Liberazione totale. La Rivoluzione del 21° secolo, di Steven Best, Ortica Editrice, 2017.

Dal punto di vista degli animali il “progresso” è regresso, la scienza è sadismo, l’umanismo è barbarie e i “lumi” della Ragione portano tenebre e follia.

Il punto di vista animale offre una nuova prospettiva per una rilettura critica della storia umana, delle origini della gerarchia, della guerra, della violenza e delle crisi sociali ed ecologiche. Permette di guardare alle persone e alla società in modo nuovo riconoscendo nell’Homo sapiens la specie violenta, dominante, assassina e autodistruttiva che spesso siamo.
Il nostro dominio sulla natura ha origine dallo sfruttamento dell’uomo sugli animali.  Per ripristinare un equilibrio tra tutti gli esseri del pianeta è necessaria una politica di liberazione totale – una rivoluzione culturale e sociale – che scardini tale sistema di dominio attraverso un’alleanza fra i diversi movimenti per la liberazione umana, animale e della Terra.
La difesa della Terra richiede un’azione immediata, occorre cambiare radicalmente i nostri valori, identità, visioni del mondo, sistemi economici, istituzioni sociali e politiche, e le relazioni tra di noi, con gli altri animali e con tutta la Terra.



Un estratto dal capitolo 4 - Ripensare la rivoluzione


Il capitolo estratto dal testo mette in luce l'approccio antropocentrico della sinistra sulla questione animale. Tuttavia, se  l'osservazione secondo la quale "Dal punto di vista animale, le forze di sinistra sono regressive e reazionarie" è sacrosanta,  la stessa cosa a nostro parere non la si può interamente attribuire a Marx, specie per quanto riguarda il presunto "dualismo" tra animali ed umani ( si veda  Monthly Review», vol. 70, n. 7, December 2018, a proposito dello "specismo alienato") e disinteresse "specista" verso la condizione animale (si veda Ryan Gunderson, Marx's Comments on Animal Welfare, «Rethinking Marxism», vol. 23, n° 4, 2011).

Redazione di Antropocene.org




"Lo specismo e la paleosinistra"

"L’ideologia discriminatoria, gerarchica, violenta, dello specismo infetta i movimenti sociali ed ambientali almeno quanto avvelena la coscienza collettiva. Tale atavica ignoranza non può non sollevare dubbi circa la reale natura “radicale”, “illuminata”, o “progressista” della politica di sinistra. Pur promuovendo l’uguaglianza, il rispetto, i diritti, le tradizioni progressiste e di sinistra hanno trascurato, anzi spesso protetto, le più feroci forme di sfruttamento e di violenza in atto sul pianeta, e continuano ancora oggi a sottovalutare le conseguenze catastrofiche dello specismo.

La sinistra si vanta di essere critica, razionale, giusta, egualitaria, e di difendere i più deboli, ma in realtà rimane ferma all’ipocrisia dello specismo, mostrando tutta la vacuità dei valori umanisti. Convinti sostenitori della “dialettica”, della teoresi olistica e dell’analisi sistemica, costoro in realtà non colgono le connessioni più portentose del nostro tempo: le odiose catene che legano lo sfruttamento animale allo sfruttamento umano.

Si scagliano contro lo sfruttamento, esecrano la logica del dominio, predicano la pace e lottano per gli indifesi, ma intanto consumano i corpi malati e smembrati degli esseri più oppressi del pianeta. Tuonano contro il feticismo del profitto, l’imperativo della crescita, la mercificazione totale, lo sfruttamento, la schiavitù e il dominio delle industrie, ma le merci che acquistano, consumano e indossano ogni giorno sono state prodotte in massa per il profitto dei sistemi di mercato transnazionali.

L’arroganza e l’incoerenza dell’umanesimo traspaiono quando le vittime della violenza e dell’oppressione si lamentano di essere “trattate come animali”, come se lo sfruttamento, la tortura e l’assassinio fossero perfettamente accettabili se inflitti ad animali non umani. Il problema dell’umanismo, per quanto ampia, inclusiva e universale possa essere la portata della democrazia, dell’autonomia e dei diritti - è che la discriminazione verso milioni di specie animali con cui condividiamo questo pianeta vanifica le sue potenzialità liberatrici e ne fa l’ennesima cultura dominatrice che non può in alcun modo portare alla pace, alla giustizia e a società sostenibili. Proprio come gli anarchici vedevano nello stato operaio marxista e nel partito d’avanguardia leninista una dominazione burocratica con un nuovo nome, così i liberazionisti considerano le lotte umaniste e popolari di ogni genere delle pseudo-rivoluzioni che predicano la democrazia e la pace ma praticano il dominio e perpetuano l’olocausto animale.

Dal punto di vista animale, le forze di sinistra sono regressive e reazionarie. Nel manifesto del partito comunista, per esempio, Karl Marx e Friedrich Engels liquidano i protettori degli animali come meri riformatori piccolo-borghesi. Costoro non si rendevano conto che il movimento per il benessere animale in paesi come gli Stati Uniti era di vitale importanza, ad esempio per le donne, la cui opposizione alla crudeltà verso gli animali era inseparabile dalle lotte contro la violenza maschile e lo sfruttamento minorile. Similmente in un suo saggio, Engels denigra i vegetariani e gli antivivisezionisti, mostrando di non comprendere la rilevanza di quei temi per ridurre le ferocia dell'uomo e per il progresso etico.

Stabilendo un modello di riferimento per tutte le generazioni della sinistra fino ai giorni nostri, Marx ed Engels elaborarono dunque una teoria naturalistica dell’evoluzione umana ispirata a Darwin, tralasciando però la precisazione di Darwin secondo cui tra gli umani e gli animali c’è una differenza di grado e non di genere. In opere come i “Manoscritti economico-filosofici del 1844", Marx istituisce un forte dualismo tra animali umani e non umani, sostenendo che solo gli esseri umani sono dotati di coscienza, di una volontà libera e della libertà di scelta, così come di un attività psichica e un mondo sociale complessi. Secondo Marx, mentre gli animali hanno una relazione immediata e puramente istintiva con l’attività produttiva, il lavoro umano è mediato dalla volontà, dall’intelligenza e dalla creatività. Nella narrazione marxiana che lega progresso sociale e dominio della natura, gli animali esistono solo in quanto risorse naturali da “umanizzare” e da sfruttare per far avanzare il progetto di supremazia sul mondo fisico.

Naturalmente Marx e altri radicali del suo tempo erano il prodotto della cultura occidentale, dalle culture greco-romane e stoiche al Cristianesimo e al medievalismo, alla scienza moderna, all’Illuminismo e alla rivoluzione industriale. Malgrado le profonde differenze tra queste epoche, molto più consistenti sono gli elementi di continuità tra loro. Antica o moderna, laica o religiosa, aristocratica o democratica, l’intera traiettoria della società occidentale, radicata nelle società agricole nate diecimila anni fa, si è fidata sulla domesticazione della vita selvatica, sullo specismo, sull’antropocentrismo e sull’assoggettamento delle culture “barbare”, “selvagge” e “primitive”, tutte ritenute sottosviluppate e “animalesche” nella loro presunta mancanza di razionalità e civiltà. Portando queste perniciose ideologie alle estreme conseguenze, le moderne società europee hanno poi identificato nel maschio bianco capitalista il modello perfetto di “civiltà”, e si sono lanciate nell’impresa sconsiderata e tracotante di “dominare” la natura.

Ancora oggi ci si domanda se Marx possedesse o meno una coscienza ambientalista, ma senza dubbio era uno specista e aveva assimilato un paradigma dualistico che ha poi viziato le tradizioni progressiste e di sinistra fino ai giorni nostri. La sinistra continua a trascurare i temi del veganismo e dell’animalismo, oppure li denigra facendo mostra di imbarazzante ignoranza e compiaciuta ostilità. Talune riviste della sinistra liberale come “The Nation”, ad esempio, pubblicano feroci invettive contro lo sfruttamento dei lavoratori negli allevamenti e mattatoi industriali, senza però fare il minimo accenno alle condizioni infinitamente peggiori degli animali, rinchiusi in massa, torturati senza pietà e smembrati vivi. Di segno completamente opposto, invece, l’eccellente libro di Gail Eisniz, “Slaughterhouse”, che documenta lo sfruttamento di animali e umani allo stesso modo nelle stanze dei mattatoi, dimostrando che la sadica violenza inflitta dai lavoratori agli animali sul posto di lavoro esplode poi anche nella violenza domestica.

Emblematico della chiusura mentale imperante nelle tradizioni di sinistra è il caso di Michael Albert, noto teorico anarchico e cofondatore delle riviste << Z Magazine >> e << Z Net >>. In un intervista a una rivista per i diritti animali, Albert ammette: “Quando penso ai movimenti sociali che si battono per un mondo migliore, non mi vengono mai in mente i diritti degli animali. Onestamente non considero i diritti animali alla stessa stregua dei diritti di movimenti femministi, latinoamericani, giovanili e via dicendo [ … ]. Probabilmente sarebbe necessario un dibattito di ampio respiro sui diritti animali e le azioni conseguenti, ma francamente non mi paiono urgenti quanto fermare la guerra in Iraq o battersi per la settimana lavorativa di trenta ore”.

Anche se non ci aspetta certo che un suprematista umano come Albert consideri la sofferenza animale neanche lontanamente paragonabile a quella umana, è sconcertante che si possa dare la priorità a dieci ore settimanali di sfruttamento rispetto alla lotta per liberare gli animali dalle prigioni degli allevamenti intensivi, che portano sempre a una morte orribile, un inferno di sofferenza che però concede ai lavoratori il pasto serale. Albert tradisce un’indifferenza impressionante ma tipica della sinistra verso l’olocausto animale, e non ha la visione olistica per cogliere la profonda connessione tra diritti degli animali, società sostenibili e prosperità degli ecosistemi.

Gli anarchici criticano l’autorità, la centralizzazione e le strutture gerarchiche, ritenute antitetiche alla libertà umana, e hanno sempre esecrato i marxisti e i socialisti per aver riprodotto gerarchie repressive e dinamiche di potere nelle burocrazie stataliste. Malgrado l’aspra critica verso l’autoritarismo di sinistra, tuttavia, la considerazione degli anarchici nei riguardi degli animali si è rivelata altrettanto discriminatoria, retriva e gerarchica di quella degli altri radicali, ed è così ancora oggi, ad eccezione delle subculture anarchiche vegane che propendono per la liberazione totale.

Esempio di specista anarchico è lo scrittore “eco-anarchico” o “socio-ecologico” Murray Bookchin. Agli inizi degli anni cinquanta. Bookchin pubblicò opere pionieristiche di critica all’agricoltura industrializzata, analizzando le catastrofi ambientali che andavano manifestandosi e denunciando i pericoli della sempre maggiore presenza della chimica nella catena alimentare. Più in generale l’autore esaminava l’illusorietà e gli esisti devastanti dell’antropocentrismo occidentale, sfociato poi nel moderno progetto di “dominio” della natura: non essendo possibile vivere in contrasto con le leggi della natura, l’imperativo, il vero obiettivo è dunque capire come “armonizzare” società e natura. Tuttavia, costruire delle relazioni complementari con la natura, da sostituire a quelle di tipo antagonistico, è praticamente impossibile nelle società di mercato, fondate sull’imperativo del profitto e della crescita contrari tanto alla libertà umana quanto all’equilibrio ecologico. Pertanto la crisi ecologica è anche una crisi sociale, provocata da sistemi sociali irrazionali e distruttivi, e richiede dunque una soluzione sociale, con l’abolizione del capitalismo e del dominio gerarchico in generale e la nascita di una federazione di democrazie decentrate che “ricostruiscano la società”, consentendo a cittadini autonomi di forgiare società razionali libere ed ecologiche.

Sebbene Bookchin avesse individuato la correlazione socio-ecologica, egli non seppe cogliere la profonda rilevanza del veganismo e della liberazione animale per un futuro di libertà. E condannò la meccanizzazione agraria per le ripercussioni sulle piccole aziende agricole, sulla terra e sulla catena alimentare, non per il suo terribile impatto sulle sofferenze animali dentro i sistemi di allevamento intensivo. Nell’illustrare la sua idea di società ecologica, Bookchin affronta con leggerezza il tema dell’uccisione di animali per procacciarsi il cibo, per la caccia e per altri scopi umani; così facendo ripropone le posizioni della sinistra, che non riesce a sottrarsi al condizionamento sociale specista e a comprendere che anche gli animali non umani, come quelli umani, preferiscono la libertà, la felicità e la vita alla cattività, alla sofferenza e alla morte.

Come Marx anche Bookchin accoglieva la visione cartesiano-meccanicistica degli animali come creature stolte, prive di qualsiasi coscienza o vita sociale complessa. Secondo Bookchin gli animali appartengono al mondo non riflessivo della “prima natura”, insieme con le pietre, gli alberi e altri oggetti non senzienti, mentre il mondo autocosciente e creativo della “seconda natura” è appannaggio dei soli umani: essendo l’evoluzione sociale emersa dall’evoluzione biologica, soltanto gli umani evolvono dall’istinto e dalla mera sensazione all’autocoscienza, al linguaggio e al raziocinio”. Di conseguenza, Bookchin rigetta fermamente il concetto di “diritti” animali, per adottare la tradizionale visione razionalista e del contratto sociale in base alla quale solo gli esseri in grado di parlare, ragionare e barattare obblighi morali possiedono dei diritti. Una volta preclusa arbitrariamente la nozione di diritto, a riempire il vuoto interviene l’idea di benessere animale.

L’”illuminismo” dell’intera sinistra non riesce ad emanciparsi da quel fallimento etico che è il concetto di benessere animale, ossia quell’alibi ideologico usato da industrie agricole, mattatoi, allevamenti di animali da pelliccia e vivisezionisti per legittimare la tortura e il massacro spacciandoli per un “trattamento” umano. Così la sinistra si allinea all’ideologia di massa e alla propaganda industriale allorché giustifica la barbarie ricorrendo ad un disonesto discorso etico, e la posizione più avanzata che riesce ad assumere è di trattare “bene” gli schiavi, senza però riconoscere nella schiavitù in sé un male”.