The War Against the Commons. Dispossession and Resistance in the Making of Capitalism, di Ian Angus, Monthly Review, 2023.

Un resoconto storico sulle strategie di autodifesa dei popoli poveri di fronte al saccheggio delle loro terre e del loro lavoro. Per cinque secoli lo sviluppo del capitalismo è stato inestricabilmente collegato all'espropriazione dei lavoratori dalla terra da cui dipendevano per la sussistenza. Attraverso gli assalti della classe dominante, noti come enclosures o clearances*, la terra comune si è trasformata in capitale privato e i contadini sono diventati lavoratori senza proprietà che potevano sopravvivere solo lavorando per i proprietari della terra o del capitale.

Come documenta Ian Angus in The War Against the Commons, l'opposizione di massa all'esproprio non è mai cessata. Il suo drammatico resoconto fornisce nuovi spunti di riflessione su un'opposizione che andava dall'ostinata violazione alla ribellione aperta, riportando testimonianze visive di attività in cui migliaia di manifestanti abbatterono recinzioni e ripristinarono l'accesso comune a pascoli e foreste. Questi movimenti, dimostra l'autore, portarono alla richiesta dei Diggers per una nuova società basata sulla proprietà e sull'uso condiviso della terra, un appello più sofisticato e radicale di qualsiasi altra opera scritta prima dell'Ottocento.

Contrariamente a molti resoconti che trattano la riorganizzazione dell'agricoltura come una questione puramente nazionale, Angus dimostra che esistevano stretti legami tra le enclosures in Gran Bretagna e l'espansione imperiale. Il consolidamento di alcuni dei più grandi latifondi in Inghilterra e Scozia fu finanziato direttamente dal lavoro forzato degli schiavi africani e dal saccheggio coloniale dell'India.


* Sui processi conosciuti come enclosures e sul conflitto tra il primo capitalismo e l'agricoltura in Inghilterra, Ian Angus ha pubblicato alcuni articoli su Climate &Capitalism che abbiamo tradotto e ragruppato in un pdf. Per leggerlo o scaricarlo > CLICCA QUI




Recensione a The War Against the Commons



Se il capitalismo è “naturale”, perché è stata usata tanta forza per costruirlo?


Pete Dolack

Se il capitalismo è un risultato così naturale della natura umana, perché sono state necessarie una violenza sistematica e leggi draconiane per crearlo? E se l'avidità è la motivazione principale degli esseri umani, come è possibile che la stragrande maggioranza della storia umana si sia svolta in società di cacciatori-raccoglitori in cui la cooperazione era il comportamento più valido?

I sostenitori del capitalismo – che generano infinite argomentazioni sul fatto che l'avidità non solo è buona, ma è la motivazione umana dominante – tendono a non soffermarsi sull'origine del sistema, sottintendendo che è sempre esistito potenzialmente o che è il risultato “naturale” dello sviluppo. I critici del capitalismo, curiosamente, sembrano molto più interessati alle origini del sistema di quanto non lo siano i suoi sostenitori. Forse la storia sanguinosa di come il capitalismo abbia lentamente soppiantato il feudalesimo nell'Europa nord-occidentale, per poi diffondersi attraverso la schiavitù, la conquista, il colonialismo e l’uso regolare della forza bruta, rende il quadro poco attraente. Non per niente Marx scrisse: «Se il denaro […] viene al mondo con macchie di sangue sulla guancia, il capitale nasce grondante di sangue e fango da tutti i pori dalla testa ai piedi».

Una conseguenza della violenza esercitata dalle élites di quei tempi e dai governi che, allora come oggi, servivano le élites della loro società, fu che i contadini e i primi lavoratori salariati dovettero resistere. Come in effetti fecero. C'è una lunga storia di resistenza alle offensive del capitale e, sebbene i movimenti, quelli organizzati e i molti altri spontanei, non siano stati in grado di realizzare un mondo più equo ed umano, sono storie che vale la pena conoscere. Un nuovo libro della Monthly Review Press, The War Against the Commons, Dispossession and Resistance in the Making of Capitalism, di Ian Angus, riporta alla luce gran parte di questa storia.

Concentrandosi sul luogo di nascita del capitalismo, l'Inghilterra, Angus è esplicito sui dettagli violenti messi in atto dal XV secolo fino alla Rivoluzione industriale, «concentrandosi sul primo e più completo caso, la guerra secolare contro i beni agricoli, nota come enclosure in Inghilterra e clearance in Scozia». Agli albori del capitalismo (che comunemente si considera nato nel XVI secolo, ma che si affermò solo in seguito), l'Inghilterra e la Scozia erano popolate per la maggior parte da agricoltori, proprio come il resto del mondo. Sebbene esistesse il lavoro salariato, pochissimi ne erano dipendenti e solo con il capitalismo si è verificata una dipendenza di massa da esso.

L'allontanamento forzato dalla terra, l'eliminazione dell'accesso alle terre comuni e la fine della possibilità di vivere senza lavorare per gli altri sono stati essenziali per lo sviluppo del capitalismo. Nella sua introduzione, Angus lo espone con un linguaggio chiaro e privo di ambiguità:

«Affinché il lavoro salariato trionfasse, doveva esserci un gran numero di persone per le quali l'autoproduzione non era più un'opzione. La transizione, iniziata in Inghilterra nel 1400, ha comportato l'eliminazione non solo dell'uso condiviso della terra, ma anche dei diritti comuni che consentivano anche alle persone più povere di accedere ai mezzi di sussistenza essenziali. Il diritto di cacciare o pescare per procurarsi il cibo, di raccogliere legna e piante commestibili, di raccogliere gli avanzi di grano nei campi dopo il raccolto, di far pascolare una o due mucche su terreni non edificati: questi e altri diritti comuni furono cancellati, sostituiti dal diritto esclusivo dei proprietari di utilizzare le ricchezze della terra».


Il capitalismo esiste solo da pochi secoli, mentre gli esseri umani vagano sulla Terra da centinaia di migliaia di anni. Questo, naturalmente, non è un argomento per sostenere che dovremmo tornare a un'esistenza da cacciatori-raccoglitori – del tutto impossibile, date le dimensioni della popolazione umana, anche se auspicabile – ma semplicemente un riconoscimento del fatto che il capitalismo non è “naturale”; è esistito per un battito di ciglia nella storia dell'umanità.


Ribaltare il concetto di
«tragedia dei beni comuni»

Naturalmente, Angus deve prima far chiarezza riguardo a concezioni errate molto diffuse. Per prima cosa, egli demolisce il concetto di «tragedia dei beni comuni», un'assurdità neoliberista assai diffusa. L'ideatore di questo concetto, un argomento ideologico a favore della privatizzazione di tutto, è un professore di biologia il cui libro di testo sosteneva il «controllo della riproduzione» per le persone «geneticamente tarate». Angus osserva che questo professore «non aveva alcuna formazione o conoscenza particolare della storia sociale o agricola» quando scrisse il suo articolo, pubblicato nel 1968. Ma la [sua] “tesi” ebbe una ricaduta politicamente positiva, essendo usata per giustificare il furto della terra delle popolazioni indigene, la privatizzazione dell'assistenza sanitaria e dei servizi sociali e molto altro. La «tesi della tragedia dei beni comuni» asserisce che la terra posseduta e utilizzata in comune sarà inevitabilmente sfruttata in modo eccessivo e distrutta perché tutti vorranno usare di più la risorsa comune, introducendo ad esempio più animali al pascolo, finché il risultato sarà la «rovina comune».[1]

The War Against the Commons fa notare che in questo articolo non viene presentata alcuna prova; la tesi è semplicemente asserita. Ma l'agricoltura basata sui beni comuni è durata per secoli; questo successo da solo confuta la tesi. Coloro che hanno effettivamente studiato l'uso dei beni comuni e forniscono prove concrete nei loro lavori dimostrano che i contadini disponevano di sistemi sofisticati per gestire i beni comuni e regolare l’allevamento degli animali.

All'inizio del XVI secolo, l'80% dei contadini inglesi coltivava per sé, mentre solo il restante 20% inviava parte della produzione ai mercati, ma pochi di questi impiegavano manodopera. Tuttavia, si cominciarono a notare delle differenze, quando le lamentele sulle recinzioni iniziarono a farsi sentire negli anni '80 del Quattrocento e il processo si accelerò nel Cinquecento. Il consigliere del re Enrico VIII condannò le enclosures, scrive Angus, e furono approvate una serie di leggi contro questa pratica, nessuna delle quali ebbe effetto. (Il re non sembra aver seguito alcun consiglio di questo tipo; decine di migliaia di persone furono impiccate durante il suo regno come “vagabondi” o “ladri” in un periodo di ripetute rivolte contadine).

Angus sostiene che il fallimento della legislazione contro le enclosures dei Tudor fu dovuto al fatto che essa mirava agli effetti piuttosto che alle cause e che i giudici erano gentry locali che si schieravano costantemente con i loro colleghi.[2] Ad ogni modo, Enrico VIII condusse una massiccia confisca di terre ecclesiastiche e poi ne vendette la maggior parte ai signori, avendo bisogno di raccogliere entrate per le sue guerre. Il consolidamento delle grandi aziende agricole significa che ci sarebbe stato spazio per un minor numero di piccole aziende. L'opposizione alla proprietà privata della terra e all'avidità nell'Inghilterra del XVI secolo era spesso di tipo religioso, ma i predicatori protestanti condannavano da una parte l'avidità e dall’altra ogni ribellione.

La ribellione c'era comunque. I diseredati combattevano il lavoro salariato, che era comunemente visto come «poco meglio della schiavitù» e come «ultima risorsa» quando tutte le altre opzioni erano state precluse. Alla fine del XV e nel XVI secolo, la maggior parte delle enclosures erano dovute a sfratti fisici, spesso di interi villaggi; dopo il 1550, i proprietari terrieri spesso negoziavano con i loro maggiori affittuari, ormai inseriti nei mercati capitalistici, per dividere tra loro i beni comuni e le terre non edificate. I senza terra e i piccoli proprietari non ottennero nulla; il numero di braccianti agricoli senza terra quadruplicò tra il 1560 e il 1620. Le pressioni economiche furono integrate dalla coercizione statale per costringere i diseredati al lavoro salariato. Una serie di misure brutali furono approvate per legge. Sebbene non ci fossero abbastanza posti di lavoro per coloro che erano costretti al lavoro salariato, coloro che rifiutavano un’occupazione venivano classificati come “girovaghi” e “vagabondi” e sottoposti a punizioni draconiane.

Una legge del 1547, ad esempio, ordinava che qualsiasi “vagabondo” che rifiutasse un'offerta di lavoro fosse marchiato con un ferro rovente e fosse «ridotto letteralmente in schiavitù per due anni», e al nuovo schiavo venivano messi anelli di ferro al collo e alle gambe. Una legge del 1563 stabiliva che qualsiasi uomo o donna fino all'età di sessant’anni poteva essere costretto a lavorare in qualsiasi fattoria che lo assumesse, e chiunque offrisse o accettasse salari più alti di quelli stabiliti dai datori di lavoro locali, che agivano come giudici, poteva essere gettato in prigione e inoltre, per lasciare un lavoro era necessario un permesso scritto sotto pena di frustate e carcere. Altre leggi imponevano «frustate per le strade fino al sangue» e i recidivi venivano messi a morte. Molti dei condannati venivano sempre più spesso mandati nelle colonie come servi a contratto, completamente alla mercé dei loro padroni del Nuovo Mondo.

Queste erano le tenerezze mostrate dai nascenti capitalisti e dallo stato sempre più orientato a fare gli interessi dei capitalisti.


Il diritto è il fondamento del potere

Con la contemporanea ascesa dell'industria del carbone e di quella tessile, c'era bisogno di lavoratori: le leggi draconiane erano la via per costringere le persone a lavori con bassi salari, lunghi orari e condizioni talvolta pericolose. La stessa estrazione del carbone ha dato il via ad altre enclosures nel XVI secolo. Alcuni proprietari terrieri scoprirono che l'estrazione del carbone era per loro più redditizia dell'affitto dei terreni agricoli, richiedendo quindi l'esproprio degli affittuari, mentre i piccoli proprietari rimasti potevano essere derubati della loro terra perché era loro proibito rifiutare l'accesso ai minerali sotto la loro terra. Sono le prime manifestazioni degli attuali “diritti di proprietà”, in cui se sei abbastanza grande, regna la legge del più forte.

Sebbene gran parte della resistenza consistesse in rivolte spontanee, ci furono campagne organizzate. Due movimenti organizzati furono i Diggers e i Levellers. Il soprannome di Livellatori deriva dal fatto che “spianavano” le siepi e le recinzioni in pietra che i proprietari terrieri usavano per delimitare le terre che avevano recintato; questi gruppi organizzati rimossero ripetutamente queste delimitazioni. I Diggers erano un movimento collettivo fondato da Gerrard Winstanley che cercava di mettere in pratica la teoria. I Diggers crearono delle comuni su terreni comuni, la prima fu su una collina vicino a Londra. Tutti i membri ricevevano una parte dei prodotti in cambio del loro aiuto nel lavoro della terra.

Winstanley elaborò un programma che criticava la disumanità dei ricchi e affermava che la strada verso la libertà passasse attraverso la proprietà comune della terra. Nelle comunità dei Diggers erano vietati il lavoro salariato, la proprietà privata della terra e la compravendita della stessa. Tutti dovevano contribuire al patrimonio comune e prendere solo ciò che era necessario; le eventuali sanzioni per i free riders erano pensate per riabilitare piuttosto che punire. Winstanley e i Digger consideravano la proprietà privata della terra come la causa della povertà e dello sfruttamento, e una delle loro richieste era che tutta la terra fosse data a coloro che l'avrebbero lavorata, compresa quella confiscata alla Chiesa. Dopotutto, stavano vivendo i primi tempi del capitalismo agricolo, con tanti altri intorno a loro che sperimentavano povertà e sfruttamento.

È sorprendente che il concetto di Winstanley, ideato due secoli prima del concetto di comunismo di Marx come «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni», avesse notevoli somiglianze con le idee di quest'ultimo, anche se Marx non poteva conoscere Winstanley, dato che le idee dei Diggers furono spietatamente cancellate e furono riscoperte solo alla fine del XIX secolo. La violenza dello stato contro le comunità dei Diggers non tardò ad arrivare. I proprietari terrieri erano determinati a eliminare i Diggers. I magistrati locali, essi stessi proprietari terrieri, incriminarono i Diggers per violazione di domicilio e riunione illegale e imposero multe elevate, impossibili da pagare; le folle organizzate dai proprietari terrieri distrussero i raccolti e le loro case, fino a quando le comunità dovettero essere abbandonate.

Nella seconda metà del XVII secolo, «i grandi proprietari terrieri e i mercanti ottennero il controllo decisivo dello stato inglese», scrive Angus. «Nel 1700 avrebbero usato questo potere per continuare l'espropriazione delle terre comuni e consolidare la loro proprietà assoluta della terra». Con l'inizio della rivoluzione industriale, furono avviati nuovi cicli di enclosures, questa volta attraverso leggi emanate dal Parlamento, per privare le persone delle loro residue capacità di autosufficienza e di non essere costrette a lavori dipendenti con bassi salari e lunghe ore di fatica.


Uno stato di classe promuove gli interessi di classe

Dalla cosiddetta “Gloriosa Rivoluzione” del 1689 al Great Reform Act del 1832, la Gran Bretagna fu controllata da magnati agrari e da trafficanti capitalisti ; lo stato esisteva per favorire i ricchi. L'autore scrive:

«I ricchissimi governavano il Parlamento attraverso il loro dominio incontrastato della Camera dei Lord, il loro effettivo controllo dell'esecutivo e la loro forte influenza sui membri un po' meno ricchi della Camera dei Comuni. La Camera bassa veniva eletta, ma solo il 3% circa della popolazione (tutti maschi) poteva votare e gli elevati requisiti di proprietà assicuravano che solo i ricchi potessero essere candidati. Secondo le parole di E.P. Thompson, “lo Stato britannico, come concordavano tutti i legislatori del XVIII secolo, esisteva per preservare la proprietà e, incidentalmente, la vita e le libertà dei ricchi”».


Dal 1730 al 1840 il Parlamento approvò più di quattromila atti di enclosure, che riguardavano un quarto di tutte le terre coltivate. Le leggi erano fortemente sbilanciate a favore delle grandi proprietà e dell'aristocrazia. I contadini resistettero, ma avevano troppa forza contro di loro. Gli sfollati, a meno che non emigrassero, divennero lavoratori salariati nelle nuove fabbriche. Lo sviluppo in Inghilterra era stato costruito sulla schiavitù, con gli enormi profitti dei prodotti agricoli coltivati dagli schiavi e il commercio degli schiavi stessi che fornivano il capitale per il decollo industriale. Inoltre, molti dei grandi proprietari terrieri erano in grado di acquistare nuovi terreni grazie ai profitti che ricavavano direttamente dal lavoro degli schiavi. L'abolizione della tratta degli schiavi fu semplicemente un'altra mossa di chi ne beneficiava economicamente. Angus scrive:

«I difensori dell'imperialismo britannico amano vantarsi del fatto che la Gran Bretagna ha messo fuori legge la tratta degli schiavi nel 1807, ma è come lodare un serial killer perché alla fine si è ritirato. Il divieto arrivò dopo secoli in cui gli investitori britannici si erano arricchiti come trafficanti di esseri umani, e non fece nulla per i 700.000 africani che rimasero schiavi nelle colonie caraibiche della Gran Bretagna. Il millantato umanitarismo della Gran Bretagna è smentito dal massacro degli schiavi ribelli da parte dell'esercito britannico in Guyana, diciassette anni dopo che la tratta degli schiavi era stata dichiarata illegale».


I parlamentari britannici, per soddisfare i loro interessi di classe, non erano meno inclini alla legislazione draconiana di quanto lo fossero stati i loro predecessori. Dal 1703 al 1830, furono approvati quarantacinque statuti che vietavano la caccia a tutti i proprietari terrieri, eccetto quelli dell'élite; queste leggi vanno viste nel contesto del loro tempo, quando i piccoli agricoltori e i senza terra avevano bisogno di cacciare per garantire a loro e alle loro famiglie cibo sufficiente per sopravvivere. Con il Black Act del 1723, trecentocinquanta reati furono resi passibili di pena di morte; già per reati minori erano previste l'impiccagione, la fustigazione e l'espulsione in Australia ai lavori forzati. Anche tagliare un albero poteva comportare l'impiccagione.

Il fatto che leggi così draconiane siano state approvate ripetutamente per lunghi periodi di tempo dimostra che il capitalismo non è “naturale” e che poteva essere imposto solo con la forza, come dimostra in modo persuasivo The War Against the Commons. Questo libro è molto utile per coloro che già conoscono questa storia sanguinosa e desiderano approfondire la conoscenza, anche di Winstanley e del movimento dei Diggers, ancora in gran parte sconosciuto, ma anche per coloro che non hanno queste conoscenze e desiderano approfondire la storia del capitalismo. L'autore scrive in un linguaggio chiaro e comprensibile, senza gergo, producendo un'opera che non richiede conoscenze preliminari ma che è utile anche per chi ha familiarità con l'argomento. Chiunque sia interessato a comprendere le dinamiche del capitalismo e voglia affrontare l'argomento con una mente aperta, ne trarrà beneficio.

 

Note

[1] Vedi: Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, Science, December 13, 1968. Garrett Hardin sosteneva che gli stessi beni comuni sarebbero stati inevitabilmente sovrautilizzati dai membri della stessa comunità, causando il collasso ecologico.

[2] N.d.T. Si schieravano dalla parte di gente che apparteneva alla loro stessa classe nobiliare.


Pete Dolack

Traduzione di Alessandro Cocuzza - Redazione di Antropocene.org

Fonte: Systemic Disorder 21.11.2023


* N.d.R. A complemento dell'articolo pubblicato, vi invitiamo alla lettura del testo di Sebastiano Taccola: L’accumulazione originaria: genesi del modo di produzione capitalistico tra storia e struttura, pubblicato su Consecutio Rerum, il 30.11.2018.