Fonte: Monthly Review - 01.09.2023

Nel XXI secolo ci troviamo di fronte a una doppia crisi. Da un lato c'è una crisi ecologica: il cambiamento climatico e numerose altre pressioni a cui è sottoposto il Sistema Terra stanno superando in modo pericoloso i limiti planetari.

Dall'altro, c'è una crisi sociale: diversi miliardi di persone non hanno accesso a beni e servizi di base. Oltre il 40% della popolazione umana non può permettersi cibo nutriente; il 50% non dispone di strutture igienico-sanitarie gestite in modo sicuro; il 70% non ha l'assistenza sanitaria necessaria.

La privazione è più estrema nella periferia, dove le dinamiche imperialiste di aggiustamento strutturale e di scambio ineguale continuano a perpetuare la povertà e il sottosviluppo. Ma essa è evidente anche nei paesi più ricchi: negli Stati Uniti, quasi la metà della popolazione non può permettersi l'assistenza sanitaria; nel Regno Unito, 4,3 milioni di bambini vivono in povertà; nell'Unione Europea, 90 milioni di persone sono esposte alla precarietà economica. Questi esempi di privazione sono caratterizzati da brutali disuguaglianze di razza e di genere.

Nessun programma politico che prometta di analizzare e risolvere la crisi ecologica può sperare di avere successo se non analizza e risolve contemporaneamente anche la crisi sociale. Il tentativo di affrontare l'una senza l'altra lascia radicate le contraddizioni fondamentali e finirà per generare mostri. In effetti, i mostri stanno già emergendo.

È di fondamentale importanza capire che la duplice crisi sociale ed ecologica è determinata, in ultima analisi, dal sistema di produzione capitalistico. Le due dimensioni sono sintomi della stessa patologia di fondo. Per capitalismo non intendo semplicemente i mercati, il commercio e le imprese, come spesso si pensa. Queste cose esistevano migliaia di anni prima del capitalismo e di per sé sono abbastanza innocenti. La caratteristica fondamentale del capitalismo che dobbiamo affrontare è che esso è, come condizione per la sua stessa esistenza, fondamentalmente antidemocratico.

È vero, molti di noi vivono in sistemi politici elettorali – per quanto corrotti e monopolizzati possano essere – dove di volta in volta selezioniamo i leader politici. Ma nonostante ciò, quando si tratta del sistema di produzione, esso non prevede nemmeno la più superficiale illusione di democrazia. La produzione è controllata in modo preponderante dal capitale: le grandi imprese, le grandi società finanziarie e l'1% che possiede la maggior parte delle risorse investibili. Il capitale esercita il potere di mobilitare il nostro lavoro collettivo e le risorse del nostro pianeta per qualsiasi cosa voglia, determinando ciò che produciamo, a quali condizioni, e come deve essere utilizzato e distribuito il surplus che generiamo.

E per essere chiari: per il capitale, lo scopo primario della produzione non è quello di soddisfare specifici bisogni umani o di raggiungere il progresso sociale, tanto meno di raggiungere obiettivi ecologici concreti. L'obiettivo primario è piuttosto quello di massimizzare e accumulare profitti.

Il risultato è che il sistema mondiale capitalistico è caratterizzato da forme di produzione perverse. Il capitale indirizza i finanziamenti verso prodotti altamente redditizi, come i veicoli sportivi, la carne industriale, il fast fashion, le armi, i combustibili fossili e la speculazione immobiliare, riproducendo contemporaneamente la carenza cronica di beni e servizi necessari, come i trasporti pubblici, l'assistenza sanitaria pubblica, il cibo nutriente, le energie rinnovabili e gli alloggi a prezzi accessibili. Questa dinamica si verifica all'interno delle economie nazionali, ma ha anche chiare dimensioni imperialiste. La terra, la manodopera e le capacità produttive del Sud del mondo sono costrette a rifornire le catene globali di merci dominate dalle imprese del Nord – banane per Chiquita, cotone per Zara, caffè per Starbucks, smartphone per Apple e coltan per Tesla, tutto a beneficio dei paesi più ricchi, tutto a prezzi artificialmente bassi – invece di produrre cibo, alloggi, assistenza sanitaria, istruzione e beni industriali per soddisfare i bisogni nazionali. L'accumulazione di capitale nei paesi ricchi dipende dal drenaggio di lavoro e risorse dalla periferia.[1]

Non dovrebbe quindi sorprendere che, nonostante livelli estremamente elevati di produzione aggregata – e livelli di utilizzo di energia e materiali che portano la pressione ecologica oltre i limiti di sicurezza e sostenibilità – la privazione rimanga così diffusa all'interno dell'economia mondiale capitalistica. Certo, il capitalismo produce troppo, ma anche troppo poco, cose giuste. L'accesso ai beni e ai servizi essenziali è limitato dalla mercificazione e, poiché il capitale cerca di ridurre il costo del lavoro in ogni momento, soprattutto in periferia, il consumo delle classi lavoratrici è vincolato.

Peter Kropotkin notò questa dinamica più di centotrenta anni fa. In La conquista del pane, osservò che, nonostante gli alti livelli di produzione, anche nel XIX secolo in Europa la maggior parte della popolazione viveva in miseria. Perché? Perché nel capitalismo la produzione si mobilita intorno a «ciò che offre i maggiori profitti ai monopolisti». «Pochi uomini ricchi», scriveva, «monopolizzano le attività economiche della nazione». Nel frattempo, le masse, a cui è impedito di produrre per i propri bisogni, «non dispongono in anticipo dei mezzi di sussistenza per un mese, o anche per una settimana».

Considerate, esortava Kropotkin, «tutto il lavoro che va sprecato: qui per mantenere la scuderia, il canile e la servitù del ricco, là per rispondere ai capricci della mondanità e del lusso depravato dell’alta teppa; altrove per costringere il consumatore ad acquistare ciò di cui non ha bisogno o imporgli con la pubblicità un articolo di qualità scadente; altrove, ancora, per produrre derrate assolutamente nocive, ma che danno profitti all’imprenditore».[2]

Ma tutta questa attività produttiva potrebbe essere organizzata per altri fini. «Quello che è sperperato in questa maniera», scriveva Kropotkin, «basterebbe per raddoppiare la produzione di cose utili, o per attrezzare manifatture e officine che ben presto inonderebbero i negozi di tutti gli approvvigionamenti di cui mancano i due terzi della nazione». Se gli operai e i contadini avessero il controllo collettivo dei mezzi di produzione, sarebbero facilmente in grado di assicurare quello che Kropotkin definiva «benessere per tutti». La povertà di massa, le privazioni e la scarsità artificiale che caratterizzano il capitalismo potrebbero finire più o meno immediatamente.

L'argomentazione di Kropotkin è valida anche oggi. Non ci vorrebbe molto, come quota della capacità produttiva mondiale totale, per garantire una vita dignitosa a tutti gli abitanti del pianeta. Ma con la realtà della crisi ecologica, dobbiamo affrontare anche una seconda sfida, che Kropotkin non poteva comprendere nel XIX secolo: raggiungere il benessere per tutti e allo stesso tempo ridurre l'uso aggregato di energia e materiali (in particolare nei paesi più ricchi) per consentire una decarbonizzazione* sufficientemente rapida e riportare l'economia mondiale entro i limiti planetari.[3] L'innovazione tecnologica e i miglioramenti dell'efficienza sono cruciali a questo scopo, ma i paesi ad alto reddito devono anche ridimensionare le forme di produzione meno necessarie, per ridurre direttamente l'eccesso di energia e l'uso di materiali.[4]

Se il capitalismo non è sempre stato in grado di raggiungere il primo obiettivo (benessere per tutti), non può certo raggiungere il secondo. Si tratta di un'impossibilità strutturale, poiché va contro la logica centrale dell'economia capitalistica, che è quella di aumentare indefinitamente la produzione aggregata, per mantenere le condizioni di un'accumulazione perpetua.

È chiaro cosa bisogna fare: dobbiamo ottenere il controllo democratico della finanza e della produzione, come sosteneva Kropotkin, ed organizzarlo, adesso, intorno al duplice obiettivo del benessere e dell'ecologia. Ciò presuppone di distinguere, come fece Kropotkin, tra la produzione socialmente necessaria, che deve chiaramente crescere per il progresso sociale, e le forme di produzione distruttive e meno necessarie che devono essere urgentemente ridimensionate. Questo è l'obiettivo storico-mondiale rivoluzionario che la nostra generazione deve affrontare.

Come potrebbe essere un'economia di questo tipo? Diversi sono gli obiettivi chiave che emergono.

Per garantire le fondamenta sociali, dobbiamo innanzitutto espandere e demercificare i servizi pubblici universali.[5] Con questo intendo l'assistenza sanitaria e l'istruzione, ma anche la casa, i trasporti pubblici, l'energia, l'acqua, Internet, l'assistenza all'infanzia, le strutture ricreative e il cibo nutriente per tutti. Mobilitiamo le nostre forze produttive per garantire a tutti l'accesso ai beni e ai servizi necessari per il benessere.

In secondo luogo, dobbiamo creare ambiziosi programmi di lavori pubblici, per sviluppare le capacità di produzione di energia rinnovabile, isolare le case, produrre e installare elettrodomestici efficienti, ripristinare gli ecosistemi e innovare le tecnologie socialmente necessarie ed ecologicamente efficienti. Si tratta di interventi essenziali che devono essere realizzati il più rapidamente possibile; non possiamo aspettare che il capitale decida che vale la pena farli.

In terzo luogo, dobbiamo introdurre una garanzia pubblica del posto di lavoro, che permetta alle persone di partecipare a questi progetti collettivi vitali, svolgendo un lavoro socialmente necessario, con democrazia sul posto di lavoro e salari minimi. La garanzia del posto di lavoro deve essere finanziata dall'emittente della valuta, ma dovrebbe essere gestita democraticamente al livello locale appropriato.

Consideriamo la potenza di questo approccio. Ci permette di raggiungere obiettivi ecologicamente necessari. Ma abolisce anche la disoccupazione. Abolisce l'insicurezza economica. Garantisce una buona vita a tutti, indipendentemente dalle fluttuazioni della produzione aggregata, scollegando così il benessere dalla crescita. Per quanto riguarda il resto dell'economia, le aziende private dovrebbero essere democratizzate e poste sotto il controllo dei lavoratori e delle comunità, a seconda dei casi, e la produzione dovrebbe essere riorganizzata intorno ad obiettivi di benessere ed ecologia.

Poi, mentre assicuriamo e miglioriamo i settori socialmente ed ecologicamente necessari, dobbiamo anche ridurre le forme di produzione socialmente meno necessarie. I combustibili fossili è ovvio: abbiamo bisogno di obiettivi vincolanti per ridurre questo settore, in modo equo e giusto.[6] Ma – come sottolineano gli studi sulla decrescita – dobbiamo anche ridurre la produzione aggregata di altri settori nocivi (automobili, compagnie aeree, edilizia di lusso, allevamenti intensivi, fast fashion, pubblicità, armi e così via), estendendo al contempo la durata di vita dei prodotti e vietando l'obsolescenza programmata. Questo processo dovrebbe essere determinato democraticamente, ma anche fondato sulla realtà materiale dell'ecologia e sugli imperativi della giustizia decoloniale.[7]

Infine, è urgente ridurre drasticamente l'eccesso di potere d'acquisto dei ricchi ricorrendo a una tassazione sulla ricchezza e stabilendo indici di reddito massimo.[8] Al momento, i milionari da soli sono sulla buona strada per bruciare il 72% del budget di carbonio rimanente per mantenere il pianeta al di sotto di 1,5°C di riscaldamento.[9] Si tratta di un'aggressione gravissima all'umanità e al mondo vivente, che nessuno di noi dovrebbe accettare. È irrazionale e ingiusto continuare a dirottare le nostre energie e le nostre risorse per sostenere un’élite che consuma eccessivamente, nel bel mezzo di un'emergenza ecologica.

Se, dopo aver adottato questi provvedimenti, ci accorgeremo che la nostra società ha bisogno di meno manodopera per produrre ciò di cui abbiamo bisogno, possiamo accorciare la settimana lavorativa, dare più tempo libero alle persone e ripartire in modo più equo il lavoro necessario, evitando così definitivamente la disoccupazione.

La dimensione internazionalista di questa transizione deve essere al centro dell'attenzione. L'eccesso di energia e l'uso di materiali devono diminuire nei paesi ricchi per raggiungere gli obiettivi ecologici, mentre nella periferia le capacità produttive devono essere recuperate, riorganizzate e, in molti casi, aumentate per soddisfare i bisogni umani e raggiungere lo sviluppo, con una produzione che converga a livello globale verso livelli sufficienti per il benessere universale e compatibili con la stabilità ecologica.[10] Per il Sud del mondo, questo richiede la fine dei programmi di aggiustamento strutturale, la cancellazione dei debiti esterni, la garanzia di una disponibilità universale delle tecnologie necessarie e la possibilità per i governi di utilizzare una politica industriale e fiscale progressiva per migliorare la sovranità economica. In assenza di un'azione multilaterale efficace, i governi del Sud possono e devono intraprendere passi unilaterali o collettivi verso uno sviluppo sovrano e devono essere sostenuti in tal senso.[11]

Tutto ciò dovrebbe aver reso chiaro che la decrescita – il framework che ha fortemente sollecitato l'immaginazione di scienziati e attivisti negli ultimi dieci anni – si comprende meglio se la si considera un elemento all'interno di una più ampia lotta per l'ecosocialismo e l'anti-imperialismo.

Il programma sopra delineato è accessibile? Sì. Per definizione, sì. Come riconosceva anche l'influente economista capitalista John Maynard Keynes – e come hanno sempre capito gli economisti socialisti – tutto ciò che possiamo fare, in termini di capacità produttiva, possiamo pagarlo. E per quanto riguarda la capacità produttiva, ne abbiamo più che a sufficienza. Stabilendo un controllo democratico sulla finanza e sulla produzione, è sufficente trasferire l'impiego di questa capacità, dalla produzione dispendiosa e dall'accumulo delle élite, verso obiettivi sociali ed ecologici.

Qualcuno dirà che questo sembra utopico. Ma queste politiche sono estremamente popolari. Servizi pubblici universali, garanzia di un posto di lavoro pubblico, maggiore uguaglianza, un'economia incentrata sul benessere e sull'ecologia piuttosto che sulla crescita: i sondaggi mostrano un forte sostegno della maggioranza a queste idee e assemblee ufficiali dei cittadini in diversi paesi hanno chiesto proprio questo tipo di servizi. Tutto ciò ha il potenziale per diventare un'agenda politica popolare e realizzabile.

Ma nulla di tutto questo accadrà automaticamente. Richiederà una grande lotta politica contro coloro che beneficiano così prodigiosamente dello status quo. Non è il momento di un blando riformismo, di aggiustare marginalmente un sistema in crisi. È il momento di un cambiamento rivoluzionario. È chiaro, tuttavia, che il movimento ambientalista che si è mobilitato negli ultimi anni non può essere l'unico agente di questo cambiamento. Sebbene il movimento sia riuscito a portare i problemi ecologici in primo piano nel discorso pubblico, non dispone dell'analisi strutturale e dell'influenza politica per realizzare la transizione necessaria. La posizione dei partiti verdi borghesi è particolarmente eclatante, con la loro pericolosa mancanza di attenzione al problema dei mezzi di sussistenza della classe operaia, della politica sociale e delle dinamiche imperialiste. Per superare questi limiti, è di urgente importanza che gli ambientalisti costruiscano alleanze con i sindacati, i movimenti operai e altre formazioni politiche della classe operaia che hanno più peso politico, compreso il potere di sciopero.

Per fare questo, gli ambientalisti devono mettere in primo piano le politiche sociali che ho elencato sopra, organizzandosi per abolire l'insicurezza economica che porta le comunità operaie e molti sindacati a temere le ramificazioni negative che un'azione ecologica radicale potrebbe avere sui loro mezzi di sussistenza. Ma anche i sindacati devono muoversi. Non lo dico da critico esterno, ma da iscritto al sindacato da una vita. Come abbiamo potuto lasciare che gli orizzonti politici del movimento operaio si riducessero a battaglie settoriali su salari e condizioni lavorative, lasciando intatta la struttura generale dell'economia capitalistica? Dobbiamo riattivare le nostre aspirazioni originarie e unirci tra tutti i settori – oltre che con i disoccupati – per garantire le basi sociali per tutti e conseguire la democrazia economica.

Infine, i movimenti progressisti dei paesi ricchi devono unirsi, sostenere e difendere i movimenti sociali radicali e anticoloniali del Sud globale. Gli operai e i contadini della periferia contribuiscono al 90% della manodopera che alimenta l'economia mondiale capitalistica, e il Sud detiene la maggior parte delle terre coltivabili e delle risorse critiche del mondo, il che pone nelle loro mani una leva sostanziale. Qualsiasi filosofia politica che non metta in primo piano i lavoratori e i movimenti politici del Sud come agenti di primo piano del cambiamento rivoluzionario è semplicemente fuori strada.

Ciò richiede un duro lavoro di organizzazione, di creazione di solidarietà e di unione attorno a richieste politiche comuni. Richiede strategia e coraggio. C'è speranza? Sì, c'è speranza. Sappiamo che è empiricamente possibile raggiungere un'economia mondiale giusta e sostenibile. Ma la nostra speranza può essere forte quanto la nostra lotta. Se vogliamo la speranza, se vogliamo conquistare questo mondo, dobbiamo costruire la lotta.


Note


*
N.d.T. Cioè una «riduzione del rapporto carbonio-idrogeno nelle fonti di energia. Ovvero, considerando i diversi rapporti carbonio-idrogeno che caratterizzano la composizione delle principali materie prime energetiche, il processo rappresenta la tendenza alla riduzione di questo rapporto» (Wikipedia), in poche parole, un abbandono delle fonti fossili.


[1] Jason Hickel, Christian Dorninger, Hanspeter Wieland, and Intan Suwandi, Imperialist Appropriation in the World Economy: Drain from the Global South through Unequal Exchange, 1990–2015, «Global Environmental Change» 73, 2020, 102467.

[2] Pëtr Alekseevič Kropotkin, La conquista del pane, 1892, marxists.org. [pdf in italiano, Edizioni Anarchismo, 2014]

[3] Jason Hickel, Daniel W. O’Neill, Andrew L. Fanning, and Huzaifa Zoomkawala, National Responsibility for Ecological Breakdown: A Fair-Shares Assessment of Resource Use, 1970–2017, «Lancet Planetary Health» 6, no. 4, 2022, e342-e349; Jason Hickel, Quantifying National Responsibility for Climate Breakdown: An Equality-Based Attribution Approach for Carbon Dioxide Emissions in Excess of the Planetary Boundary, «Lancet Planetary Health» 4, no. 9, 2022,: e399-e404; Lorenz T. Keyßer and Manfred Lenzen, 1.5°C Degrowth Scenarios Suggest the Need for New Mitigation Pathways, «Nature Communications» 12, no. 1, 2021, p. 2676; Jason Hickel et al., Urgent Need for Post-Growth Climate Mitigation Scenarios, «Nature Energy» 6, no. 8, 2021, pp. 766-68. Un PDF di questo articolo è liberamente consultabile su jasonhickel.org/research.

[4] Jason Hickel, On Technology and Degrowth, «Monthly Review» 75, no. 3, Luglio-Agosto 2023, pp. 44-50; Jefim Vogel e Jason Hickel, Is Green Growth Happening?: Achieved vs. Paris-compliant CO2-GDP Decoupling in High-Income Countries, «Lancet Planetary Health», 2023 (imminente).

[5] Jason Hickel, Universal Public Services: The Power of Decommodifying Survival, MR Online, 21 aprile 2023.

[6] Si veda, ad esempio, the Fossil Fuel Non-Proliferation Treaty Initiative.

[7] Sappiamo dalle assemblee dei cittadini nel Regno Unito, in Francia e in Spagna che le persone sono in grado di identificare rapidamente le forme di produzione meno necessarie e di concordare la loro riduzione. Sappiamo anche che in condizioni sperimentali le persone cercano di gestire le risorse in modo equo ed ecologico (confermando le ricerche di Eleanor Ostrom e altri sulla gestione democratica dei beni comuni); si veda Oliver P. Hauser, David G. Rand, Alexander Peysakhovich e Martin A. Nowak, Cooperating with the Future, «Nature» 511, n. 7508, 2014, pp. 220-23. La democrazia è un valore socialista fondamentale, ma lo sono anche la scienza (cioè, le posizioni devono essere empiricamente solide rispetto alla realtà materiale ed ecologica), la giustizia e la solidarietà. Se le persone dei paesi ricchi decidono democraticamente di aumentare l'uso di energia e materiali in modi da esacerbare il dissesto ecologico e/o danneggiare le persone della periferia, i socialisti dovrebbero opporsi e discutere/organizzarsi per un cambiamento di rotta.

[8] Joel Millward-Hopkins e Yannick Oswald, Reducing Global Inequality to Secure Human Wellbeing and Climate Safety, «Lancet Planetary Health» 7, no. 2, 2023: e147-e154. Si veda anche Jason Hickel, How Much Should Inequality Be Reduced?, Al Jazeera, 14 Dicembre 2022, aljazeera.com.

[9] Stefan Gössling e Andreas Humpe, Millionaire Spending Incompatible with 1.5°C Ambitions, «Cleaner Production Letters» 4, 2023, 100027.

[10] Hickel, O’Neill, Fanning, e Zoomkawala, National Responsibility for Ecological Breakdown; Hickel, Quantifying National Responsibility for Climate Breakdown; Keyßer e Lenzen, 1.5°C Degrowth Scenarios Suggest the Need for New Mitigation Pathways; Jason Hickel e Dylan Sullivan, Capitalism, Global Poverty, and the Case for Democratic Socialism, «Monthly Review» 75, no. 3, Luglio-Agosto 2023, pp. 99-113.

[11] Jason Hickel, How to Achieve Full Decolonization, «New Internationalist», 15 Ottobre 2021; Samir Amin, Delinking: Toward a Polycentric World, Londra, Zed Books, 1980.

 

Jason Hickel

Traduzione di Alessandro Cocuzza - Redazione di Antropocene.org

Fonte: Monthly Review vol.75 n. 4 (01.09.2023)


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