Fonte: Asterios Editore - 2020
La Seconda Guerra mondiale ha creato le condizioni cha da allora hanno foggiato il capitalismo e provocato la Grande accelerazione nelle sue dinamiche ecologicamente distruttive.
Pubblichiamo, dal libro di Ian Angus, Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra * (Asterios Editore, 2020), il Capitolo IX: Guerra, lotta di classe e petrolio a buon mercato, dove la guerra e le sue conseguenze vengono considerate come una fase di transizione tra due epoche. Questa è la prima parte.
Le decine di milioni di morti delle due Guerre mondiali hanno dato luogo a decine di trilioni di dollari di investimenti redditizi nella enorme ricostruzione di case e industrie distrutte, nonché nel riarmo; ossia più di un milione di dollari per cadavere.
Darko Suvin [1]
L’abitudine di usare gli eventi storici come spartiacque temporali, può distrarre dal contenuto reale di quegli eventi. Per esempio, quando si dice che l’Anthropocene è iniziato dopo la Seconda Guerra mondiale, di solito vogliamo dire che è iniziato dopo il 1945, quando bisognerebbe piuttosto sottolineare che il suo avvento ha fatto seguito ad uno dei conflitti più devastanti, micidiali e disumani della storia.
Questa è una distinzione importante, perché la guerra non costituisce solo un passivo spartiacque tra Olocene e Anthropocene. La Seconda Guerra mondiale ha creato le condizioni cha da allora hanno foggiato il capitalismo e provocato la Grande accelerazione nelle sue dinamiche ecologicamente distruttive. Questo capitolo considera la guerra e le sue conseguenze come una fase di transizione tra due epoche.
I profitti della guerra
Lo sviluppo del capitalismo è segnato dall’inizio del XIX secolo da una dipendenza sempre più marcata dai combustibili fossili, ma il ritmo di crescita e trasformazione dell’economia aveva subito un rallentamento con la Grande Depressione degli anni ‘30, prima di essere interrotto dalla Seconda Guerra mondiale. Dato il bisogno intrinseco del capitalismo non solo di crescere, ma di crescere più velocemente, un fenomeno come la Grande accelerazione si sarebbe forse prodotto anche se non ci fossero state la crisi e la guerra. Di fatto, la peggiore depressione della storia del capitalismo e la guerra più devastante di tutti i tempi hanno preparato il terreno ai cambiamenti economici e sociali che hanno proiettato il sistema Terra in una nuova e pericolosa epoca.
È impossibile esagerare l’orrore della Seconda Guerra mondiale, un conflitto nel quale le potenze in competizione hanno usato ogni possibile arma e risorsa in una lotta per il dominio globale. In sei anni, sessanta milioni di soldati e civili sono morti in combattimento o genocidi voluti dagli stati, e altre venti milioni di persone sono morte di fame o malattia. In URSS la guerra ha fatto ventisette milioni di vittime. In India, tre milioni di persone sono morte di fame a causa della cosiddetta «guerra segreta di Winston Churchill». Intere città del Giappone e dell’Europa sono state rase al suolo. Vaste foreste, milioni di ettari di terreni agricoli e siti industriali del valore di miliardi di dollari sono stati distrutti. Nell’agosto del 1945, l’arma più devastante mai concepita ha ucciso in pochi secondi più di centomila persone e ne ha condannato altre migliaia a una lenta agonia. Alla fine dei combattimenti, vaste regioni dell’Europa, Asia e Africa erano in rovina. Le loro infrastrutture economiche erano devastate. Il Regno Unito era in condizioni migliori rispetto al resto d’Europa, ma la sua economia era indebolita e le finanze dello stato gravemente compromesse. L’unico vero vincitore furono gli Stati Uniti. Risparmiata dai danni materiali del conflitto, la sua economia era più potente che mai. Grazie alla produzione di guerra, il PNL era più che raddoppiato: con quasi i due terzi della produzione industriale mondiale, gli Stati Uniti erano diventati una potenza egemonica planetaria [2].
Guadagni per il capitale monopolistico
Nel 1942, Henry Stimson, Segretario alla Guerra sotto Roosvelt, spiegava perché si era opposto all’imposta sui maggiori utili di guerra: «Se un paese capitalista vuole fare la guerra, gli ambienti imprenditoriali devono trarne profitti o non coopereranno» [3]. Così, mentre milioni di persone si facevano massacrare, una minoranza si arricchiva. Un scrittore socialista avrebbe descritto così la situazione nel 1946: «Per la plutocrazia statunitense, la Seconda Guerra mondiale fu l’impresa più redditizia di tutta la sua carriera. Essa ha fatto dei capitalisti americani i più ricchi padroni della storia» [4].
Le tendenze a lungo termine di cui abbiamo parlato nell’ottavo capitolo si sono consolidate durante questo conflitto.
Concentrazione del capitale. I due terzi delle commesse militari, per un totale di centosessantacinque miliardi di dollari, furono ottenute da cento aziende, e più della metà solamente da trentatré. Quasi l’80% delle fabbriche costruite con l’aiuto di fondi pubblici era gestito dalle duecentocinquanta più grandi corporation. Dopo la guerra, queste strutture furono vendute a meno di un quarto del loro costo di costruzione, e ottantasette aziende ne acquisirono i due terzi. La maggior parte delle commesse erano stipulate a costo maggiorato (cost-plus), dunque i profitti delle corporation erano garantiti. Durante la guerra, le società statunitensi realizzarono profitti per cinquantadue miliardi di dollari al netto delle imposte, accumulato riserve di capitale per un totale di ottantacinque miliardi e accresciuto la loro capacità produttiva di oltre il 50% [5].
Alla fine della guerra, il 31% dei dipendenti statunitensi lavorava in aziende con più di diecimila dipendenti, rispetto al 13% del 1939 [6]. Durante lo stesso periodo, la percentuale di imprese con meno di cinquecento dipendenti era passata dal 52 al 34%. Nel 1946, la commissione del Senato sulle piccole imprese riferiva che le duecentocinquanta più grandi corporation controllavano «il 66,5 % di tutti gli impianti utilizzabili e quasi il totale dei 39,6 miliardi di dollari detenuti prima della guerra dalle ben oltre 75.000 aziende manifatturiere esistenti» [7].
Le corporation americane hanno inaugurato il periodo post-bellico con un’immensa riserva di liquidità e infrastrutture produttive più nuove e più grandi di quelle dei loro potenziali concorrenti degli altri paesi.
Petrolio e automobile. Il petrolio aveva svolto un ruolo importante nella Prima Guerra mondiale; nella Seconda, il suo ruolo fu determinante:
Più che in qualsiasi conflitto precedente, le armi alimentate a petrolio (carri armati, aerei, sottomarini, portaerei, blindati per il trasporto truppe) hanno dominato i teatri delle operazioni belliche… La richiesta di carburante era esorbitante: per coprire cento chilometri, un battaglione blindato tipo aveva bisogno di oltre 40.000 litri di benzina; da sola, la Quinta Flotta degli Stati Uniti ha consumato 630 milioni di galloni di benzina nell’arco di due anni [8].
Su sette barili di petrolio usati dalle forze alleate, sei provenivano da pozzi situati negli Stati Uniti ed erano stati raffinati da compagnie petrolifere statunitensi [9]. Per garantire gli approvvigionamenti, il governo realizzò oleodotti destinati a portare il petrolio del Texas alle raffinerie del Nord-est, e, nel quadro di «una delle imprese industriali più grandi e più complesse della guerra», costruì decine di nuove raffinerie dotate di tecnologie avanzate, in grado di produrre carburante con un numero di cento ottani destinato agli aerei [10]. Dopo la guerra, la benzina ad alto numero di ottani avrebbe alimentato non solo gli impianti di produzione ad alto consumo di energia ma anche i motori V8 delle auto dalle dimensioni sproporzionate progettate a Detroit.
Sarebbe rimasto abbastanza petrolio per l’economia del dopoguerra, o per un’altra guerra? Nessuno conosceva allora l’entità delle riserve racchiuse nel sottosuolo degli Stati Uniti. Nel 1943, il governo fece quindi il necessario per evitare eventuali carenze corrompendo il monarca assoluto Ibn Saud, affinché concedesse i diritti esclusivi sul petrolio saudita a un consorzio di società petrolifere statunitensi.
Nel 1942, la produzione di auto, camion e pezzi di ricambio era interamente cessata negli Stati Uniti, ma le case automobilistiche continuavano a prosperare: lo stato versò loro circa ventinove miliardi di dollari per la produzione di più di tre milioni di jeep, camion, motori per areoplani, carri armati, veicoli blindati, mitragliatrici e bombe. Alla fine della guerra, le loro fabbriche non solo erano intatte ma persino modernizzate e ampliate.
Chimica industriale. Durante la Seconda Guerra mondiale, il governo degli Stati Uniti investì più di tre miliardi di dollari nella costruzione e nell’ingrandimento di impianti petrolchimici incaricati di produrre composti azotati per esplosivi, gomma sintetica per pneumatici, nylon per paracadute, etc. Dopo il conflitto, le compagnie petrolifere e chimiche poterono acquistare questi impianti al ribasso: ad esempio, una fabbrica del valore di due miliardi di dollari fu venduta a 325.000 dollari (a Standard Oil), un impianto da diciannove milioni fu venduto a dieci milioni (a Monsanto) e un complesso industriale da trentotto milioni fu venduto a tredici milioni (a DuPont) [11].
Questi omaggi gettarono le basi dell’era della plastica, in cui DuPont avrebbe brandito il suo slogan «Better Things for Better Living Trough Chemistry» senza coprirsi di ridicolo. Secondo lo storico Kevin Phillips, «le commesse di guerra hanno rivoluzionato» le tecnologie di produzione, cosicché «i dirigenti di un numero crescente di aziende hanno iniziato a vendere prodotti la cui commercializzazione sarebbe stata impossibile prima di Pearl Harbor» [12]. Quasi inesistente prima della guerra, l’industria della plastica è diventata la terza più grande industria manifatturiera degli Stati Uniti, posizione che occupa ancora oggi.
(Continua)
Note
* Titolo originale: Facing the Anthropocene. Fossil Capitalism and the Crisis of Earth System, Monthly Review Press, New York, 2016, (Trad. it. Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra, Trieste, Asterios Editore, 2020, a cura di Giuseppe Sottile e Alessandro Cocuzza, traduttori: Alessandro Cocuzza, Vincenzo Riccio, Giuseppe Sottile).
[1] Darko Suvin, In Leviathan’s Belly: Essays for a Counter-Revolutionary Time, Rockville (MD), Wildside Press, 2013 edizione Kindle, pos. 1825.
[2] E. J. Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991, Londra, Abacus Books, 1995, p. 258, (trad. it. Il secolo breve, Rizzoli, 1997).
[3] David M. Kennedy, Freedom from Fear: The American People in Depression and War, 1929-1945, New York, Oxford University Press, 1999, p. 622.
[4] J. Thorne, «Profiteering in the Second World War», Marxists Internet Archive. https://www.marxists.org/history/etol/newspape/fi/vol07/no06/thorne.htm. J. Thorne avrebbe potuto essere lo pseudonimo di Frank Lovell o Art Preis.
[5] George Lipsitz, Rainbow at Midnight: Labor and Culture in the 1940s, Chicago, University of Illinois Press, 1944, p. 57; James Heartfield, Unpatriotic History of the Second World War, Londra, Zero Books, 2012, p. 36.
[6] George Lipsitz, op. cit. p. 61.
[7] Citato in Art Preis, Labor’s Giant Step: Twenty Years of the CIO, New York, Pioneer Publishers, 1964, p. 301.
[8] Michael T. Klare, Blood and Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Dependency on Imported Petroleum, New York, Henry Holt, 2004, p. 28.
[9] Timothy Mitchell, Carbon Democracy: Political Power in the Age of Oil, London, Verso, 2011, p. 133-135; Michael T. Klare, op. cit., p. 28.
[10] Daniel Yergin, The Prize: The Epic Quest for Oil, Money and Power, New York, Simon & Schuster, 1991, pp. 383, 384 (trad. it. Il premio. L’epica corsa al petrolio, al potere e al denaro, Sperling & Kupfer, 1991).
[11] Peter H. Spitz, Petrochemicals: The Rise of an Industry, New York, Wiley, 1988, pp. 153, 154, 228.
[12] Kevin Phillips, Wealth and Democracy: Political History of the American Rich, New York, Random House, 2002, p. 77.
Ian Angus
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