Fonte: Edizioni Smasher - gennaio 2023

È stato recentemente pubblicato da Edizioni Smasher il libro "Frattura metabolica e Antropocene. La distruzione capitalistica della Natura", un’antologia di tredici articoli collegati, sotto il profilo teorico o empirico, dal comune filo rosso di rifarsi alla teoria della «frattura metabolica», all’impatto della produzione capitalistica sui cicli vitali della natura e sul lavoro umano.
Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo la postfazione di Alessandro Cocuzza curatore, con Giuseppe Sottile, dell'antologia.



La storia comune del pianeta e della vita che vi si è sviluppata ha conosciuto nell’arco di milioni di anni periodiche drammatiche «transizioni biotiche» causate da eventi diversi (glaciazioni, impatti di asteroidi, aumento delle temperature…), nel corso delle quali si è registrata l’estinzione di gran parte delle specie viventi. Si calcola che durante il Paleozoico, più precisamente durante l’Ordoviciano-Siluriano – intorno a 450 milioni di anni fa – quella che è considerata la prima estinzione di massa abbia riguardato «circa l'85% delle specie allora esistenti fra invertebrati e pesci primitivi», mentre la terza estinzione, quella avvenuta circa 250 milioni di anni fa, nel Permiano-Triassico, abbia causato la scomparsa di «circa il 96% delle specie animali marine e [del] 50% delle famiglie animali esistenti»[1]; mentre la quinta, come risaputo, quella dei dinosauri.

Aggiungiamo a tutto ciò l’impatto umano, incominciato ancor prima della nascita, durante il Neolitico, della cosiddetta civiltà. Se da allora l’influenza dell’uomo, in modo particolare sulle «estinzioni più recenti (dal XVI sec.) è innegabile», la nostra specie sarebbe responsabile della scomparsa di 351 specie di mammiferi già a partire dal tardo Pleistocene, come afferma uno studio dal titolo The past and future human impact on mammalian diversity, condotto da un team internazionale e comparso su «Science Advances»[2]. Durante il tardo Pleistocene e nella fase iniziale dell’Olocene, corrispondente quest’ultima grosso modo al Mesolitico, vale a dire prima dello scoppio della grande rivoluzione neolitica, a partire dalla quale l’impatto umano si fa via via più incisivo e devastante, l’estinzione determinata dall’uomo ha riguardato numerose specie animali ed anche molteplici specie e varietà vegetali.

Nello stesso studio si afferma che, a differenza di quanto finora sostenuto in ambito scientifico, non abbiamo prove sufficienti di estinzioni causate dal clima negli ultimi 126.000 anni. Mentre infatti «il clima ha avuto un impatto trascurabile sulle estinzioni globali dei mammiferi», quello umano spiegherebbe il 96% delle estinzioni durante lo stesso periodo. Attraverso metodi statistici predittivi a posteriori, gli studiosi in questione mostrano appunto come l’aumento dei tassi di estinzione siano meglio correlati alla densità umana e al popolamento del pianeta da parte dell’homo sapiens di quanto non lo siano ai cambiamenti climatici o al fattore umano e climatico combinati. Proprio l'uomo, pertanto, è «il principale motore dell'estinzione delle specie dall'inizio del tardo Pleistocene».

Gli stessi studiosi concordano nel ritenere il devastante impatto umano della nostra epoca la causa dell’impennata senza precedenti nei tassi di estinzione registrati, che risultano «circa 1700 volte superiori a quelli all'inizio del tardo Pleistocene» e fanno prevedere un futuro a dir poco drammatico.

Oggi l’ennesima transizione biotica in corso viene da più parti indicata come la «Sesta estinzione di massa». La cosiddetta civiltà si rivela responsabile di un’enorme e inimmaginabile scomparsa di biodiversità dal pianeta. È qui necessario fare, però, adeguati distinguo: essendo l’impatto degli ultimi secoli, da quando data la nascita del capitalismo industriale, superiore a quello dei precedenti diecimila anni e quello degli ultimi 70 anni, da quando data l’inizio di un uso massiccio di combustibili fossili e della cosiddetta Great Acceleration, di gran lunga superiore a quello degli ultimi secoli.

Per onestà storica e per il fatto che vi ci troviamo coinvolti, l’Antropocene rappresenta così, da quando si è affermato il capitalismo col suo impatto devastante sull’ambiente, la fase più parossistica della storia della civiltà e di quella del capitalismo tout court.

Pertanto, se è scientificamente corretto affermare che la storia della vita sul pianeta, e per molteplici ragioni, non è mai stata facile, e in certe fasi anzi parzialmente o drammaticamente compromessa da eventi naturali; se è vero che l’uomo ha da sempre esercitato un impatto determinante quando non distruttivo sugli ecosistemi, ancor prima della rivoluzione neolitica; se è altrettanto vero che l’impronta ecologica umana si è impressa in modo definitivo e devastante particolarmente con la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento, delle città e della loro organizzazione sociale complessa e con tutto quello che è venuto dopo, è solo con l’affermazione del capitalismo, e segnatamente della sua attuale fase estrema, che ha inizio l’Antropocene, ponendo le condizioni di quello che potrebbe essere il tragico evento della scomparsa della nostra specie dal pianeta, e con noi e prima di noi di numerosissime altre specie viventi. Per non parlare degli altri effetti del nostro impatto ambientale.

Oggi, come ai tempi di Marx ed Engels, le scienze della vita e della Terra e la critica dell’economia politica convergono nella stessa direzione. Marx non cessò mai, da quello studioso serio e pignolo che era, di documentarsi e costantemente aggiornarsi sulle acquisizioni della scienza del suo tempo, e così lo stesso Engels. È inutile qui ricordare l’entusiasmo di entrambi i nostri per Darwin o il fatto che gli studi di Engels, forniscono nel suo secolo, secondo Stephen Jay Gould, «il miglior esempio di teoria fondata su una coevoluzione gene-cultura, cioè la migliore spiegazione dell'evoluzione umana negli anni in cui era in vita Darwin, dato che la coevoluzione gene-cultura è la forma che tutte le teorie coerenti dell'evoluzione umana devono assumere»[3] o che le conoscenze appunto di quest’ultimo in campo biologico, biochimico, agronomico… ecc. fossero tra le più aggiornate nella sua epoca, pari se non superiori a quelle di molti scienziati a lui contemporanei… Ci basta qui ricordare come lo studio approfondito delle opere di Justus von Liebig avesse fatto affermare a Marx che in quello scienziato si potevano scoprire più spunti per l’analisi economica di quanti se ne trovassero nei testi di molti economisti. E, in particolare, all’analisi di Liebig Marx ricorre per fondare la sua “teoria” del «ricambio organico fra uomo e natura».

È merito oggi di studiosi come John Bellamy Foster, Paul Burkett, Brett Clark, Richard York, Ian Angus, Stefano B. Longo, Kohei Saito ecc., appartenenti a quella che Foster chiama la seconda e terza generazione dell’ecosocialismo teorico ed empirico, se è stata fatta definitiva giustizia di un’errata interpretazione del pensiero di Marx – sfortunatamente condivisa da molti troppo a lungo – secondo cui il Moro sarebbe rimasto estraneo, passato il periodo delle opere giovanili, a qualsiasi questione di natura ecologica, facendosi anzi sostenitore di una sorta di “prometeismo” favorevole alle «magnifiche sorti e progressive» della tecnica e della produzione industriale.

In realtà, attraverso numerose citazioni, tratte anche dal Marx più maturo del III Libro del Capitale, delle Teorie sul Plusvalore e della Critica al Programma di Gotha, i nostri mostrano come egli avesse sempre presente, oltre alla questione socio-economica e della trasformazione della società, anche quella ambientale, e come questa sua costante attenzione si collocasse nella visione d’insieme di un metabolismo uomo-natura, perdendo di vista il quale si fraintende l’intero pensiero suo e quello di Engels. Pure quest’ultimo, riservò infatti abbastanza presto, sin da La situazione della classe operaia in Inghilterra e nella Questione delle abitazioni, sino a Dialettica della natura e all’Anti-Dühring, grande attenzione a tali questioni secondo un approccio sostanzialmente simile a quello del suo amico e sodale.

Anzi, Foster e compagni, non hanno difficoltà a dimostrare come questa visione organica di Marx non si limiti al piano della sua acutissima analisi ma riguardi anche quella che con termini moderni potremmo chiamare la “transizione” verso un’organizzazione sociale più evoluta, una volta superato il capitalismo. A questo proposito, è evidente a chiunque abbia letto soprattutto l’ultimo Marx, come egli non prospetti nessuna forma di capitalismo di Stato quanto, piuttosto, una società gestita dal basso da produttori liberi associati capaci di regolare il metabolismo socio-naturale. La prospettiva liberatoria di Marx ed Engels va pertanto nella direzione di un nuovo tipo di organizzazione finalizzata al pieno sviluppo umano senza che ciò comporti la devastazione dell’ambiente, che costituisce le fondamenta della nostra riproduzione. Siamo agli antipodi di un prometeismo produttivista: l’obiettivo non è la crescita ma lo sviluppo delle potenzialità umane nel rispetto di un ambiente di cui siamo parte insieme a tutta la vita.

La teoria della «Metabolic Rift», come l’ambiente scientifico anglosassone rende il concetto marxiano di «frattura nel ricambio organico fra uomo e natura», è diventata, grazie agli scritti militanti di Foster e degli altri studiosi citati, un’efficace chiave interpretativa sul piano teorico ed empirico della storia del pianeta nell’epoca del capitalismo. Ian Angus, ad esempio, ne ha fatto recentemente ricorso all’interno di una serie di interessantissimi studi empirici sull’attuale cambiamento climatico (Triplice crisi nell'oceano nell’Antropocene [4]) ma anche di ricerche di carattere storico (La pesca intensiva e la nascita del capitalismo, Il capitale contro i beni comuni [5]). Oggi, il concetto di «frattura metabolica» viene proposto dagli studiosi ecosocialisti della seconda e terza generazione come uno degli strumenti di analisi e di lotta di cui deve dotarsi un movimento ambientalista che voglia essere consapevole della vera natura e della reale causa dell’attuale crisi ambientale e degli urgenti problemi da essa posti all’attenzione di tutti.

Il movimento eco-socialista, che ha nella «Monthly Review», in Climate&Capitalism, nei libri di Foster, Burkett, Angus, Saito ecc. un ineludibile punto di riferimento, con i difetti o limiti che gli si possa contestare, attualmente è tra i pochi soggetti radicali a porsi senza sconti né infingimenti, in modo onesto, corretto e coraggioso, la questione ambientale collegandola al problema del superamento del capitalismo. E sempre tra i pochi a coniugare prassi e teoria, consapevole del fatto che natura e società sono interconnessi e le lotte per la giustizia sociale non possono perdere di vista quelle per l’ambiente, e viceversa.

Qui non si tratta ormai di essere uomini di parte, sempre che non si intenda con questa espressione essere dalla parte dell’uomo e della natura, ma di porsi in modo scientifico rispetto alla nostra società, al suo rapporto col pianeta e al presente drammatico momento storico. I dati parlano chiaro e ci dicono soprattutto che ci resta poco tempo, non dico per invertire la rotta ma per salvare il salvabile. Che non significa salvare soltanto noi stessi.


Note

[1] I passi citati sono tratti dalla voce Estinzione di massa di Wikipedia.

[2] T. Andermann, S. Faurby, S. T. Turvey, A. Antonelli, D. Silvestro, The past and future human impact on mammalian diversity, «Science Advances», vol. 6, 4 Sept. 2020.

[3] John Bellamy Foster, La Dialettica della natura di Engels nell'Antropocene, «Monthly Review», 01.11.20. Pubblicato in questo volume.

[4] Pubblicato nelle sue tre parti in questo volume.

[5] È possibile leggere la traduzione di questi due lunghi saggi nella sezione Saggi scaricabili, del sito italiano www.antropocene.org.


Alessandro Cocuzza