzate da Marx e, con il recupero della critica ecologica di Marx nella teoria della frattura metabolica, questa influenza è si è accentuata diffondendosi nei movimenti socialisti ed ecologici di tutto il mondo.

A mio avviso sarebbe scorretto guardare all’ecosocialismo come un’alternativa rispetto al socialismo. Piuttosto, l’ecosocialismo rappresenta un particolare insieme di aspirazioni, questioni rilevanti, percorsi di ricerca e sviluppi del movimento, all’interno del più ampio ambito del socialismo. Esso si lega alle questioni della riproduzione sociale, che trovano un risalto particolare nelle lotte femministe. Si tratta in definitiva di una riscoperta dell’ampiezza della lotta per il socialismo e la libertà umana. In definitiva, la lotta per il socialismo, ora intesa in modo più completo in linea con la prospettiva classica di Marx ed Engels, dovrà comprendere necessariamente sia l’uguaglianza sostanziale che la sostenibilità ecologica. Se l’umanità vuole sopravvivere e prosperare nell’Epoca dell’Antropocene, sarà attraverso la crescita di un proletariato ambientale che si impegna simultaneamente con i domini della produzione/riproduzione sociale e dell’ambiente, riunendo le popolazioni sfruttate ed emarginate in ogni ambito. Questo processo sarà guidato da una preoccupazione comune per il futuro di quella che Marx chiamava «la catena delle generazioni umane».

MM: Durante l’alta marea della rivoluzione nepalese, la Monthly Review Foundation, su richiesta di Harry Magdoff, ha inviato al collettivo della sinistra nepalese l’intera collezione dei suoi libri, che ha dato vita alla Harry Magdoff Memorial Library. Può dire qualche parola su di lui, in sua memoria, per i lettori nepalesi?

JBF: Harry Magdoff (1913-2006) è stato uno dei grandi economisti, teorici marxisti e critici dell’imperialismo del XX secolo. Per un resoconto più completo della sua vita, si veda l’articolo “Optimism of the Heart“ che ho scritto per il numero di ottobre 2006 di Monthly Review. Nacque il 21 agosto 1913 nel Bronx a New York, figlio di immigrati russo-ebraici. Divenne marxista molto presto e, mentre era studente al City College nei primi anni Trenta, divenne redattore della National Student Review. Nel 1936 si laureò in economia alla New York University’s School of Commerce e fu assunto dalla Works Progress Administration (WPA) nell’ambito del New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt durante la Grande Depressione. Durante la WPA, sviluppò il metodo di misurazione della produttività tuttora utilizzato dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, lavorò al National Defense Advisory Board, dove fu responsabile della divisione dei requisiti civili e fu strettamente in contatto con la divisione dei requisiti militari. Presto assunse un incarico presso il War Production Board, dove svolse un ruolo di primo piano nella pianificazione economica del periodo bellico. Nel 1944, mentre la guerra volgeva al termine, divenne il capo economista responsabile del Commerce Department’s Current Business Analysis Division, responsabile della pubblicazione del Survey of Current Business, la principale pubblicazione economica del governo degli Stati Uniti. Nel 1946 accettò l’incarico di assistente speciale di Henry Wallace, poi segretario al commercio ed ex vice presidente degli Stati Uniti.

Durante la caccia alle streghe del maccartismo, nata con l’avvento della guerra fredda, Magdoff fu inserito nella lista nera. Per un certo periodo si dedicò alle assicurazioni e poi divenne comproprietario di una società, la Russell and Russell, che pubblicava libri accademici fuori catalogo, molti dei quali radicali, tra cui Black Reconstruction in America di W. E. B. Du Bois. La società fu poi acquistata da Atheneum Books, che gli diede un certo grado di indipendenza finanziaria. Per un certo periodo insegnò alla New School for Social Research. Fu a lungo socio della Monthly Review e, alla morte nel 1968 di Leo Huberman, il giornalista socialista che aveva co-fondato la rivista con l’economista marxista Paul M. Sweezy, Magdoff si unì a Sweezy come coeditore di MR, posizione che occupò fino alla sua morte nel 2006.

Magdoff è noto per le sue analisi economiche dedicate all’imperialismo, tra cui The Age of Imperialism: The Economics of U.S. Imperialism (1969), che è stata una delle grandi opere che hanno demolito il mito di una buona politica economica internazionale statunitense all’epoca della guerra del Vietnam, e Imperialism: From the Colonial Age to the Present (1978). All’interno della letteratura sull’imperialismo, i suoi contributi spiccano per il carattere concreto, storico ed empirico, anziché basarsi – come troppo spesso accade – su mere astrazioni. Ha scritto l’articolo sulla storia dell’imperialismo, intitolato “European Expansion Since 1763” [Espansione europea dal 1763], per la quindicesima edizione (1974) dell’Enciclopedia Britannica, anche se le ultime parti del suo articolo sull’imperialismo statunitense, compresa la guerra del Vietnam, sono state rimosse e sostituite, per mezzo della censura, nelle edizioni successive dell’enciclopedia.

Oltre ai suoi scritti sull’imperialismo, Magdoff è stato uno dei principali analisti critici del capitalismo monopolistico avanzato ed ha sviluppato, insieme a Sweezy, una prospettiva teorica sulla stagnazione economica e sulla finanziarizzazione dell’economia statunitense che ha avuto un’enorme importanza nella comprensione delle attuali tendenze della crisi economica. Gran parte di questa valutazione radicale, basata sulla straordinaria abilità di Magdoff nell’utilizzare le statistiche economiche statunitensi, ha assunto una forma empirica molto dettagliata, che è sfociata in una profonda critica empirico-storico-teorica che ha rivelato la trappola della stagnazione-finanziarizzazione, che è oggi la principale contraddizione delle economie capitalistiche mature. Questi articoli, pubblicati per lo più su Monthly Review, hanno dato vita a una serie di libri pionieristici, tutti scritti da Magdoff e Sweezy: The Dynamics of U.S. Capitalism (1972), The End of Prosperity (1977), The Deepening Crisis of U.S. Capitalism (1981), Stagnation and the Financial Explosion (1987) e The Irreversible Crisis (1988). Sono state queste opere a gettare le basi della contemporanea teoria marxiana della finanziarizzazione.

Magdoff fu un forte sostenitore della Rivoluzione cinese, viaggiò spesso in Cina dove offrì consigli sulla pianificazione economica durante il periodo di Mao Zedong. In quel periodo Monthly Review Press pubblicò una serie di importanti opere sulla Rivoluzione cinese, tra cui Fanshen di William Hinton. Magdoff seguì da vicino gli sviluppi della Cina, scrivendo sul suo significato e sulle sue prospettive fino alla fine della sua vita.

Anche la Rivoluzione nepalese fu molto importante per Magdoff e per altri membri di MR. Nell’autunno del 2002, Harry, prossimo ai 90 anni, dovette lasciare il suo appartamento di New York per andare a vivere nel Vermont con il figlio Fred Magdoff, anch’egli importante collaboratore di MR. Si pose quindi il problema di cosa fare della sua biblioteca personale. Alcuni membri del gruppo di MR del tempo, tra cui Mary Des Chene, Stephen Mikesell (cognato di William K. Tabb, collaboratore e socio di MR di lunga data) e John Mage, ognuno dei quali aveva un profondo legame personale con il Nepal, suggerirono di inviare i suoi libri per aiutare i nepalesi rimasti.

Magdoff fu entusiasta della cosa. I libri vennero quindi inscatolati e inviati a Kathmandu. Temendo che si vedessero in cima alle pile i volumi marxisti e comunisti, ed i libri potessero quindi essere sequestrati dalla dogana reale del Nepal, coloro che li imballarono fecero in modo che sugli strati superiori vi fossero soltanto libri in ebraico e yiddish, così da confondere le autorità. In ogni caso, i libri sono arrivati a destinazione. E noi di MR siamo lieti di ricevere oggi, a distanza di due decenni, una notizia così gradita sullo stato attuale della Harry Magdoff Memorial Library.

Se gli studiosi nepalesi decidessero di intraprendere oggi lo studio dell’opera di Magdoff, consiglierei di iniziare con i suoi articoli: “The Two Faces of Third World Debt“ (scritto insieme a Sweezy) nel numero di gennaio 1984 di MR e “Approaching Socialism“ nel numero di luglio-agosto 2005 di MR (scritto insieme a Fred Magdoff). Come si può facilmente evincere da questi articoli e da tutta la sua opera, Harry Magdoff era sempre alla ricerca di una via socialista, egualitaria ed ecologica per l’umanità, anche nelle condizioni più difficili imposte dal capitalismo e dall’imperialismo. Noi di MR continuiamo a ispirarci a lui in tutto ciò che facciamo.


Note

[1] Termine di origine portoghese, utilizzato da Marx per indicare la classe della borghesia commerciale nelle regioni dell’Asia Orientale. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Comprador. N.d.T.

[2] Concetto coniato all’interno degli studi economico-sociali. In ambito produttivo delinking significa: disaccoppiamento del benessere dalla crescita economica, dalla produzione. N.d.T.

[3] https://gyorgylukacs.wordpress.com/2016/02/20/grand-hotel-abisso/. N.d.T.

[4] Qui Foster fa riferimento a Röckstrom e al suo concetto di “limiti planetari".


John Bellamy Foster e Mahesh Maskey

Traduzione e revisione a cura di Giovanni Fava e Walter Dal Cin - Redazione di Antropocene.org

Fonte: Monthly Review, vol. 75, n. 07 (01.12.2023)


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