Fonte: : Association Francis Hallé - 02.08.2023
In questo quinto articolo sulle foreste, Felice Olivesi, storica del giardino e del paesaggio, esamina il sorgere e l’evolversi di conflitti nell’utilizzo delle risorse forestali nella società occidentale. Vengono messi a confronto aspetti socio-culturali presenti nelle passate e odierne manifestazioni e la loro possibile, auspicabile raggiunta ricomposizione.
Per leggere i precedenti articoli:
Memoria delle foreste/1 CLICCA QUI
Memoria delle foreste/2 CLICCA QUI
Memoria delle foreste/3 CLICCA QUI
Memoria delle foreste/4 CLICCA QUI
Conflitti, la foresta delle contrattazioni
La foresta divide. Che si tratti di sfruttare il suo legno, di valorizzarla o di proteggere i suoi ecosistemi, le opinioni divergono e talvolta si esprimono in modo violento.
È una novità? No.
È una caratteristica della nostra società occidentale? Sembrerebbe di sì.
Prima di entrare nel vivo della questione, fissiamo alcuni punti fondamentali.
Nel terzo articolo di questa rassegna, intitolato “Aux sources de notre imaginaire des forêts”[Alle origini del nostro immaginale], si è visto che la nostra civiltà occidentale è stata costruita in opposizione alla natura selvaggia, e che, dopo diverse fasi decisive – agricoltura e sedentarizzazione, romanizzazione, cristianizzazione – ora consideriamo la foresta come fornitrice di risorse o servizi. In questa visione del mondo, l'Uomo si pone al di fuori della natura e ritiene di avere il diritto di attingere ad essa a piacimento, limitato in questo solo dalla concorrenza dei suoi simili. Questo modello non è universale; le culture dei primi popoli, ad esempio, consideravano l'uomo come parte di una sorta di grande macchina universale organizzata da una natura sovrana che imponeva a tutti le sue regole, regole che era necessario conoscere e seguire per vivere una vita in armonia con tutti gli esseri viventi e inanimati. Ciò portava ad una relazione totalmente diversa con l'ambiente. Per venire al nostro tema, questi popoli non avevano, a differenza di noi, un conflitto interno sull'uso delle foreste, eppure riuscivano a farlo, e senza distruggerle.
Quindi, se volessimo rispondere alla domanda «perché discutiamo di foreste?», la risposta di base sarebbe «a causa del modo in cui immaginiamo il mondo». Ciò spiegherebbe, come possiamo vedere dai nostri archivi, perché la controversia duri da tanto tempo: almeno dal Medioevo.
Ma, detto questo, occorre guardare più da vicino questo “perché”, e aggiungere il “quando” e il “come”. Infatti, anche se la causa principale dei conflitti persiste nel corso dei secoli, la nostra società si è evoluta e, con essa, le ragioni della discordia. È interessante distinguere cosa sia cambiato e cosa non, da allora a oggi, perché la foresta e la società che la modella sono andate avanti insieme, e ciascuna parla dell’altra per far progredire la nostra comprensione del quadro generale.
Infine, una precisazione di carattere lessicale. Diversi ricercatori (si veda la fine di questo articolo per i riferimenti citati nel testo) fanno una distinzione tra controversia e conflitto. La controversia, espressione di idee opposte, diventa conflitto se viene riconosciuta come tale, ad esempio inserendola in un quadro giuridico o rendendola pubblica, visibile o riconoscibile in qualche modo. Sebbene le tensioni legate alle foreste siano sempre state presenti nel corso della nostra storia, non sempre sono sfociate in un conflitto. I conflitti sono nati per ragioni specifiche, e comprendere queste ragioni significa comprendere la nostra storia.
E allora, senza ulteriori indugi, diamo uno sguardo curioso al passato delle nostre foreste, seguendo i tanti ricercatori che si sono occupati della questione. Quali erano i motivi del contendere? Come nascevano, si manifestavano e come si risolvevano i conflitti? È cambiato qualcosa nel corso dei secoli? In che modo i conflitti del passato possono illuminare quelli del nostro tempo?
Competizione per le risorse
Nell’Europa occidentale, la storia comune tra uomini e foreste inizia nel Neolitico, circa 8.000 anni fa. È in questo periodo che le comunità divennero sedentarie, iniziarono a praticare l'agricoltura, addomesticarono specie animali e vegetali, costruirono edifici stabili e crearono officine per lavorare metalli, il vetro e persino la ceramica. Per tutte queste attività, la foresta era essenziale in quanto forniva materiali, combustibile e cibo per le famiglie o il bestiame.
A quel tempo, la società era basata su un sistema agro-silvo-pastorale di cui è importante comprendere il funzionamento perché avrebbe giocato un ruolo di primo piano nei conflitti dei secoli successivi. I campi coltivati (“agro”), la foresta (“sylvo”) e i pascoli per le greggi domestiche (“pastorale”) interagivano strettamente: ad esempio, le mandrie venivano portate a pascolare nei prati, ma anche nella foresta e nei campi dopo il raccolto; i contadini raccoglievano il letame per concimare le colture, falciavano felci o erbe per farne lettiere per gli animali; il legno dei boschi serviva per le recinzioni degli animali, come pali per le viti, per non parlare degli altri usi sopra menzionati.
Il sostentamento della gente comune si basava su questo sistema e ne dipendeva strettamente. Il suo buon funzionamento era per la comunità una questione di sopravvivenza. Se la macchina era ben oliata e i suoi vari componenti ben equilibrati, la comunità che dipendeva da essa viveva in pace e prosperità. Viceversa, se qualcosa andava storto, potevano sorgere problemi…
Questo sistema di sussistenza era soggetto a un complesso quadro giuridico. Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, i proprietari e padroni della terra divennero i signori. Le comunità che vivevano sulle terre del signore non vi potevano fare quello che volevano e dovevano attenersi a delle regole. Queste regole, comunemente note come "diritti d'uso", erano un misto di comandi del signore e consuetudini ereditate dall'epoca gallo-romana, quando la foresta era "res nullius", non appartenente a nessuno. Crollato l'Impero Romano, le comunità dovettero negoziare con i nuovi padroni il mantenimento delle loro usanze e successivamente l'adeguamento dei propri diritti d'uso, quando l'evoluzione della società lo richiedeva.
Questi diritti d’uso variavano molto da una zona all'altra. Inoltre poteva succedere che la terra cambiasse proprietario e questo complicava la situazione. Ad esempio, durante la diffusione del cristianesimo, i territori montani furono spesso ceduti dai signori secolari a comunità religiose affinché potessero fondarvi i loro monasteri. I monaci cominciarono allora a gestire il territorio a modo loro, mettendo in discussione le abitudini degli abitanti locali. Per molto tempo i diritti di ciascuna parte, basati sulla pratica e sull'oralità, furono vaghi e solo intorno al XIII secolo vennero messi per iscritto in tutto il territorio francese. Gli atti di donazione di un signore ad un'abbazia erano spesso più antichi e si opponevano alle pretese degli abitanti che, senza prove scritte, potevano solo appellarsi ad una consuetudine "immemorabile", che talvolta non era poi così antica.
Questa complessità di diritti intrecciati e non ben definiti, di diversa origine, fu terreno fertile per ricorrenti tensioni tra signori e comunità, ma anche tra più signori o tra più villaggi, che contestavano la natura dei diritti d'uso o i territori in cui erano applicati. Perché la violenza esplodesse bastava una scarsità delle risorse: un inverno lungo e freddo che aumentava il bisogno di legna da ardere, una siccità, una guerra o un'epidemia; oppure, al contrario un periodo di prosperità che portava ad un aumento della popolazione e delle attività, esercitando quindi una maggiore pressione sulle terre e sulle foreste.
Secondo lo storico Fabrice Mouthon, che ha studiato le popolazioni delle Alpi nel Medioevo, il conflitto non è solo il sintomo di uno squilibrio nel sistema agro-silvo-pastorale, ma è anche un vero e proprio strumento di costruzione della società. Egli descrive un processo in due fasi: la prima è la violenza, che dà esistenza tangibile al conflitto e richiede una rottura con lo stato precedente; la seconda è la conciliazione, che stabilisce un nuovo equilibrio tra le parti.
La violenza stessa comprende diversi livelli e aumenta di intensità fino a quando non giunge la conciliazione. Nei conflitti forestali si verificano molto raramente morti o feriti gravi. Si inizia con alterchi, sconfinamenti nel territorio conteso e occupazioni in assenza dell'avversario. Continuando poi con la distruzione o lo spostamento dei termini di confine. Così, all'inizio del XVI secolo sul monte Biolley, quando un bosco fu bandito e il pascolo interdetto, i pastori manifestarono la loro disapprovazione abbattendo alcuni alberi, che simboleggiavano il motivo del bando, prima di portare la mandria sotto le fronde. La violenza può arrivare fino alla lotta tra le parti, con ferimenti o rapimenti, ma questo è raro.
La violenza può essere simbolica e non distruttiva. Nello stesso studio lo storico cita un conflitto tra due abbazie all'inizio del XIV secolo, in cui i certosini di Vallon accusarono i cistercensi di Aulps di invadere il loro territorio. Per dare concretezza al conflitto, il priore della certosa, alla presenza di un notaio e sotto gli occhi dei monaci riuniti, lanciò tre pietre in direzione dell'abbazia di Aulps, invadendo simbolicamente il territorio conteso; con tale atto poteva ufficialmente avviarsi la procedura di composizione.
Una volta manifestato il conflitto, la conciliazione avviene con l'aiuto di mediatori, scelti da entrambe le parti. Se non si trova una soluzione, la controversia viene deferita al signore per l’arbitrato. A partire dal XIII secolo, con l'instaurazione della giurisdizione principesca, si evolve il ruolo del principe: mentre all’inizio il signore interveniva con l'obiettivo di trovare un compromesso tra le parti avverse, ora il suo ruolo era quello di mantenere l'ordine sul proprio territorio. Un conflitto diventa un'offesa alla sua autorità, e l'arbitrato cede il posto a giudizi e sanzioni, ma anche ad indagini ed assunzione di prove.
In altre regioni i conflitti potevano essere gestiti diversamente. Nei Pirenei, ad esempio, le controversie venivano risolte da assemblee di rappresentanti delle comunità, che garantivano anche il rispetto delle regole e la gestione delle loro aree forestali. In Francia, solo con la centralizzazione dello Stato e i decreti reali dell’Ancien Régime si cominciò ovunque a trattare i conflitti allo stesso modo.
I conflitti ebbero un’altra conseguenza sulla società: l’emergere di una coscienza comunitaria. Quando una categoria di diritti è minacciata, coloro che ne soffrono direttamente si rivolgono ai loro vicini che sono colpiti indirettamente. Gli abitanti si rendono conto che i diversi membri di una frazione o di un villaggio, hanno bisogno gli uni degli altri per vivere. Pertanto, gli agricoltori difenderanno i diritti degli artigiani e viceversa. Con la popolazione unita, le rivendicazioni hanno un maggior peso e, in cambio, rendono gli abitanti consapevoli del loro potere e della loro esistenza come gruppo, di fronte al signore o alle altre comunità.
Così, all’interno della società agro-silvo-pastorale, le risorse forestali contese rappresentavano la causa primaria dei conflitti. In questa “foresta delle contrattazioni”, le diverse categorie di una stessa società – signori, comunità religiose o comuni indipendenti – competevano tra loro, a volte fino alla violenza. Non tutti usavano le foreste allo stesso modo: per alcuni garantiva la sopravvivenza, per altri era strumento di lavoro e per i signori patrimonio da preservare e utilizzare per i propri scopi particolari.
Vale la pena notare che questo tipo di conflitto è strettamente associato all'abbondanza o, al contrario, alla scarsità di risorse forestali. Poiché, nel corso dei secoli, la carenza di legname diventa sempre maggiore, questo stato di agitazione sociale è cronico e senza rimedio. Di fatto, è un fenomeno globale che ritroviamo nella società di oggi.
Ma torniamo al Medioevo e notiamo che questi conflitti d’uso riguardano le foreste locali, utilizzate sul territorio stesso in cui crescono. Il conflitto era innanzitutto locale. Quando, con il passare del tempo, entrano in gioco questioni esterne al territorio, i conflitti forestali cambiarono volto.
Difesa dalle minacce esterne
Le risorse forestali sono sempre state contese tra i proprietari dei terreni e le popolazioni che li abitavano, ma si cercava di evitare conflitti aperti: chi tagliava legna illegalmente o faceva il bracconaggio era punito con una multa se colto in flagrante, ma non c’era un numero sufficiente di guardie per prevenire tutti i reati, così che spesso passavano inosservati. Inoltre, la violazione delle regole veniva effettuata di nascosto, a fini di sussistenza e i signori spesso concedevano clemenza di fronte a qualcosa che non potevano impedire, pur vigilando che gli abusi fossero contenuti entro limiti ragionevoli.
Tuttavia, con lo sviluppo delle città e degli stabilimenti industriali, arrivò il momento in cui la foresta semplicemente non poteva più fornire risorse sufficenti per tutti. Nel XVIII secolo, i proprietari cercarono di riprendere il pieno controllo delle loro proprietà e i proventi derivanti dalla loro gestione. La domanda di legname aumentò e di conseguenza anche i prezzi. Valorizzare un patrimonio forestale significava spesso vendere il legname fuori dal territorio, a ricchi centri di attività. I diritti d'uso locali, che spesso portavano a depredazioni di legname prezioso, con poco profitto, divennero un intralcio.
Questi nuovi orientamenti economici, che si scontravano con le abitudini rurali, causarono alcuni dei conflitti forestali più clamorosi della nostra storia.
Nell'Inghilterra del XVIII secolo, sotto l'influenza di nuove idee per la gestione delle aree agricole e forestali, i proprietari recintarono vaste aree utilizzate quotidianamente dalle popolazioni. Queste “enclosures” furono malamente accettate e provocarono una violenta resistenza da parte dei residenti. Armati, con il volto annerito per non essere riconosciuti, i rivoltosi rivendicarono con forza i loro diritti forestali così come li avevano intesi ed esercitati fino ad allora. Il parlamento, composto in gran parte da grandi proprietari terrieri, rispose con l’approvazione del “Black Act” nel 1723, che trasformò il conflitto in una vera e propria guerra forestale. Questa legge puniva con la morte chiunque portasse segni di bracconaggio o di qualsiasi altro crimine, come una faccia annerita (da cui il nome "Black Act") o un'arma da caccia, anche al di fuori di ogni flagranza di reato, il che era una novità. Anche se la pena di morte non veniva solitamente applicata per i crimini forestali, e le multe o la reclusione punivano solo chi veniva colto sul fatto. Da quel momento in poi, il semplice sospetto - con tutto ciò che ne consegue in termini di abusi ed errori - era sufficiente a giustificare la pena di morte.
In Francia, la rivolta delle Demoiselles assomigliò molto all'episodio inglese. Avvenuta nella foresta di Chaux nel 1765, riunì uomini del luogo che si armarono, si travestirono per non essere riconosciuti (a volte indossando abiti da sera, da qui il nome della rivolta delle "demoiselles" [damigelle]) e, secondo lo storico François Vion-Delphin, «si permisero di fare ciò che era stato loro proibito per decenni, riappropriarsi di uno spazio di cui si era voluto regolamentare l'accesso».
La rivolta affondava le sue radici nel secolo precedente, con l'annessione della Franca Contea alla Francia nel 1678 con il Trattato di Nijmegen. Nel 1669, il Regno di Francia aveva promulgato la sua grande ordinanza forestale, la cui progressiva applicazione fu realizzata in ciascuna provincia grazie alle commissioni della Riforma. Nella Franca Contea, la prima Riforma del 1717 decise di fare della foresta di Chaux, una foresta reale, una foresta centenaria nella quale si autorizzavano vaste aree di pascolo sotto i grandi alberi, così come il prelievo di una grande quantità di legno morto. Per i 10.000 ettari della foresta, divisi in venti appezzamenti o triages, c'erano una quarantina di guardiani, il che significa che la sorveglianza era molto scarsa. Nel 1731 venne attuata una nuova Riforma: si decise di abbattere e vendere le vecchie fustaie e di sostituirle con diciassette fasce di bosco ceduo e solo tre di fustaia. I cedui producono poco legno morto e devono essere protetti dalla voracità del bestiame. Così, man mano che gli abbattimenti si susseguirono nel corso di decenni, gli abitanti del paese videro ridursi sempre più la superficie a cui avevano accesso e divenne sempre più difficile per loro procurarsi i materiali necessari al loro sostentamento. La popolazione non si rese immediatamente conto di cosa ciò comportasse e il conflitto non scoppiò immediatamente. La foresta di Chaux riforniva la città di Dôle e una quarantina di piccoli villaggi, con le loro officine artigianali; contestualmente alla riduzione della superficie a disposizione dei residenti aumentò il numero delle guardie. A ciò si aggiunse un fatto economico: il legname veniva venduto all'asta al miglior offerente e le grandi fucine dei territori limitrofi si appropriarono dei mercati a prezzi inaccessibili per i piccoli artigiani locali, che furono così impossibilitati a lavorare.
In risposta, dal 1740, i residenti locali si unirono per tagliare la legna di cui avevano bisogno e proteggersi a vicenda dalle guardie. Nel febbraio 1765 venne compiuto un ulteriore passo: duecento uomini provenienti da diversi villaggi si nascosero nella foresta, la occuparono, bloccarono i sentieri e raccolsero legna per alimentare le loro officine. Gli scontri tra le guardie e gli insorti furono violenti: con alterchi, ferimenti, rapimenti e talvolta morti. Il mese successivo, il parlamento di Besançon emise un decreto che minacciava di morte chiunque avesse preso parte alla rivolta e vietava l'acquisto e l'occultamento di legname derivante dal disboscamento illegale. La sorveglianza fu intensificata. Questa misura non portò a nulla. Un anno dopo, nell'agosto del 1766, il Parlamento concesse a ventisette villaggi una quota di legname a basso costo, garantendo loro una consegna annuale. Ma le quantità assegnate non erano sufficienti e la regolamentazione repressiva venne mantenuta, così il conflitto continuò. Alla fine i problemi durarono fino alla Rivoluzione francese e anche oltre il cambio di regime.
È significativo notare che in questa contrapposizione tra l'amministrazione regia e la popolazione, i consiglieri locali si schierarono generalmente dalla parte degli abitanti: garanti del mantenimento dell'ordine e referenti dell'autorità reale, coprirono le tracce alle guardie o nascosero i ribelli ricercati. Ancora nel 1842 i reati forestali venivano commessi con il consenso dei sindaci e questi ultimi si mostravano ostili nei confronti degli ispettori forestali, rappresentanti dello Stato. Gli storici hanno notato che molte delle tensioni legate alla foresta cessarono solo con la scomparsa delle comunità rurali interessate...
Questo conflitto, e altri simili in tutta Europa, testimoniava una doppia scomparsa: quella del sistema agro-silvo-pastorale a favore di una logica mercantilista e industriale, e quella dell’autonomia delle comunità locali sostituita da un’organizzazione proveniente dall’alto.
In Francia, la volontà del re e poi della Repubblica di centralizzare le decisioni e standardizzare i metodi di gestione forestale ha suscitato forti resistenze, che si sono accentuate quando gli ordini hanno messo a repentaglio la risorsa stessa per la mancata conoscenza del territorio. Tutti gli strati della società locale, prima in competizione tra loro, si unirono contro direttive assurde.
Nei Vosgi, ad esempio, il modello tradizionale di gestione forestale era quello del “giardinaggio” [taglio per piede d’albero N.d.T.]: in un soprassuolo forestale di faggio o di abete si abbattevano solo alcuni alberi per soddisfare bisogni immediati, lasciando che gli altri continuassero la loro crescita. Si trattava di un metodo di gestione adattato alle condizioni di montagna, molto diverse da quelle di pianura. Tuttavia, la già citata ordinanza forestale reale del 1669 imponeva il taglio a raso, con la conservazione di pochi alberi da seme. L'ufficiale riformatore, inviato nella zona nel 1687 per attuare l'ordinanza, avendo compreso le condizioni locali, raccomandò giudiziosamente il taglio per piede d'albero, ma il suo consiglio non fu seguito e l'ordinanza fu applicata rigorosamente.
Gli effetti furono disastrosi, soprattutto sulle foreste di abeti. Gli appezzamenti disboscati lasciarono corridoi dove il vento irruppe sradicando a migliaia gli abeti. Gli ispettori, notando che gli abeti non spuntavano mai dalle ceppaie – non lo fanno mai – accusarono i contadini locali di far pascolare le loro mandrie negli appezzamenti. Vedendo che diminuivano gli alberi di grandi dimensioni, ipotizzarono che i tagli fossero stati poco calibrati e che il danno fosse stato causato dai contadini che avevano praticato il taglio per piede d’albero nonostante il divieto. I pendii boscosi si trasformarono in paesaggi desolati, che provocarono una forte impressione in tutti gli strati della società.
Le richieste si susseguirono per tutto il XVIII secolo, presentate da intere comunità o da abati, uomini del popolo o uomini di scienza. Le memorie redatte erano argomentate, spiegavano che l'abete ha bisogno di ombra per germogliare, che è sensibile al vento... ma non accadeva nulla. Il movimento di protesta perdurò nel tempo. Queste lamentele si rifletterono anche nei cahiers de doléances del 1789.
Altrove, la lotta assunse toni nazionalistici. Alla fine del XVIII secolo, la Polonia era stata divisa tra Germania, Russia e Austria. A partire dal 1860, la Germania, per alleviare la pressione sulle proprie foreste, acquistò vaste aree dagli aristocratici polacchi in rovina e si appropriò in particolare della foresta di Zakopane sui monti Tatra, una regione dai paesaggi particolarmente maestosi, ammirati fin dal secolo precedente da naturalisti, geologi e viaggiatori. Le foreste furono rase al suolo, il legname venduto e la terra erosa. Non si trattava di incompetenza o di scarsa familiarità con il territorio, perché la gestione delle foreste di montagna era conosciuta e praticata in tutta Europa, compresa la Polonia. Qui l'unico obiettivo era il profitto immediato. Per la prima volta l'intera società civile si mobilitò. I difensori delle foreste usarono la stampa a grande tiratura, una novità per l'epoca.
Un deputato scrisse nel 1886:
“Dove gli scolitidi, che in tedesco chiamiamo Borkenkäfer, stentavano ad arrivare, ci sono riusciti gli speculatori prussiani, e sono stati i più dannosi, i più deleteri, e io li chiamo Borkenkäfer delle foreste di Zakopane, quelli che hanno disboscato e distrutto senza la minima pianificazione economica.”
Diversi tentativi di insurrezione fallirono. I borghesi delle città erano costernati nel vedere queste maestose montagne deturpate. Alla fine il conflitto si concluse con l’acquisto di molti appezzamenti da parte di patrioti polacchi che li rimboschirono e protessero. Nel XX secolo le foreste di Ojcòw e Zakopane sono diventate parchi nazionali.
A differenza delle epoche precedenti, non era più necessario vivere vicino alla foresta per preoccuparsi del suo futuro. La lotta ora va oltre la questione delle risorse forestali e degli usi locali, per affrontare quella delle idee e della politica.
In Polonia, come nei villaggi delle Alpi sopra menzionati, i conflitti forestali suscitarono una coscienza comunitaria, ma questa volta, su scala nazionale: la foresta, come paesaggio, identificava il volto di un popolo, e preservarlo significava anche affermare l'esistenza stessa di una nazione, con la sua cultura, la sua storia e il suo legame con il suo territorio. E si è andati anche oltre, visto che nel 1901 la foresta di Ojcòw è stata dichiarata "foresta di protezione", in quanto la sua presenza impediva ai torrenti di esondare in primavera: dopo qualche decennio, infatti, è entrata in campo la motivazione ecologica.
Il confronto tra diverse visioni della natura
La società agro-silvo-pastorale finisce per scomparire di fronte al modello commerciale e industriale, ma una volta avvenuta questa transizione, i conflitti attorno alla foresta non scompaiono. Al contrario, si arricchiscono di nuove tematiche più immateriali che riguardano la visione stessa della natura.
In Francia, negli anni Trenta dell'Ottocento, i pittori della scuola di Barbizon guidati da Théodore Rousseau fondarono la Société des amis de la forêt de Fontainebleau. Si opponevano al progetto di piantare conifere nell’antica pittoresca foresta – un’espressione che letteralmente significava “degna di essere dipinta”. Sradicando di notte i giovani pini piantati al posto delle querce abbattute, incitavano gli abitanti a fare altrettanto offrendo loro del cibo con l'operazione “un pane per un pino”, arrivarono ad ottenere, nel 1861, la creazione in una parte della foresta di una “riserva artistica”, la prima riserva naturale al mondo. Con il proseguire della mobilitazione furono coinvolte personalità dell'epoca, come Victor Hugo e George Sand, che fece appello, nelle colonne del quotidiano Le Temps nel 1872, ad argomenti artistici, ma anche sociali e persino ecologici:
«Le foreste secolari sono un elemento essenziale del nostro equilibrio fisico, […] conservano nei loro santuari principi di vita che non possono essere neutralizzati impunemente, […] tutti gli abitanti della Francia hanno un interesse diretto a non permettere che la Francia sia spogliata delle sue vaste foreste, serbatoi di umidità necessari all'aria che respirano e al suolo che utilizzano.»
Nel XX secolo l’argomento a favore della protezione della natura è diventato sempre più presente nei conflitti forestali. L’esodo rurale ha progressivamente svuotato le campagne e cambiato l’uso delle foreste, mentre i terreni agricoli abbandonati venivano ricoperti da alberi cresciuti spontaneamente. I conflitti si sono allora caricati di contrapposizioni.
Prendiamo ad esempio i pioppeti delle basse valli dell'Anjou, studiati dalla geografa Amélie Robert. Fino agli anni '60 la regione era caratterizzata dall'allevamento del bestiame, attività poi diminuita con il declino dell'agricoltura. Nei pascoli umidi, una grande varietà di uccelli acquatici approfittava degli spazi aperti per vivere e nutrirsi, ma con la scomparsa del bestiame, i prati vennero rapidamente invasi da arbusti, primo passo verso il ritorno della foresta. Alla fine degli anni '60 si sviluppò la coltivazione dei pioppi. Adatte ai terreni umidi, queste piantagioni avevano il vantaggio di occupare aree abbandonate dall'allevamento e di essere economicamente redditizie. Il conflitto è scoppiato all’inizio degli anni ’80, quando la Ligue de Protection des Oiseaux, osservando il declino degli uccelli acquatici, ne attribuì la colpa all’abbandono delle pratiche agricole tradizionali. All'associazione si unirono i cacciatori, le cui pratiche di caccia da capanno erano ostacolate dalle piantagioni di pioppi. La domanda fu quindi: quale natura deve essere protetta? Come costringere gli agricoltori a sviluppare un’attività non più adatta a loro per proteggere le specie animali? È questo il loro ruolo? In assenza di piantagioni, il bosco riacquisterebbe i suoi diritti, non essendoci più le mandrie a mantenere i pascoli. Alla fine, nel 1998, il conflitto portò alla stesura di una mappa regolatrice che mostra le aree in cui le piantagioni sono vietate, regolamentate o autorizzate. L’intervento, fatto senza alcuna mediazione con i pioppicoltori, fece sorgere tensioni locali. Altrove, in Touraine, i pioppeti sono stati accusati di prendere il posto dei cosiddetti prati “naturali”, che però si mantenevano solo grazie all’allevamento. Il declino di quest'ultimo rese necessario sovvenzionare questa attività affinché i pascoli non si richiudessero.
Con l'esodo rurale e la crescita della popolazione urbana si delinea un nuovo utilizzo: a partire dalla seconda metà del XX secolo, il bosco incarna la natura per gli abitanti delle città che vogliono trarne beneficio e desiderano proteggerlo da quelle che considerano minacce, sia che si tratti di disboscamento o di caccia. Si parla spesso, quindi, della protezione della natura, ma in fondo, secondo la storica Andrée Corvol, non si tratta proprio di questo. All'inizio degli anni '90 ha notato:
«Siamo onesti. Quando rivendichiamo la qualità ambientale, cosa abbiamo in mente? Se non la soddisfazione dei NOSTRI bisogni: il silenzio dell’ambiente circostante, la purezza dell'aria, l'autenticità del luogo, la libertà di movimento. […] allora come oggi: l’accesso al sostentamento, la conservazione di un ambiente […]. La violenza per impedire la scomparsa di entrambi non è ispirata da considerazioni generali ma dalla difesa di un certo vissuto, di una certa memoria e anche di un certo immaginario. La retorica rimette al centro il "naturale" quando in realtà è sempre l'Uomo con le sue esigenze, l'Uomo con i suoi atteggiamenti, ad essere in gioco.»
Questo “immaginario” evocato dalla storica sembra essere un attore importante nei conflitti forestali del XXI secolo. Si combatte per la foresta ma anche, e forse soprattutto, per ciò che essa rappresenta: una certa idea della natura e del rapporto che l'uomo dovrebbe avere con essa. Il conflitto nasce dal confronto tra diverse visioni opposte e incompatibili.
Prendiamo l'esempio della caccia con le mute di cani, o vénerie, studiata dall'antropologo Charles Stépanoff. Questi ha seguito per nove mesi, a partire dall'agosto 2018, gli attivisti anti-caccia, i cacciatori e i loro “seguaci”. Secondo l'autore, se ci si attiene ai dati oggettivi, la caccia con i cani, che consiste nell'inseguire un determinato animale e ucciderlo con un’arma da taglio, riduce la selvaggina molto meno della caccia al tiro: quest'ultima in una domenica uccide quanto un'intera stagione di caccia con i cani. Eppure, i promotori della campagna sono contrari alla caccia con i cani, non quella con il fucile, e i praticanti la caccia al tiro si sono uniti a loro. Oltre all’uccisione di un animale, i cacciatori con i cani sono accusati di impossessarsi dell'intera foresta con lunghi e rumorosi inseguimenti e criticati per il loro “aristocratico” hobby. Si tratta quindi di diritti degli animali e, se sì, secondo quale logica? Vediamo qui come si esprime il conflitto.
La vénerie è praticata da cacciatori a cavallo o a piedi, accompagnati da cani. I “seguaci” sono persone che vanno ad osservare la caccia senza prendervi parte. Seguono a piedi o in bicicletta e provengono generalmente dai paesi vicini. Conoscono bene la foresta e si divertono a indovinare come andrà la caccia, se l'animale riuscirà a scappare o meno e dove è probabile che passi. Mentre i cacciatori devono avere i mezzi per pagare una costosa licenza e mantenere un equipaggio, i seguaci sono spesso persone modeste. Gli oppositori a questa pratica venatoria, sempre secondo l'autore, si presentano come “abitanti” in lotta contro una “casta aristocratica”. Per la maggior parte, appartengono alla classe media istruita, non sono sempre del posto o lo sono da poco tempo, e sono dotati di GPS perché conoscono poco la foresta.
Nel rituale della giornata di caccia, cacciatori e seguaci si salutano tra loro, poi, se l'animale viene preso, si passa a "servir le cerf" e poi alla "curée". La vénerie è una persistenza del Medioevo e porta con sé un simbolismo ambiguo: protezione della specie attraverso l'uccisione di pochi individui, ammirazione dell'animale nel combatterlo, identificazione con i valori di coraggio, perseveranza e intelligenza attribuiti all'animale, ma, alla fine, ucciderlo.
Gli attivisti anti-caccia si presentano come rappresentanti della civiltà di fronte a “orde barbariche”. Filmano i seguaci in bicicletta, talvolta viene sottratto loro il cellulare e si generano risse. I video delle violenze vengono condivisi sui social network per creare empatia tra gli spettatori e la paura e sofferenza dell'animale. Quando riescono a frapporsi tra la preda e i cacciatori, gli attivisti a volte decidono di accarezzare l’animale affinché la loro “energia benevola” lo tranquillizzi. Secondo le statistiche, tuttavia, un cervo selvatico ha maggiori probabilità di sopravvivere a una caccia che a un'operazione di salvataggio, poiché lo stress acuto derivante dalla vicinanza all'uomo può causare un’insufficienza cardiaca.
Si può notare come le argomentazioni addotte da entrambe le parti differiscano dagli appelli per la foresta visti in precedenza, che si basavano sulle conoscenze scientifiche dell'epoca. Da un lato un rituale del passato difficile da comprendere e da accettare per il grande pubblico, dall’altro idee ispirate al movimento New Age – da cui ad esempio deriva la teoria della “circolazione” delle energie” – che mal si conciliano con la scienza. Si tratta di due visioni totalmente diverse della natura, della sua protezione e del ruolo dell’uomo. Nelle parole di Charles Stépanoff,
«Di fronte agli stessi animali e alle stesse scene, animalisti e cacciatori non vedono le stesse cose. Laddove i cacciatori descrivono cani allegri, cavalli appassionati alla caccia, un cervo orgoglioso che usa mille trucchi, gli attivisti vedono cani spaventati, costretti a obbedire, cavalli brutalizzati e un cervo in preda al panico che lotta per la propria vita.»
Multifunzionalità e suoi limiti
Come conciliare visioni così opposte? Lo statuto dell'ONF (Office National des Forêts) si prefigge l'obiettivo di far convivere diversi usi del bosco: produzione, frequentazione di pubblici diversi e protezione della natura. Si tratta della cosiddetta “multifunzionalità” delle foreste. Nonostante la virtù di questo principio, l’equilibrio sembra difficile da raggiungere nella pratica.
Durante una tavola rotonda sul tema “La naturalità delle foreste”, moderata dalla sociologa e urbanista Florence Rudolf, alla quale hanno partecipato un membro dell'ONF, un consulente scientifico di un parco naturale regionale e uno scrittore-fotografo, le differenze sono emerse molto chiaramente. Nella sua relazione, la sociologa afferma: «I vari protagonisti non sono riusciti a trovare una soluzione che possa facilitare il loro dibattito. […] Sembra addirittura che si siano lasciati, rafforzati nelle loro certezze, sicuri della loro incompatibilità, ancora più arrabbiati tra loro di quanto non lo fossero all'inizio della discussione. Il dibattito, insomma, non è servito a costruire un terreno comune!»
Alla fine è sempre una storia di prospettiva, di visione, di immaginazione. Ogni messa in discussione di un modello di società contiene i germi del conflitto, e sembra che la nostra epoca di grandi preoccupazioni ecologiche non faccia eccezione, con le discussioni più che vivaci che l’accompagnano. In passato, la fame di legname causata dall’aumento della popolazione e dallo sviluppo delle attività industriali e delle città ha ispirato nuove idee per la gestione delle foreste. Queste sono state messe in pratica dai potenti – governanti, ricchi proprietari terrieri – le cui scelte non sempre erano giudiziose o egualitarie, provocando talvolta reazioni violente da parte della popolazione. Nondimeno, se si fosse riusciti a prevenire in qualche modo la crescita demografica, i conflitti sarebbero nati comunque dalla scarsità di risorse. Il nostro modello di società, basato su una crescita perpetua, non vuole che questo.
Tuttavia, i conflitti passati ci forniscono alcuni spunti interessanti: ogni volta che è stata messa in gioco la sopravvivenza, le tensioni si sono trasformate in conflitto aperto; ogni volta che le condizioni particolari di un territorio, ecologiche o sociali, sono state trascurate o disprezzate dalle autorità superiori, si sono verificati scontri; ogni volta che visioni e usi incompatibili si sono contesi lo stesso territorio, è scoppiata la violenza. Potremmo anche aggiungere, poiché i nostri tempi sembrano mostrarne esempi, che ogni volta che sono stati distrutti alberi secolari, si è risvegliata l'emozione popolare; alcuni conflitti forestali di ieri e di oggi sembrano essere, più specificamente, conflitti per gli alberi. Nonostante la lunga storia che ci separa dagli antichi culti pagani, sembriamo infatti, collettivamente, ancora attaccati agli alberi, indipendentemente dal fatto che facciano parte o meno di una foresta.
Oggi viviamo in un'epoca di conflitti per l'uso del territorio, per la cattiva gestione e la visione del mondo. Il ruolo del conflitto è rimasto lo stesso: costringere alla negoziazione per sostituire una situazione ritenuta intollerabile con un’altra che ci permetta di vivere in pace. Ciò implica stabilire un equilibrio di potere che spesso si concretizza nella mobilitazione di una parte della popolazione. Per questo non è necessario ricorrere alla violenza fisica, l'obiettivo è il riconoscimento pubblico del conflitto per avviare il processo di discussione. La violenza fisica – scontri, distruzioni – potrebbe giungere dopo il fallimento delle prime manifestazioni pacifiche, oppure con l’obiettivo di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra.
La multifunzionalità è la chiave per evitare conflitti, ma ha i suoi limiti. Nel contesto di una foresta in libera evoluzione, è illusorio voler conciliare gli opposti. Alcune pratiche, come il disboscamento o la caccia, sono incompatibili con l'obiettivo del progetto portato avanti dalla nostra associazione. Ma guardiamo il lato positivo: questa incompatibilità potrebbe essere uno strumento per calmare alcuni conflitti esistenti e consentire nuovi usi delle foreste che oggi non hanno voce in capitolo. Senza spari né abbattimenti di alberi, potremmo godere di una foresta finalmente “silenziosa” ma abitata da tutti i suoni della natura, i ricercatori potrebbero studiare un ecosistema che evolve in modo autonomo, conoscenza cruciale nell’attuale contesto di sconvolgimento ecologico, e infine tutti potremmo tornare a stupirci di una bellezza naturale non soggiogata dall'uomo.
Riferimenti:
Mouthon Fabrice, Le règlement des conflits d’alpage dans les Alpes occidentales (XIIIe-XVIe siècle), in: Actes des congrès de la Société des historiens médiévistes de l’enseignement supérieur public, 31e congrès, Angers, 2000. Le règlement des conflits au Moyen Âge. pp. 259-279.
Edward P. Thompson, La guerre des forêts. Luttes sociales dans l’Angleterre du XVIIIe siècle, Paris, La Découverte, coll. « Futurs antérieurs », 2014, Traduit de l’anglais par Christophe Jaquet ; présenté par Philippe Minard.
Emmanuel Garnier, Terre de conquêtes. La forêt vosgienne sous l’Ancien Régime, Fayard, 2004.
Rivolta delle Demoiselles e citazione di Andrée Corvol: Cahier d’Etudes Forêt, Environnement et Société. Violences et Environnement, XVIe-XXe siècle, CNRS, 1991.
Polonia, pioppeti, distinzione polemiche/conflitti, tavola rotonda “naturalità delle foreste”: Cahier du Groupe d’Histoire des Forêts Françaises. Forêt, Environnement et Société, n° 31, janvier 2021.
Testo di George Sand in difesa della foresta di Fontainebleau: Online su Gallica: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5724436g/f321.item
Caccia con i cani: Charles Stépanoff, La forêt est en guerre, Terrain [Online], Terrains, pubblicato online il 18 febbraio 2020, consultato il 14 aprile 2023: http://journals.openedition.org/terrain/19516
Felice Olivesi
Traduzione a cura della Redazione di Cansiglio.it
Fonte: Association Francis Hallé - 02.08. 2023
Aggiungi commento