Fonte: Climate&Capitalism - 24.07.2022

Per fermare il cambiamento climatico dobbiamo capire come il capitalismo generi processi distruttivi che mettono a rischio la Terra.


Jeff Sparrow, l'autore di Crimes Against Nature: Capitalism and Global Heating (Scribe, 2021) è editorialista de The Guardian Australia e docente presso il Center for Advanced Journalism dell'Università di Melbourne. È stato intervistato da Martin Empson, il cui più recente libro è Socialism or Extinction: The Meaning of Revolution in a Time of Ecological Crisis (Bookmarks, 2022).



Martin Empson: Partirò dal tema centrale del tuo libro: il capitalismo. È un argomento sempre più oggetto di discussione all’interno del movimento ambientalista. Quindi potresti iniziare parlando di come tratti la questione del capitalismo e dell'ambiente nel libro?

Jeff Sparrow: Sono uno di quelli che hanno conosciuto le idee marxiste per la prima volta all'università alla fine degli anni '80. A quel tempo, il modo in cui veniva presentato implicava che il marxismo non avesse quasi nulla da dire né sull'ambiente, né sul mondo naturale. Potevi essere interessato al marxismo o potevi interessarti dell'ambiente, ma le due cose non avevano nulla in comune.

Successivamente sono tornato sull’argomento e ho riletto i classici di Karl Marx, ma sotto l'influenza di una nuova generazione di pensatori ambientalisti marxisti come John Bellamy Foster. Fu solo allora che compresi l'ovvietà schiacciante che il marxismo è un impegno profondo con il mondo naturale. In un certo senso, questo è il preciso significato del materialismo come teoria. Questo ha davvero cambiato il modo in cui pensavo sia il marxismo che -cosa più importante- l'ambientalismo.

Le persone preoccupate per il cambiamento climatico -una percentuale enorme e crescente della popolazione- riconoscono sempre più che esso è il risultato di una questione sistemica. Ma, per capire davvero come si manifesta questa questione sistemica, devi avere una qualche comprensione del capitalismo.

Questo è uno degli argomenti che volevo sviluppare nel libro. Non si può parlare di cambiamento climatico e di certo non si può sviluppare una soluzione credibile al cambiamento climatico senza aver compreso la natura del capitalismo. E come mai il capitalismo genera questi processi distruttivi che ora mettono a rischio il pianeta nel suo insieme.


ME: Nel tuo libro esplori questo aspetto in parte discutendo di come il capitalismo, sviluppandosi, trasformi le relazioni sociali. Parlaci di questo.


JS: Una delle motivazioni per scrivere questo libro è stata quella di superare la disperazione che impedisce a molte persone di impegnarsi rispetto al il cambiamento climatico. Anche le persone profondamente politicizzate spesso trovano molto difficile leggere articoli sul cambiamento climatico, perché è qualcosa di tremendamente orribile. Se sei un socialista, sei abituato ad affrontare cose orribili, ma c’è qualcosa di particolarmente orribile nella scomparsa di una specie o nella lenta devastazione di intere regioni. Se sei un politico, devi superare quella disperazione perché è profondamente disabilitante.

Così ho voluto affrontare quel problema, il ché significava venire a patti con alcune delle questioni teoriche. Prendi il concetto di "natura selvaggia", che viene spesso usato dalle persone per definire un ambiente. Esiste una specie di ambientalismo di buon senso che attiene alla difesa della natura selvaggia - definita ecologicamente incontaminata - contro l'invasione degli esseri umani.

Ma nel libro sostengo che, se comprendi il compito ambientale in questo modo, ti stai ponendo un obiettivo impossibile, perché questo è proprio il punto centrale dell'Antropocene, un'epoca geologica definita dall'attività umana. Non c’è più nessuna parte del pianeta che sia completamente incontaminata dagli esseri umani. Una volta che inizi a pensarci, puoi estendere ulteriormente l'argomento.

Guarda, per esempio, il paesaggio inglese. Gli elementi che riteniamo selvaggi sono, infatti, il risultato di un lungo impegno da parte dell'essere umano. La gente altera il paesaggio mentre altera i tipi di società in cui vive.

Quindi quel rapporto tra essere umano e natura non è una semplice opposizione. In realtà, si tratta di una specie di relazione dialettica in cui l'uomo e la natura si plasmano fondamentalmente a vicenda.

Qui non si tratta solo di un aspetto teorico – questo ha implicazioni politiche. Se riconosciamo che gli esseri umani hanno sempre alterato l'ambiente, questo apre la possibilità di un nuovo ambientalismo che non sta semplicemente cercando di ostacolare la distruzione della natura selvaggia. Si tratta di migliorare potenzialmente il pianeta, stabilendo un tipo di relazione diverso con la natura e questo è un modo molto più promettente di guardare alla crisi planetaria. Ciò dà all'ambientalismo la possibilità di ottenere qualcosa di buono, piuttosto che rendere il posto semplicemente meno cattivo.


ME: In che modo il capitalismo ha trasformato il nostro rapporto con la natura?


JS: Lo sviluppo del capitalismo cambia il rapporto delle persone con la natura in un modo davvero fondamentale. Come australiano sono sempre consapevole di vivere in un paese fondato come stato coloniale. L'invasione europea ha avuto un effetto straziante sulle popolazioni indigene che avevano vissuto in Australia per 40.000 o 50.000 anni prima dell'insediamento dei bianchi.

È davvero importante per le persone con un background come il mio rendersi conto che esisteva una cultura che viveva un rapporto molto diverso con la natura. Non erano “nobili selvaggi” che vivevano con leggerezza sulla terra. Come emerge da un recente studio accademico, le popolazioni indigene hanno radicalmente modificato il continente australiano. Ma sono stati in grado di vivere in un modo che ha reso l'ecologia più ricca e molto più dinamica. Questo perché non era determinato dalle priorità del capitalismo guidate dal profitto, ma invece modellato dalla tradizione e dalla cultura.

Quindi abbiamo davanti a noi un esempio che mette davvero in crisi i pregiudizi della Destra. Se le persone lo hanno fatto in passato, non c’è motivo per cui noi non potremo in futuro. Ciò che ce lo impedisce, sono i rapporti capitalisti, le relazioni sociali introdotte in Australia nel 1788.

Dopo l'invasione bianca, il paesaggio del continente è cambiato fino a diventare quasi irriconoscibile nell'arco di diversi anni, un lasso di tempo molto breve. C’è stata una tremenda erosione delle pianure fertili, che sono scomparse sotto i piedi dei coloni bianchi. Questo non aveva a che fare con la tecnologia o la sovrappopolazione. Aveva a che fare con i rapporti capitalistici che impedivano il tipo di gestione della terra su cui gli indigeni avevano precedentemente fatto affidamento.

Gli indigeni erano molto consapevoli di ciò e lavoravano con tutta una serie di cicli naturali che sono andati perduti. Questo è un punto importante quando si tratta di combattere quel tipo di calunnia di destra sul modo in cui vivevano le persone. Ma, come ho detto prima, è anche fondamentale perché se è successo in passato, non c’è motivo per cui non possa accadere in futuro.

Ora, non sto suggerendo che l'Australia torni a essere una società preindustriale. Ma se le popolazioni indigene erano in grado di gestire la terra in modo sostenibile per decine di migliaia di anni, penseresti che la scienza e la tecnologia moderne dovrebbero rendere questo processo ancor più facile, anziché più difficile. Allora perché non possiamo mantenere una relazione sostenibile nel modo in cui lo facevano gli indigeni prima dell'insediamento dei bianchi? Ebbene, la risposta è il capitalismo.

Oggi, la produzione non è guidata dalle consuetudini, dalla legge tradizionale o dalla comprensione di ciò che è meglio per l'ambiente – è guidata dalle esigenze di profitto. Quando queste relazioni di profitto furono introdotte in Australia, ebbero un effetto catastrofico sia sulle popolazioni indigene, sia sul paesaggio nel suo insieme. Certo, alcune persone di sinistra hanno la tendenza a romanticizzare la cultura indigena, il che non aiuta. Nel libro, invece, sottolineo alcuni dei parallelismi con il processo di sviluppo capitalistico avvenuto in Inghilterra che ha poi portato all'insediamento dei bianchi in Australia.

Lo sviluppo del capitalismo in Inghilterra ha portato a un rapporto fondamentalmente diverso con la terra. Ha anche prodotto una disoccupazione di massa e una criminalità, che portò la deportazione di persone in Australia. La classe operaia inglese ha visto il suo rapporto tradizionale con il proprio villaggio o la propria regione completamente distrutto dalle enclosures - quando le terre comuni sono state confiscate dai proprietari terrieri e dagli agricoltori capitalisti - e dall'imposizione di lavoro salariato - dovendo vendere il proprio lavoro per un salario per sopravvivere. Si tratta di qualcosa a cui la maggior parte delle persone non era per niente abituata.

Un processo simile si ripete con l'introduzione del capitalismo in Australia. È affascinante leggere i resoconti di come gli indigeni in Australia hanno vissuto l'imposizione del lavoro salariato. Ancora e ancora, trovi i padroni coloniali che si lamentano del fatto che gli indigeni non capivano il concetto di salario. E che lavorano solo per un po', poi se ne andavano. Questo richiama l'attenzione sul fatto che, prima del capitalismo, le popolazioni indigene godessero di un tenore di vita molto più elevato rispetto a dopo il capitalismo. E che il loro rapporto con la natura era una straordinaria fonte di significato. Consideravano il lavoro salariato tremendamente vuoto e senz'anima. L'idea di lavorare seguendo le istruzioni di un solo capo era priva di senso per loro.

Le lamentele avanzate dai padroni coloniali in Australia sulle popolazioni indigene sono simili alle lamentele mosse dai primi industriali in Inghilterra sugli scozzesi, sugli irlandesi e sulle altre comunità rurali. In entrambi i casi, i capi dicono: “Queste persone non capiscono. Non vogliono lavorare. Vengono per un po', poi smettono di lavorare.”

Quindi, piuttosto che essere una condizione ordinata da Dio, il lavoro salariato è qualcosa di relativamente nuovo - e ovunque sia stato imposto, è stato vissuto come orrendo. È stato cambiato il modo in cui le persone intendevano se stesse come esseri umani, e anche il modo in cui comprendevano la natura.


ME: Nel tuo libro affronti alcuni di questi argomenti in modo molto diverso rispetto ad altri scrittori. C’è un capitolo affascinante sul modo in cui la cultura automobilistica è arrivata a soverchiare il trasporto pubblico sostenibile attraverso le azioni dell'industria automobilistica e poi un capitolo sulla pubblicità del tabacco che traccia un'analogia con il moderno negazionismo climatico. Utilizzi la storia di Frankenstein per parlare del capitalismo “fuori controllo” nei suoi rapporti con la natura e le persone. È un approccio interessante.

JS: Ho aperto con un saggio sulla cultura dell'auto. Uno degli argomenti che sto cercando di affrontare è che la crisi ambientale è un risultato del fatto che gli esseri umani comuni sono avidi, pigri e stupidi. Sono talmente egoisti che sono felici di distruggere il pianeta in cambio di un guadagno a breve termine. La cultura automobilistica, e in particolare la cultura automobilistica americana, ne è l'esempio più eclatante.

Quando pensiamo agli umani avidi che distruggono il pianeta, ci vengono in mente gli americani con le loro grandi macchine che insistono a guidare ovunque. Ma se guardi allo sviluppo della cultura automobilistica negli Stati Uniti, incontri una storia lacerata da lotte davvero intense. Prima di iniziare le ricerche sul fatto, non avevo idea che esistesse un fiorente sistema di tram negli Stati Uniti negli anni '90 dell'Ottocento, che fu distrutto perché non redditizio. I veicoli erano, per molti versi, tecnologicamente più avanzati dei motori a combustione interna.

Ancora e ancora emergono innovazioni tecnologiche che hanno il potenziale per migliorare effettivamente la vita delle persone. Poi vengono sequestrate dai ricchi e usate in modi che peggiorano sia la vita delle persone comuni che la situazione ambientale.

Un'altra cosa che mi ha davvero colpito è stata l'importanza delle discussioni sulla natura per la primigenia classe operaia. Oggi, se stai cercando di sostenere la centralità della classe operaia per la trasformazione della società, ti dicono che la classe operaia odia la natura. E che solo i tipi della classe media si preoccupano degli alberi o degli animali o dei bei paesaggi o altro.

La moderna classe operaia è stata formata da processi come le recinzioni e una selvaggia e violenta dislocazione dalla terra. Quindi, uno dei modi in cui la gente comune discuteva le nuove condizioni del capitalismo industriale riguardava proprio il cambiamento del loro rapporto con la natura. E quanto lo odiavano. Se leggi i cartisti - un movimento di massa della classe operaia nella Gran Bretagna degli anni '30 e '40 dell'Ottocento – trovi che dicono: "Vivevamo in una campagna dove c'erano alberi. E ora viviamo in questo paesaggio infernale capitalista.”

Sento in qualche modo che il distacco dalla natura si normalizza in una fase successiva del capitalismo. Semplicemente perché la separazione della classe operaia dalla campagna diventa un dato di fatto.

Oggi, però, ci troviamo in una situazione leggermente diversa. Il cambiamento climatico e altri disastri colpiscono i più poveri e gli oppressi più di quanto non colpiscano i ricchi. E quindi appartiene sempre più alla vita della classe operaia essere influenzati da cose come uragani e inondazioni, o di dover lavorare all'aperto in condizioni climatiche non ordinarie.

Nel libro parlo delle fabbriche di Amazon. Leggi queste storie orribili di persone che lavorano in magazzini caldi dove le ambulanze parcheggiano sul davanti, pronte a raccogliere le persone quando crollano. Questo è qualcosa che il cambiamento climatico sta peggiorando sempre di più, influenzando direttamente la vita dei membri della classe operaia in un modo che forse non ci saremmo aspettati un paio di generazioni fa. Credo quindi che ci sia un interessante ritorno alla preoccupazione della classe operaia per gli aspetti naturali, quasi imposta loro dalla crisi.


ME: Pensi che la pandemia di Covid abbia aiutato questo processo?

JS: Il Covid non è una conseguenza diretta del cambiamento climatico. Ma allo stesso tempo, non può essere separato dalla più ampia catastrofe ecologica, di cui fa parte il cambiamento climatico. A causa del disboscamento dei terreni e della diffusione degli insediamenti urbani, gli esseri umani stanno entrando sempre più in contatto con ecosistemi che non hanno mai avuto alcuna esperienza degli esseri umani.

Questo fa sì che i virus si diffondano più spesso e il Covid fa parte di questo processo. Quindi puoi collegare il Covid alla crisi ambientale – ed è un esempio molto chiaro di come la crisi ambientale colpisca la classe operaia e i poveri molto più di chiunque altro. Così il rapporto tra la catastrofe ambientale e la classe diventa sempre più chiaro.

Ora, questo non significa necessariamente che le persone comprendano questa relazione. Ma abbiamo tutti visto le statistiche sul numero di miliardari la cui ricchezza è salita a livelli stratosferici durante il Covid. Mentre, se qualcuno lavora per la società di consegne a domicilio Door Dash o nel settore precario, durante la pandemia è stato penalizzato. Siamo quindi in un momento in cui la classe sta diventando sempre più centrale nella catastrofe ambientale. Credo che se non lo si comprende, non si è in grado di reagire.


ME: Due dei capitoli del libro affrontano questioni relative all'ambiente e al razzismo. Si osserva come il primo movimento ambientalista negli Stati Uniti sia stato modellato da idee di destra che persistono ancora oggi. Dici, per esempio, che “per molti afroamericani, la vita all'aria aperta richiama il bigottismo, il Klan e la violenza del razzismo”. L'altro capitolo esamina i miti della sovrappopolazione. Puoi riassumere questi problemi?


JS: Il movimento ambientalista ha una storia complessa, ma negli Stati Uniti, in particolare, è stato plasmato da un romanticismo di destra rispetto ai bei tempi andati. Spesso tracciava un esplicito parallelo tra erbacce invasive, animali selvatici e immigrati o persone di razze "indesiderabili". Alcune delle prime e più importanti campagne ambientali negli Stati Uniti sono state guidate da persone che erano eugenetici e razzisti estremi. La maggior parte degli ambientalisti oggi sono, ovviamente, antirazzisti, ma alcune delle posizioni teoriche dei brutti  tempi antichi rimangono ancora.

Se scrivi o parli della crisi ambientale, invariabilmente alla fine qualcuno viene da te e dice: "Bene, va tutto bene. Ma il vero problema è che ci sono troppe persone”. È un argomento che ha un senso intuitivo a un livello davvero semplicistico. Se accettiamo che il mondo è finito e solo un tot di persone può vivere in uno spazio finito, allora l'idea che la sovrappopolazione sia un problema sembra di buon senso.

Naturalmente, in realtà il mondo non funziona così. In astratto esiste probabilmente un numero definito di persone che potresti stipare sul pianeta. Ma nel “qui e ora”, e nell'immediato futuro, le questioni relative alla popolazione non hanno niente a che fare con l'organizzazione delle società.

Al livello più ovvio, alcuni dei paesi più poveri del mondo hanno pochissime persone che ci vivono. Mentre puoi andare in una città incredibilmente ricca, come New York, dove un numero enorme di persone è stipato in uno spazio piccolo. Ma non senti nessuno dire: "Beh, in realtà, quello che devi fare è sbarazzarti di tutte queste persone e le cose andrebbero meglio". Quindi il "popolazionismo” è un argomento semplice, ma sbagliato. E per di più è un argomento di destra. Penso che questo sia davvero importante. Nelle prime iterazioni delle argomentazioni sulla popolazione, libri come Population Bomb di Paul Ehrlich non erano necessariamente e ovviamente di destra, ma le dinamiche di destra iniziarono rapidamente a svilupparsi.

Con il popolazionalismo al livello più elementare, la domanda diventa sempre: chi sono le persone in eccedenza che devono andarsene? Naturalmente, non sono mai gli stessi attivisti demografici. Non senti mai nessuno dire: Ci sono troppe persone nel mondo. Perciò io e la mia famiglia ora ce ne andiamo alle cabine per l'eutanasia”. Danno sempre la colpa a qualcun altro.

Quando non è diretto contro le persone nel Sud del mondo, è diretto contro le masse brulicanti che vivono in patria. Quindi, in termini di programma specifico, è sempre legato a nozioni coercitive sull'imposizione di sterilizzazioni e limiti obbligatori al numero di bambini che le persone possono avere. E nei paesi in cui questo programma è stato implementato, ha sempre avuto risultati orribili.

Ora, le previsioni fatte dai teorici della sovrappopolazione sono state ampiamente smentite. Ad esempio, il tasso di crescita della popolazione sta rallentando così tanto che molti paesi ora parlano della necessità di aumentare la popolazione.

Ma continua a ritornare come un argomento zombi perché è un argomento che prospera sulla disperazione. È un argomento che dice che le persone sono il problema, semplicemente perché esistono. Bene, questo non è un argomento che attirerà tanto in un momento in cui il movimento sta avanzando, in cui le persone stanno cambiando il mondo e stanno aprendo nuove possibilità. È un argomento che diventa molto più attraente quando le persone si disperano per la loro incapacità di mobilitare le masse. Se credi di non essere in grado di mobilitare le masse, è molto più facile sostenere che le masse sono un problema.

Inoltre, è anche collegato alle discussioni sul consumismo, che sono profondamente presenti nel DNA del primo movimento ambientalista. C’è questa idea che il problema sia l’esagerato consumo delle persone: sono avide, sono pigre. Vogliono i loro televisori a grande schermo o altro. E da lì non ci vuole molto a dire che le persone stesse sono il problema, non solo per quello che fanno, ma semplicemente perché esistono.

L'infame fascista autore del massacro di Christchurch in Nuova Zelanda ha fatto questo ragionamento in modo esplicito, scrivendo nel suo manifesto della necessità di sterminare gli immigrati. Allo stesso modo, alcune delle persone a cui Donald Trump ha attinto nella sua campagna contro gli immigrati nel 2016, avevano legami di lunga data con il primo movimento ambientalista. Si erano spostati non solo a destra, ma all'estrema destra, da una prospettiva popolazionista.

Devo comunque sottolineare che il moderno movimento ambientalista ha svolto un ottimo lavoro nel mettere in discussione le argomentazioni popolazioniste e nell'allontanare i razzisti dal movimento. Ecco perché abbiamo visto solo l'estrema destra moderna affrontare i temi ambientali, e con formule piuttosto incerte. Per la maggioranza, l'estrema destra è ancora negazionista sul tema del clima, ma ci sono vari segnali che lasciano intravedere che questo diventerà un tema promettente per l'estrema destra.

Prendi l'Australia, che ha alcune delle politiche di immigrazione più atroci al mondo. Quali saranno i fenomeni causati dal cambiamento climatico previsti per i prossimi anni? Un esodo di massa di rifugiati climatici da paesi di tutto il mondo che sono stati inondati dall'innalzamento del livello del mare e da catastrofici cambiamenti di temperatura.

Cosa accadrà quando quelle persone arriveranno in paesi come l'Australia? Ci sarà una rinnovata spinta per la sicurezza delle frontiere. Il problema è che, in un certo senso, a molte persone questa potrebbe sembrare la risposta più fondata sul buon senso, perché i centri di detenzione e i gulag insulari ci sono già. Tutte le infrastrutture per una risposta di estrema destra al cambiamento climatico sono già qui. Ti ritrovi con un mondo di muri, città-stato pesantemente controllate dalla polizia e la retorica diventa una retorica ambientale. “Il nostro Paese è sovraccarico. Non possiamo più accettare altre persone. C’è una catastrofe climatica. Ecco perché queste persone devono essere ammassate nei campi”. Non credo sia uno scenario di fantascienza. Penso che, a meno che non siamo in grado di costruire un movimento, sia uno scenario futuro abbastanza plausibile.


ME: Una delle cose stimolanti della mobilitazione intorno alla COP26 in Gran Bretagna è stata la misura in cui il movimento ha affrontato la questione dei rifugiati climatici.


JS: Si! Allo stesso modo abbiamo appena vissuto il movimento Black Lives Matter. Secondo alcune stime, è stata la più grande mobilitazione di protesta mai vista nella storia umana, un fatto straordinario, visto il senso dato dalla maggior parte delle persone all'attuale situazione politica. Il fatto che qualcosa del genere possa succedere, testimonia quanto sia instabile la situazione, come le cose possono cambiare in fretta.

E, come cerco di argomentare nel libro, la crisi ambientale si sta manifestando sempre più come parte della vita della classe operaia. Di conseguenza, si sta inevitabilmente intrecciando con le lotte della classe operaia che potrebbero non sembrare necessariamente lotte per il clima.

Scrivo dei tentativi del sindacato nei magazzini Amazon negli Stati Uniti, dove le condizioni sono 'dickensiane'. L'implementazione della tecnologia di monitoraggio crea fabbriche in qualche modo peggiori di quelle del 19°secolo, poiché viene monitorato ogni secondo della giornata dei lavoratori. Ma le persone che cercano di organizzarsi in quei luoghi devono necessariamente confrontarsi con il Covid e devono necessariamente affrontare l'esperienza del caldo più intenso. Entrambi sono collegati alla crisi ambientale.

È possibile scorgere un potenziale spazio per incrementare le richieste ambientali, laddove i sindacati si organizzano per la difesa dei diritti fondamentali. Ovviamente non è inevitabile e dipende dalle argomentazioni politiche delle persone. Ma penso che tu possa vedere come questo potrebbe svolgersi in un modo che sarebbere sembrato impossibile solo 20 anni fa. Allora sembrava esserci una sorta di muro tra le lotte della classe operaia e le lotte ambientaliste.


ME: Come dovrebbero impegnarsi i socialisti nel movimento ambientalista?


JS: Penso che il movimento socialista stia imparando molto dai movimenti ambientalisti. Ma allo stesso tempo penso che dobbiamo prepararci a sostenere con forza che si tratta di una crisi sistemica e a dire che l'unico modo per risolverla è di sviluppare una nuova relazione tra l'umanità e la natura, un modo di produzione fondamentalmente diverso. E questa è sempre stata una richiesta centrale per i socialisti. Ovviamente suona come un programma piuttosto massimalista. Ma oramai la posta in gioco è così alta che, per assurdo, se non proponi un programma massimalista, non sembri serio. Nessuno crede che la crisi climatica possa essere risolta differenziando i rifiuti.


ME: Una delle cose che rende il tuo libro così importante è il modo in cui metti la classe operaia al centro della discussione. In particolare, l'ultimo capitolo, che parla di William Morris e dell'idea di una società basata sulla pianificazione democratica dell'economia. Possiamo imparare dal movimento ambientalista, ma noi, come sinistra rivoluzionaria, abbiamo qualcosa da offrire:  la visione di una società alternativa. Puoi concludere con le tue riflessioni su tutto questo?


JS: Ad essere onesti, si tratta di una questione sulla quale abbiamo tergiversato in passato e che non è stata esposta in modo chiaro perché suonava troppo radicale, troppo utopica. Ora non è più una questione che si possa evitare. Dobbiamo effettivamente parlare del diverso modo in cui il mondo potrebbe essere organizzato. Come sostiene Bellamy Foster, ‘News From Nowhere’ di William Morris è un classico dell'utopismo socialista, ma è anche -molto chiaramente e molto consapevolmente- un'utopia ambientale.

Per Morris, le due cose sono fondamentalmente intrecciate. Per certi versi, il suo marxismo è piuttosto idiosincratico, ma va davvero al nocciolo del problema quando dice che ciò che dobbiamo fare è parlare del modo in cui gli esseri umani si relazionano con la natura. E il modo in cui si relazionano con la natura è attraverso il lavoro. E pertanto il modo in cui lavoriamo – e, in particolare, la vendita della forza lavoro, della nostra capacità di lavorare - ha profonde conseguenze sulla nostra capacità di plasmare il mondo che ci circonda. Egli presenta la visione di un futuro socialista in cui gli esseri umani vivono e lavorano in un modo diverso – e centrale in tutto questo è la questione della pianificazione.

Prima ho parlato di come in Australia la terra fosse gestita da tutta una serie di usi, leggi e costumi. La visione che Morris propone è una gestione della terra in un senso più consapevole — un processo in cui la popolazione che lavora decide democraticamente e collettivamente cosa fare, cosa usare, cosa produrre, e lo fa. Non appena si pensa a questo come a una possibilità, il problema del clima diventa molto meno spinoso. Sappiamo cosa fare per porre fine al cambiamento climatico. Conosciamo tutte le cose che devono realizzarsi per questo.

Sappiamo che dobbiamo chiudere le miniere di carbone. Sappiamo che dobbiamo allontanarci dai combustibili fossili. Sappiamo di avere tutte queste tecnologie che, in teoria, ci consentono di fare ogni sorta di cose meravigliose. Il problema è che il capitalismo ce lo impedisce. Quindi, se siamo in grado di decidere cosa fare in modo democratico e collettivo, le possibilità che si aprono sono semplicemente infinite.

Nel libro cito uno straordinario documento del Fondo Monetario Internazionale (FMI) in cui gli economisti parlano delle balene che catturano grandi quantità di carbonio nel loro corpo. Quando le balene muoiono, portano quel carbonio sul fondo dell'oceano, svolgendo così un ruolo significativo nella prevenzione delle emissioni di carbonio. Allora, come decide il FMI di proteggerle? Dice che per proteggerle dobbiamo decidere quanto vale una balena, in modo che possano essere governate da un mercato che poi farà la sua magia e proteggerà le balene. Sembra assurdo, ma ovviamente è questo l'argomento che usano tantissimi responsabili politici di primo piano quando parlano di clima.

Come ho detto nel libro, se io e te ci trovassimo di fronte a una balena in difficoltà, non creeremmo un mercato. La respingeremmo in acqua. Una volta rimossa quella necessità di creare mercati per governare tutto ciò che fanno gli esseri umani, il futuro si apre. Il problema non sembra più così disperato. Abbiamo ancora molta strada da fare per creare una democrazia operaia e un'economia pianificata. Ma penso che il movimento nel suo insieme debba iniziare a parlare di questo.


Traduzione di Iris Legge - Redazione di Antropocene.org

Fonte: Climate&Capitalism 24.07.2022


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