Il Giardino di Babilonia, di Bernard Charbonneau, Edizioni degli Animali, 2022.

Bernard Charbonneau è stato un precursore (Il sentimento della natura, forza rivoluzionaria è del 1937), assieme a pochi altri, in quella linea di pensiero che unisce in uno stesso cammino spiriti diversi, fraterni e solidali: Ivan Illich, Pier Paolo Pasolini, Jacques Ellul, Serge Latouche, Simone Weil, María Zambrano.

Ritornare alle sorgenti remonter aux sources, è per Charbonneau il lavoro di una vita, di un’opera che cresce da un libro all’altro. Ne Il Giardino di Babilonia, egli descrive, con una lucidità e una forza che non hanno eguali, la devastazione delle campagne, la morte della natura, la fine del paesaggio, la costruzione di un concetto di natura e la sua progressiva artificializzazione. La pervasività nefasta della città totale, Megalopoli, e l’erosione della campagna che diventa periferia. Le vie di comunicazione (autostrade, ponti, ‘grandi opere’), ferite inferte alla terra.

C’è in questo libro una fortissima tensione lirica, non è solo un saggio, ma una testimonianza, un grido disperato (dai tetti?), rivolto ad ognuno di noi. Non lasciamoci irretire da quella che Charbonneau chiamava «La Grande Mutazione». «La natura è un’invenzione dei tempi moderni» dice Charbonneau, ad apertura. In certe descrizioni, il paesaggio sembra fluttuare, rinascere, ritornare, da un passato remoto, anonimo, vitale, primordiale. L’umanità non può vivere senza la terra, ma la terra può benissimo fare a meno di noi. «Il sentimento della natura non si può ridurre a un’etica. La libertà non è solo un dovere individuale, ma un principio collettivo». «La meraviglia di Babilonia è questo giardino terrestre che dobbiamo coltivare e difendere dalle forze mortifere che lo hanno sempre assediato».

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