Fonte: Alphaville - 2016

La definizione di “antropocene” come epoca geologica in cui la traccia dell’umano sembra assumere una centralità finora mai avuta rispetto ai processi naturali si presta a numerosi equivoci.


Antropocene e capitale


If it’s true that plastic is not degradable, well, the planet will simply incorporate plastic into a new paradigm: the earth plus plastic. The earth doesn’t share our prejudice toward plastic. Plastic came out of the earth. The earth probably sees plastic as just another one of its children. Could be the only reason the earth allowed us to be spawned from it in the first place. It wanted plastic for itself. Didn’t know how to make it. Needed us. Could be the answer to our age-old egocentric philosophical question, “Why are we here?” Plastic… asshole.”
​(George Carlin)



Il disagio dell'Antropocene


La definizione di “antropocene” [1] come epoca geologica in cui la traccia dell’umano sembra assumere una centralità finora mai avuta rispetto ai processi naturali si presta a numerosi equivoci. L’idea dell’affermarsi progressivo, inarrestabile e forse irreversibile del predominio dell’uomo rispetto alla natura, infatti, necessita di essere verificato e chiarito dal punto di vista di entrambi i termini che la compongono: in che senso “predominio”? In che senso “dell’uomo”? Cominciamo con il primo punto.

Il termine “antropocene”, infatti, può essere declinato in due sensi diversi e riceve una coloritura differente a seconda di come viene accentato. Si può pensare, da un lato, che la nostra specie abbia raggiunto un tale livello di espansione da imprimere il proprio segno caratteristico sul pianeta, alterando l’ambiente in modo tale da lasciare tracce geologiche più o meno indelebili del proprio passaggio. All’opposto di questa concezione “neutrale” dell’antropocene c’è la denuncia più propriamente ecologista - che certo non era estranea all’originaria formulazione del termine stesso - secondo cui l’espansione umana assumerebbe i tratti di un’indebita violenza perpetrata nei confronti della natura esterna. È chiaro che nel primo caso ci troveremmo di fronte a un modello tendenzialmente quantitativo del processo di accrescimento e sviluppo dell’umano nei suoi rapporti con la natura, modello che, seppure non esclude la denuncia di “eccessi” da parte nostra nei confronti del non-umano, pure necessiterebbe di numerosi passaggi teorici ed empirici per esprimersi in tal senso. Nel secondo senso, invece, la critica degli effetti “distruttivi” del nostro modello espansivo sembra necessariamente fondarsi su assunti qualitativi, cioè sovrapporre alla mera descrizione delle nostre dinamiche di crescita un qualche forma di assunto morale. Insomma, se è difficile negare che l’uomo stia “lasciando tracce indelebili” del proprio passaggio sulla Terra, più difficile è argomentare che ciò sia “sbagliato”.

La difficoltà che sta al cuore dell’idea di misurare e quindi giudicare l’effetto complessivo delle nostre azioni come specie risiede nella stessa nozione di “effetto”. La caratteristica circolare e ricorsiva dei sistemi naturali - dovuta al fenomeno della retroazione (o feedback) - rende infatti problematico l’uso di spiegazioni lineari, di modelli esplicativi unidirezionali: risulta, in fin dei conti, sempre teoreticamente azzardato separare l’umano dal contesto naturale che lo genera per considerarlo come un agente in qualche misura “esterno” o “staccato” da esso. È il paradosso di Rousseau: in una natura concepita come sistema in equilibrio (e sia pure “puntallato”, attraversato da forze caotiche e da contraddizioni) non è possibile immaginare la nascita di un elemento sovversivo di tale equilibrio: perché esso smentirebbe con la sua stessa esistenza la legge che dovrebbe presiedere all’equilibrio di ciò che lo ha generato.


Eppure, la nozione di equilibro, l’idea della funzionalità intrinseca degli ecosistemi, è alla base di due delle grandi tendenze in cui può dividersi il pensiero ecologico: l’ambientalismo conservatore [2] e la Deep Ecology [3]. Tale funzionalità viene intesa in senso relativo, dall’ambientalismo, e assoluto dall’ecologia profonda: nell’un caso si tratta di modellare le nostre azioni in modo da produrre un circolo virtuoso tra esse e i loro effetti sull’ambiente circostante; nel secondo caso, l’idea stessa del disequilibrio tra noi e gli ecosistemi basta a condannare come ingiustificato, cioè “innaturale”, l’attuale sistema produttivo (o, nelle derive più nichiliste della Deep Ecology, la nostra stessa specie). Queste due prospettive assumono due punti di vista opposti ma complementari ed entrambi errati.

L’ambientalismo, che ha il pregio di non bollare la specificità umana come mero “errore” della/nella natura, continua tuttavia a predicare il superiore interesse dell’Uomo nei confronti del resto del vivente, assumendo la natura come mero “sfondo” delle nostre azioni (l’“ambiente”, appunto) e mirando a modificare gli effetti di quest’ultime solo nella misura in cui possono tornare a danno della nostra stessa specie. La Deep Ecology cancella questa presunzione morale ma sposa l’eguale diritto di tutte le specie all’esistenza e al benessere con un’idea mitica di “accordo” o “armonia soggiacente” ai rapporti tra di esse. Nel primo caso, l’eccezionalità ontologica dell’uomo è cancellata ma preservata come eccezionalità morale; nel secondo caso, vengono cancellate entrambe. Entrambi i modelli ritengono che esista una misura esterna che dovrebbe fungere da modello ontologico per il nostro modello economico: quest’ultimo non potrebbe esistere che come mimesi del primo.


L’astrazione dell’homo oecologicus

E siamo così giunti al secondo momento di quel dilemma che attraversa la nozione di Antropocene: chi sarebbe l’Uomo che sta cambiando irreversibilmente il volto del pianeta? L’opposizione apparente tra ambientalismo ed ecologia profonda ha trovato una sua attenta formulazione critica nell’opera di Murray Bookchin [4]. Bookchin contesta che sia possibile considerare l’intera specie umana come responsabile dei cambiamenti climatici in corso. Più in generale, si tratta per Bookchin di smascherare l’astrazione interessata dell’Uomo come causa della distruzione ambientale e la pretesa che sia sempre l’Uomo a pagare le conseguenze delle “sue” azioni attraverso un’opera di riduzione e riconversione dei propri bisogni in linea con le esigenze del pianeta. Si tratta di un approccio che, analogamente all’astrazione che pone al centro della teoria economica l’homo oeconomicus, prende le mosse dalla finzione semplificatrice di un homo oecologicus.

Questo approccio non solo è fallimentare in termini di analisi teorica, ma anche di efficacia pratica: da un lato, infatti, le cause delle dinamiche espansive della società umana vengono totalmente de-politicizzate e, conseguentemente, vengono offerte soluzioni tecnologiche o moralistiche al superamento dei problemi che tali dinamiche producono in sede ecologica. Eppure, sottolinea Bookchin, solo guardando alla stratificazione delle società complesse è possibile farsi un’idea adeguata di ciò che innesca le pratiche di accumulazione ed espansione che si intende criticare e ricondurre a ragionevolezza. Non ha dunque senso parlare dell’Uomo come di una entità generica che assume certi atteggiamenti nei confronti della natura, nè attendersi soluzioni scientifiche a ciò o, peggio, pensare di indurlo a modificare i propri consumi condannandone l’egoismo, poiché abbiamo piuttosto a che fare con società di classe, in cui tanto l’apparato tecno-scientifico, quanto le dinamiche produttive sono al servizio dell’interesse di una parte. L’analisi di Bookchin ha senz’altro il merito di aver chiarito questo punto cruciale: solo un’ecologia sociale può vedere tali fenomeni e proporre alternative di sviluppo che saranno, necessariamente, alternative non solo tecnologiche e morali ma economico-politiche. Senza passare per una soluzione dei conflitti di classe non è infatti possibile immaginare alcuna soluzione ai pericoli ecologici che fronteggiamo.
Laddove la relazione ecologica viene dunque intesa come una relazione di potere tra società umana e natura, essa chiama in causa immediatamente la questione della relazione di potere all’interno della società umana stessa. Le due relazioni di potere sono intrecciate e si potenziano a vicenda: l'accumulazione di potere all’interno della società umana e la sua ineguale distribuzione è ciò che permette di capire l'accumulazione di potere della società umana come tale nel suo rapporto con gli ecosistemi (ratio cognoscendi); d’altro lato, come presto diremo, anche il rapporto ineguale tra umano e non-umano è essenziale alla costruzione di rapporti di classe (ratio essendi).


Dialettica del Potere e dell’Umano

Si pone dunque la necessità di pensare la questione del Potere all’interno di questo schema. E il Potere ci appare subito come duplicemente connotato. Alla nozione di Potere come disposizione e controllo, con tutto il portato di violenza (Gewalt) che suggerisce, si può infatti contrapporre una nozione di Potere come possibilità, come espressione di una virtualità acquisita, di un poter-fare (Power). Si tratta di due aspetti che possono apparire tra loro slegati e contrapposti ma che è probabilmente necessario tenere insieme se non si vuole perdere importanti sfumature politiche nel discorso sulla natura sociale dei problemi ecologici. Concepire il Potere in termini di puro controllo dell’altro, come generalmente avviene nella letteratura anarchica e in alcune teorizzazioni del movimento no global [5], rischia forse di semplificare troppo tale discorso, costringendo a riconoscere come legittime esclusivamente le forme elementari di riproduzione economica e impedendo ogni mediazione politica che si innalzi al di sopra del livello della democrazia diretta su scala locale e ridotta. La società umana troverebbe qui nuovamente una misura esterna, fissata naturalmente, che dovrebbe fungere da modello: la deviazione da tale modello ontologico starebbe quindi all’origine di ogni problema politico, economico e, dunque, ecologico. Se non si vuole ricadere a questo livello che cancella tutta la dimensione politica come semplice “alienazione” è necessario accettare l’articolazione interna dei rapporti umani e dei rapporti tra società umana e società non-umane come una caratteristica ontologica dell'uomo: tale articolazione costringe a pensare il Potere in termini di disposizioni e potenzialità la cui declinazione non è univoca ma può essere giudicata solo in termini di distribuzione ed effetto del suo esercizio [6]. In altri termini, non è la stessa cosa se il poter-fare si concentra nelle mani di pochi umani e implica uno spossessamento reale, un'impotenza generale della maggioranza degli altri umani e delle altre specie, o se esso è gestito secondo modalità democratiche e condivise. Ma come è possibile pensare a una cogestione del Potere al di là della barriera dell’umano? Come è possibile pensare l’esercizio di questo Potere come qualcosa che non viene semplicemente subito dalle altre specie e quindi, di fatto, imposto dalla società umana nel suo interesse.


Forse un’opportunità per superare questo problema è ripensare il paradigma dell’Umano in modo dialettico. Penso in particolar modo alle opere in cui Adorno ha sottolineato il reciproco determinarsi di umano e non-umano a partire dalla categoria di “dominio” (Herrschaft) [7]. Hegel sostiene che un rapporto di dominio esprime una contraddizione che genera una polarità tra soggetti interdipendenti: il rapporto uomo/natura (e in particolar modo la sua declinazione uomo-animale) è, in quanto rapporto di dominio, un rapporto contraddittorio in tal senso. La contraddizione risiede nel fatto che (1) noi poniamo la nostra umanità in contrasto e al di sopra della natura e (2) ci è possibile coltivare la nostra differenza dalla natura solo attraverso l’asservimento dei cicli biologici di altre specie ai nostri desiderata. L’opposizione dialettica tra umano e non-umano si presenta intrecciata ai conflitti interumani sia in termini materiali (dominio sulla natura come pre-condizione economica dell’accumulazione di risorse e della loro appropriazione diseguale), sia in termini culturali (necessità di suturare questa frattura concependo il proprium dell’umano in opposizione all’animale e, conseguentemente, facendo ricadere nell’ombra dell’animalità/inumanità le categorie sociali oppresse: schiavi, donne, bambini, pazzi ecc.) [8]. La dialettica dell’illuminismo che così si innesca è però distruttiva di entrambi i poli della relazione: l’umano si erge a signore della natura solo a patto di scatenare forze che ne dissolvono la libertà e la possibilità di autodeterminazione. La natura totalitaria e integrata del potere economico e della tecnica asservita agli interessi delle elite (ciò che Adorno chiama “il mondo amministrato”) sembra impedire la stessa possibilità di pensare un orizzonte sociale alternativo e richiede quindi uno sforzo teorico e pratico per ripensare l’intreccio tra i rapporti di dominio: dunque l’esigenza di superare in modo coordinato l’asservimento della natura e quello delle classi subalterne.
  
 
Mostri del capitale: per un’ecologia del lavoro

L’irrigidimento della società umana in una struttura verticistica e invasiva degli ecosistemi coincide con un irrigidimento dell’Umano in una maschera che copre interessi di potere determinati. In altre parole, l’illusione dell’Antropocene come era di predominio dell’umano va dissolta e sostituita con una descrizione più esatta delle dinamiche in atto. Si tratta di un potere che, saldamente in mano a un’elite sempre più ristretta, esercita il proprio dominio sul resto del vivente, umano e non-umano. Definire ciò conseguenza di un non meglio precisato “antropocentrismo” significa non solo attribuire tale situazione a false cause e addossare alle vittime umane di questo sistema la responsabilità del proprio stesso sfruttamento. Significa anche non vedere la forma inumana di tale Potere come un suo tratto caratteristico. Stiamo infatti fronteggiando una macchina socio-economica in cui l’uomo stesso finisce per essere coinvolto e trasfigurato, modellato e, alla fine, forse superato.


Il processo in corso, infatti, sembra coniugare due fenomeni apparentemente opposti che stravolgono la nozione classica (in senso foucaultiano) dell’Uomo: da un lato quello della reificazione, dall’altro quello della fluidificazione di tutti i rapporti. Sul primo aspetto, sulle dinamiche anti-soggettive del mondo delle merci che portano gli individui a non potersi più riconoscere negli effetti delle loro interazioni sociali ha molto insistito certo umanismo marxista nel ‘900. Il secondo è stato invece oggetto delle preoccupate letture di Bauman sul “mondo liquido” ma ha anche trovato positivi lettori nella filosofia post-moderna (da Derrida, a Negri-Hardt, al post-human): tutti intenti a leggere niccianamente quel superamento dei limiti dell’Umano come un rischio in cui si annuncia un possibile. Il volto “mostruoso” del presente, secondo l’etimo latino di monstrum, porterebbe con sé l’eco della meraviglia con cui il nuovo irrompe nella continuità della presenza.


Sarebbe tuttavia un errore considerare queste estreme letture dei rapporti tra ecologia e capitalismo come una smentita delle tesi e delle prognosi marxiane (magari ridotte a banale fede positivistica nel progresso assicurato dallo sviluppo industriale). È noto come Marx attribuisse proprio al capitale una forma costitutivamente mostruosa nel senso ora detto: celato nell’involucro del denaro che si fa merce attraverso lo sfruttamento del lavoro, il capitale è un essere anumano. Un “vampiro”, un “mostro”, un “morto” che assorbe la vita per rigenerarsi e che spezza e “dissolve nell’aria” ogni elemento rigido e fisso del mondo precedente [9]. Tuttavia, proprio così facendo, il capitale accelera in modo mai visto prima gli scambi sociali e conduce in breve tempo il complesso delle relazioni umane, tradotte in forma economica, a pensarsi e a muoversi a un livello globale. In quanto strumento di socializzazione, scrive Marx, il capitale trasforma l’esistenza in merce ma, proprio così facendo, la porta a un livello superiore di complessità e di mediazione, generando la possibilità di una sua organizzazione alternativa. Che tale possibilità possa e debba includere una diversa concezione dei rapporti tra la società umana e le altre specie è oggi fuor di dubbio. Che la strada da percorrere passi prioritariamente per una diversa concezione di tale rapporto, come vuole l’ambientalismo, è invece problematico e ha il sapore di un trucco idealistico. Perché il capitale è un Potere nomade e astratto, un essere anamorfo che si modella e modella il vivente in base alle proprie esigenze produttive. E, tuttavia, esso non conosce altro centro che il luogo in cui il lavoro viene catturato in questo processo. È lì dove concretamente, materialmente, singolarmente si realizzano le relazioni dell’astratto potere economico che ha ancora senso organizzare il conflitto tra il capitale e il suo altro. È sul luogo di lavoro (sempre più invisibile, sempre più virtuale, eppure ancora necessariamente reale) che occorre prendere consapevolezza che la lotta di classe è ancora in corso poiché il capitale non può vivere che portandola costantemente avanti e occultandola (ad esempio proprio attraverso il discorso “ambientalista”).

È qui che la richiesta di una democratizzazione del lavoro deve poter trovare il proprio coronamento in un modello di sviluppo diverso: un modello in cui il “di più” non solo non è appropriato da un’elite ma condiviso, nella consapevolezza dell’intreccio costitutivo tra noi e il resto del vivente, e in cui tale “di più” assume una forma diversa perché pensato fin dall’inizio non nella forma di un’espansione meramente quantitativa, ma di una inedita dialettica tra quantità e qualità. A farsi garante di un modo di produzione diverso, in cui economia politica ed ecologia potrebbero trovare finalmente una sintesi conciliativa e progressiva, dovrebbe essere proprio il superamento di quell’opposizione tra umano e non-umano citata sopra. Perché solo laddove la rigida maschera dell’umano viene dischiusa a un’alterità che la genera dall’interno è possibile concepire e praticare l’espansione non in termini di “conquista” ma di arricchimento relazionale ed è possibile pensare al rapporto materiale tra specie ed ecosistemi non in termini meccanicistici ma come un dialogo. Appartiene infatti proprio ai pregiudizi specisti dell’era che stiamo attraversando l’idea che le altre specie non esprimano intenzioni e desideri perché non parlano. La nostra sordità al discorso dell’altro è solo l’altro nome che occorre dare alla prevaricazione.


Marco
Maurizi 


Note:


[1] P. J. Crutzen, Benvenuti nell'Antropocene. L'uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, Milano 2005.

[2] Cfr. ad es. Il famoso rapporto sui limiti dello sviluppo elaborato dal club di Roma nel 1972 che è stato recentemente aggiornato: D. Meadows - D. Meadows - J. Randers, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 2006.

[3] Il testo seminale della Deep Ecology è A. Næss, ‘Il movimento ecologico: ecologia superficiale ed ecologia profonda. Una sintesi’ (1973), in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia dell’ambiente,Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 143-149; cfr. Anche B. Devall - G. Sessions, Ecologia Profonda. Vivere come se la Natura fosse Importante, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1989.

[4] M. Bookchin, Ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia, Elèuthera, Milano 2010.

[5] J. Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Intra Moenia, Roma 2004.

[6] Cfr. L. Cirillo, Da Vladimir Ilich a Vladimir Luxuria. Soggetti di liberazione, rivoluzioni e potere, Edizioni Alegre, Roma 2006.

[7] Il testo di riferimento è ovviamente la Dialettica dell'illuminismo scritta con Max Horkheimer (Einaudi, Torino 1997).

[8] Per un’analisi di questi temi adorniani mi permetto di rimandare ai miei: Al di là della Natura: gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Aprilia 2012 e Chimere e passaggi. Cinque attraversamenti del pensiero di Adorno, Mimesis, Milano 2015.

[9] Per la lettura di questi temi marxiani rimando a R. Bellofiore, “Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione. Sulla (dis)continuità Marx-Hegel”, Consecutio temporum. Hegeliana/Marxiana/Freudiana, www.consecutio.org, n. 5, disponibile alla URL http://www.consecutio.org/2013/10/il-capitale-come-feticcio-automatico-e-come-soggetto-e-la-sua-costituzione-sulla-discontinuita-marx-hegel