“… non si tratta del grado maggiore o minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi naturali della produzione capitalistica, ma proprio di tali leggi, di tali tendenze che operano e si fanno valere
con bronzea necessità.” (K. Marx, Il capitale, libro I)

“… tutte le scienze sono imprigionate al servizio del capitale”. (K. Marx, Grundrisse)

La vita pubblica è “esteriormente asessuata e interiormente pornografica”. (W. Reich)

 

Il capitolo di Marx sul feticismo delle merci ed il suo arcano, nello stile argomentativo esprime assai bene quell’abisso senza fondo in cui siamo tutti caduti per via dell'emergere della produzione capitalistica. Un’autentica ontologia sociale, con le stringenti ideologie e prassi politiche che ne seguiranno nel ‘900, ivi incluse le socialdemocrazie europee degli Stati corporativisti e i marxismi istituzionalizzati, ora strumento ideologico del processo di integrazione dei lavoratori salariati ora sue varianti “capitaliste di Stato".

Nei fatti storici, tale feticismo consegue a quanto descritto da Marx alla fine del primo volume, ossia quello sulla accumulazione originaria del capitale, ove si descrive il processo di separazione dei produttori dalle loro condizioni di riproduzione in Europa, perché solo così si spiega quel «divenire i prodotti del lavoro umano cose sensibilmente sovrasensibili», quel divenire «rapporti sociali rapporti tra cose». Il Capitale - non i capitalisti che, come i salariati, sono solo supporti sociali di quel “soggetto autonomo” che è il Capitale, lo stesso che rende alienato, “non autonomo” il lavoro del salariato - rende naturali rapporti e crisi sociali e affronta come crisi naturali, crisi prodotte da questo sistema sociali. In ciò il lato nascosto delle merci-valori.

La rivoluzione si ha quando «la figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbia e sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano» (Marx), dunque ex ante non ex posto, come avviene nel processo mercantile capitalistico. Ma tutto ciò attende ancora il suo compimento. Avviene così, ad es., che crisi idriche, climatiche o epidemie si travestano da crisi naturali e così travestite possano diventare, non condizione politica rivoluzionaria per la messa in discussione di un modello di gestione disbiotico dei metabolismi naturali, ma fonte di accumulazione per quello stesso “soggetto autonomo” che la ha procurate. Un qui pro quo decisivo. Da qui tutta l’ideologia ambientalista corrente.

Ma tale ideologia, tale visione capovolta del mondo (l’”economia sostenibile”), tale doppia traduzione degli elementi naturali in elementi di valore (socializzazione della Natura) e poi questi in elementi naturali (naturalizzazione del Capitale, tipico il caso della mercificazione dei servizi ecosistemici), è una weltanschauung a cui tutti siamo sottomessi. La scienza in questo senso è scienza del Capitale (più che di classe), da quella ecologica a quelle che riguardano malattia e salute.

Riportiamo, ad es., il contenuto di questi articoli: Micelio: l’arma segreta per un futuro più sostenibile, e Le auto del futuro? Vanno con questo carburante, ricavato dai… polli.  Messa così, non c’è apparente via di scampo, come la storia di questo organismo sociale insegna. C'è un limite a tutto ciò? Tralasciando l’avviso reichiano dell’assenza di una psicologia sociale ai tempi di Marx, e dunque della decisiva necessità di una sessuo-economia che accompagnasse un processo rivoluzionario e altri fattori che potrebbero rendere l'economicismo un simulacro, il limite del Capitale è il Capitale stesso. Per esso vale un principio di determinazione storica, di località storica, poiché, più di altri modi di produzione, è il modo di produzione, per l’omogeneità e pervasività intrinseche.

Il limite è nello stesso Capitale, non nei salariati che lo sostengono, essendo il capitale variabile funzione del capitale investito. Il capitale vivo non può esistere senza quello morto, per questa ragione non vi è antagonismo che ne metta in discussione la sopravvivenza di entrambi. Sono speculari (la “contraddizione in processo”, semmai, li stritola entrambi). È il suddetto arcano che produce quest'ultimo.

Un limite endogeno si può vedere nel crescente ruolo (che va spiegato) ricoperto dal capitale speculativo a partire dagli anni ’80, che rallenta l’accumulazione come fine del Capitale, ed è certo uno degli elementi che indica nel Capitale stesso “un soggetto rivoluzionario”. Il rallentamento nell’accumulazione di capitale fisso in parallelo ad una ripresa del saggio del profitto, per via di un incremento del saggio di sfruttamento, prende due piccioni con una fava: poiché una generale non riproducibilità del sistema si accompagna a una de-integrazione del sistema del lavoro salariato (l’integrazione nella forma del welfare e della riduzione della concorrenza tra i lavoratori è stata il modo in cui il capitalismo ci ha consegnato il processo di riproduzione della specie nella forma del “benessere” capitalistico). Finito il primo, finisce la seconda.

Con la crisi ecologica, ossia la frattura metabolica indotta dal contrasto tra metabolismo sociale capitalistico e metabolismi naturali, il capitalismo ha mostrato un limite esogeno. Se il limite è rappresentato da queste dinamiche, sono proprio queste che ne determinano la sua fine. Le leggi del suo sviluppo organico non possono non essere le leggi della sua stessa fine. È evidente, infine, che la weltanschauung dominante, in quella doppia traduzione, nel tradurre la fine del Capitale nella fine del Mondo, non vede quanto questo gli resista e quanto esso si vendicherà.


Giuseppe Sottile