Fonte: Enrico Giannetto - 10.07.2021

Riflettere sulle città, sulle loro forme e sulle loro strutture è riflettere sulle varie forme e strutture di insediamenti umani stabili ed estesi sulla Terra. Le città rappresentano, quindi, quanto di più specifico è della nuova forma di vita umana che si instaurò nel neolitico, in molte parti della Terra, a seguito della rivoluzione agricola che portò da una vita nomade a una vita stanziale.

Interrogarsi, perciò, sull’origine e sul senso delle città è interrogarsi su questa grande trasformazione della vita umana che ancora oggi la caratterizza. Questa trasformazione, indotta dal dominio sistematico tecnico umano della Terra e della sua produttività di cibo, come è noto, comportò cambiamenti su tutti i fronti dell’esistenza umana: origine della zootecnia, origine della proprietà privata, origine del denaro, origine del potere religioso-politico, origine della cultura, origine dei culti sacrificali, origine del patriarcato, origine del dominio sistematico dell’uomo sugli altri animali, su altri uomini e sulla donna. [1] La stessa filosofia nasce come pratica di un pensiero verbale quale tardo prodotto del neolitico e si sviluppa sulla sua cultura scritta. Come si può quindi sviluppare una filosofia della città, filosofie delle città? Piuttosto, si può spiegare la filosofia in relazione a quelle trasformazioni. La filosofia greca nacque come filosofia della città: implicitamente rispecchia le sue strutture (politiche, sociali, economiche, architettoniche, urbanistiche), anche se, a loro volta, queste solitamente riflettono quelle presunte del cosmo.

Le strutture di una città determinano le strutture di una civiltà. Il poeta Rabindranath Tagore, premio Nobel nel 1913, ci fornisce una chiave di lettura della genesi delle differenze di civiltà, trattando della civiltà indiana come contrapposta a quella greco-occidentale, e una comprensione del perché i processi di razionalizzazione specifici della filosofia greca e poi della modernità occidentale abbiano potuto avere luogo nell'oriente indiano solo tardi e a partire dal processo di colonizzazione politico-culturale da parte dell'occidente.

Scrive Tagore all'inizio del suo Sadhana (1913), [2] in cui raccoglie le sue idee sull' "essenza" della vita:

La civiltà dell'antica Grecia si sviluppò dentro le mura cittadine, e in realtà tutte le civiltà moderne hanno avuto la loro culla di calce e mattoni. Queste mura lasciano una traccia profonda nella mente degli uomini, introducendo, nel nostro modo di vedere, il principio del divide et impera che genera in noi l'abitudine di assicurarci tutte le nostre conquiste, fortificandole e separandole l'una dall'altra. Noi separiamo nazione da nazione, scienza da scienza, l'uomo dalla natura...la nostra civiltà indiana, nata nelle selve, assunse il carattere particolare dell'ambiente originario. Circondata dalla grande vita della natura, da questa nutrita e rivestita, fu nella più stretta e costante corrispondenza con i suoi svariati aspetti...Per il continuo contatto con lo sviluppo vivente della natura, la mente dell'uomo restò immune dalla brama di allargare il suo dominio elevando attorno alle sue proprietà mura di confine. Egli mirava non a possedere, ma a comprendere, ad ampliare la sua coscienza sviluppandosi col e nel suo ambiente.

Sono gli spazi in cui discutiamo, in cui viviamo che già condizionano le nostre relazioni nella Natura, dalla quale artificialmente e illusoriamente ci separano. È l'arte, la techne architettonica e urbanistica che determina le condizioni del nostro esistere nella Natura e quindi le condizioni (spaziali) di possibilità della sua razionalizzazione. Tali spazi-prigioni (un Ge-stell architettonico e urbanistico) hanno comunque dei punti di frattura: la chiusura totale è impossibile, l'aria pervade invisibile i nostri ambienti, la luce del sole filtra attraverso le sbarre delle finestre, e il cielo e il suo aperto comunque ci appaiono e ci avvolgono.

Per l'uomo orientale indiano, invero, - come per altri non-occidentali, "primitivi" etc. -, formato anche all'ideale jainista dell'a-himsa (della non-violenza), ovvero del rispetto di tutta la Natura vivente che si attua anche nel più radicale vegetarianesimo, il dominio della Natura aveva assunto e ancora in qualche caso assume dei limiti e dei vincoli molto stringenti, che fanno sì che esso non superi di molto le più strette necessità della sopravvivenza. Il riconoscimento di tale impedimento etico alla formazione ideologica e praticamente ipostatizzata di un mondo umano, completamente separato dalla Natura, di una "seconda natura" artificiale, è legato all'assenza di una razionalizzazione urbana e architettonica che avrebbe fornito all’uomo un a priori spaziale di separazione dalla Natura. Questo ci suggerisce una soluzione della questione del perché una filosofia contrapposta al, e separata dal, sapere mitico e religioso, sia nata solo in Grecia.

Così, la nascita della filosofia greca può essere correlata con forme di vita proprie di una civiltà neolitica sì, ma con un avanzato grado di urbanizzazione, come mostrato anche dagli studi di Vernant. [3]

Una città è un modo di vivere di una comunità umana: in Grecia la polis si fonda etnicamente sulla parzialità del genos che ha un ethos come sua dimora collettiva, a Roma è l’universalità della legge a fondare una civitas. [4] Tuttavia, questa considerazione di differenze pure importanti non coglie ancora profondamente la questione della città. La città è una forma di ethos collettivo: la filosofia della città è quindi un’etica e l’etica è prima di tutto un modo dell’abitare, del dimorare. La città è, pur nella sua materialità, la costituzione di uno “spirito oggettivo”, il segno della presenza cultura umana. La città è un modo di abitare umano in un mondo umano, in un complesso di artefatti umani, che costituisce uno spazio separato dalla Natura.

Le città sono insediamenti umani vicino a terreni circostanti da coltivare, ma costituiscono soprattutto il segno della necessità di un’attività sociale collettiva umana che non è il mero lavoro dei terreni, che si avvale, invece, soprattutto di forza-lavoro animale. Sappiamo che nucleo centrale o superiore-dominante delle città antiche è il tempio o il palazzo del potere, che è sacerdotale-regale, legato alle stesse attività rituali del tempio. Le città sono allora insediamenti umani legati originariamente ad attività religiose rituali, ai culti sacrificali animali.

La necessità di forza-lavoro animale per l’agricoltura portò all’allevamento umano di altri animali che aveva come effetto subordinato la produzione di carne e l’imporsi di una dieta sistematica carnea. Tuttavia, l’uccisione dell’animale innocente allevato e addomesticato, non perpetrata per difesa della propria vita in una lotta o nella caccia, aveva bisogno, per una sopportazione e una rimozione della colpa dell’uccidere per mangiare, di una legittimazione ideologica, che non poteva che essere fornita dalla religione. La religione si trasforma così in una “coltivazione” sistematica del favore degli dèi con dei culti sacrificali animali, con l’attribuzione agli stessi dèi della richiesta dei sacrifici. Nasce così la necessità della figura del sacerdote che è colui che compie i sacrifici e di uno spazio sacro, quale terreno inviolabile da qualsiasi pratica agricola, contrapposto allo spazio profanabile dei terreni della coltivazione, quale spazio in cui si compiono i sacrifici animali apparentemente dedicati agli dèi.

Il tempio, quale prima cellula della città, è uno spazio sacro, e la città stessa è l’estensione dello spazio sacro a una serie di terreni circostanti abitati dagli attori umani di questi rituali alla radice dell’unità e della coesione sociale. La delimitazione di una città, i suoi confini e le sue mura sono prima di tutto la delimitazione di uno spazio sacro esteso, quale terreno inviolabile con l’agricoltura, dedicato a un’attività rituale religiosa. La città sacra di Delfi, tutta tempio, è l’archetipo della città come spazio sacro: la città è una comunità religiosa, una comunità basata sullo scambio e sulla ripartizione della colpa.

Norman Oliver Brown [5] effettua una ricerca sull’antropologia del denaro e la lega a questa visione psicoanalitica. In particolare, si riferisce alle origini del denaro. Quale è stata la prima forma di denaro istituita nelle società umane? Secondo Brown, il denaro emerge come modalità di scambio tra le persone solamente con la rivoluzione neolitica, con l’introduzione dell’agricoltura e della zootecnica. Le origini del capitalismo stanno sostanzialmente nella stessa produzione del denaro, è la stessa origine di quell’evento traumatico che ha caratterizzato la separazione dalla Natura, che ha caratterizzato l’uomo come animale nevrotico, che ha caratterizzato l’uomo nei termini di un’organizzazione della società di tipo patriarcale e della sessualità di tipo genitale. È tutto un unicum, che nella visione di Brown diventa ancora più chiaro che nell’analisi di Marcuse e di Fromm, perché risale alle radici antropologiche.

In particolare, le prime forme di denaro quali erano? Erano date da bestiame, era il bestiame l’unità di scambio e questo bestiame lega la questione del denaro e la questione della zootecnia alla questione del sacrificio, della religione come culto sacrificale, che usava il bestiame per il sacrificio e in qualche modo diventava l’unità di scambio tra gli uomini, laddove il sacrificio aveva questo ruolo fondamentale nell’ambito della religione del neolitico.

Il denaro ha questa caratteristica, che lo lega alla violenza del culto sacrificale, e ciò ci fa capire ancora di più come il Cristianesimo, che si era scagliato contro i culti sacrificali, aveva rivelato quest’altro aspetto del rimosso, di violenza e della pulsione di morte dominante nell’organizzazione delle società dal neolitico in poi: la violenza non solo a livello della natura, nella sua caratterizzazione di terra che viene coltivata, ma anche nella caratterizzazione della violenza contro gli altri viventi, sia nella forma della zootecnica, che nella forma dei culti sacrificali.

Ancora una volta qui ci può essere un legame con la prospettiva di René Girard (1923-2015): [6] si tratta della rivelazione antropologica della violenza fondamentale costitutiva della società, di cui in parte parlerà, in altri termini. Nella storia del Cristo messo in croce, c’è la manifestazione del meccanismo del capro espiatorio, della violenza umana nei confronti degli altri animali e della Natura, che si legittima nel rito sacrificale nel Tempio attaccato da Gesù secondo i Vangeli (Gesù viene consegnato dal sommo sacerdote ebreo ai romani come ribelle per questa violazione blasfema dei riti sacrificali nel Tempio). La dialettica della storia è certo complessa, perché questa rivelazione, da parte di Gesù e del Cristianesimo originario, del rimosso dell’umanità, nascosto e legittimato dalla religione ebraica sacerdotale dominante, è poi nuovamente ricoperta da nuove rimozioni, repressioni all’interno della storia del Cristianesimo occidentale successiva. Tuttavia, qui non c’è un riferimento al sacrificio di un uomo all’interno della società come in Girard, c’è invece un riferimento al sacrificio di altri esseri viventi animali e al modo distorto della relazione tra l’uomo e la Natura.

Il denaro, quindi, ha questa funzione simbolica mortale, sacrificale. E questo, dal punto di vista antropologico, si radica ancora di più in questa questione, in cui si vede il dominio della pulsione di morte.

Più profondamente, Norman Oliver Brown, che riprende Levi-Strauss, fa notare che “in nessun luogo l’istituzione del dono di Natale è così elaborata come nell’America capitalistica, come se la psicologia del “prendere” che domina durante tutto l’anno fosse cancellata ed espiata in un rito annuale che si rifà alla psicologia arcaica del dare”: la psicologia dell’economia arcaica del dono si basa sulla colpa, perché “ciò che il donatore vuole perdere è la colpa”. Si comprende il dono nella sua forma arcaica come il tentativo di ripartizione della colpa nella ripartizione del cibo carneo nel rito sacrificale collettivo in cui si uccidevano gli animali per mangiarli: ucciderli ritualmente e collettivamente ripartiva la colpa e così mangiarli insieme. La fondazione della società umana è sacrificale, nella violenza sulle altre specie: lo scambio di doni è primitivamente scambio di cibo sacrificale, e per questo la prima forma in cui si incarna il denaro come equivalente di scambio è materialmente l’animale da sacrificare, della cui vita ci si è impossessati. Così, la ricchezza costituita dall’accumulo di denaro è accumulo di vite di cui ci si è impossessati per ucciderle e mangiarle, e quindi accumulazione di colpa: così con il primo tipo di scambio, l’origine del commercio nel dono è sacrificale, è colpevole scambio di colpe; così la società si costituisce e si riunisce nel tempio che è pure mercato, come prima forma di società mercantile-borghese con una borghesia che è l’umanità intera che scambia qualcosa che non è suo, come la base di un’associazione per delinquere costituita da un’umanità intera mafiosa che si ripartisce i delitti (i “lavori”) e le colpe. Ogni debito di denaro è un debito della colpa, è un peccato originario.

Ma poi venne Yeshua (Gesù), che attaccò il sistema sacrificale-mercantile del tempio, che predicò con Osea “misericordia, non sacrifici (di vite animali)”, che annunciò un’altra società, basata su un altro tipo di dono, sul dono della propria vita e non sul dono sacrificale-mortale di altre vite, per cui lo stesso nostro nascere come essere umani poteva essere qualcosa di diverso del dono di una vita come strumento di morte, ma come dono effettivo di una vita che accumula vita e non morte: questo è il senso del vero Natale. E istituì un altro tipo di pasto comunitario, una comunione basata non su altre vite uccise ma sul dono di sé agli altri che è l’amore, sul dono di sé costituito da un pane e da un vino che non comportano spargimento di sangue (è chiaro che il riferimento evangelico ai pesci non può che essere allegorico e che Gesù non li mangiò e non li distribuì: trasformò i pescatori in “pescatori di uomini; poteva dire “questo è il mio corpo”, nel senso arcaico secondo il quale l’uomo è ciò che mangia, solo se il suo cibo era solo pane e non carne, poteva dire “questo è il mio sangue” se la sua bevanda era solo vino e non sangue animale). Dono di Natale dovrebbe quindi essere dono d’amore, di vita, dono di sé, e non dono di denaro, dono di commercio, dono di colpa, di morte e di sacrificio di altre vite.

L’uomo occidentale contemporaneo non comprende più questo cambio del senso cristiano del dono e continua a vivere nell’economia arcaica del dono del delitto e della colpa ma senza più provare colpa alcuna, avendo perso anche qualsiasi senso di colpa, nella sua irredimibile dannazione consapevolmente vissuta nella gioia di accumulare doni di morte, di una economia della morte che oggi domina.

La città delimita uno spazio intorno al tempio: la vita collettiva si organizza intorno a ciò che accade nello spazio sacro del tempio, e la città costituisce a sua volta uno spazio sacro dilatato come spazio della vita sacralizzata della comunità.

L’istituzione della città è effettivamente l’insorgere di un mondo umano alternativo alla Terra-Natura, che in essa viene negata o ridotta a mero ornamento di una realtà umana. La città opera una rimozione fisica della Natura, la realizza ipostaticamente: si separa dal luogo del lavoro agricolo e anche dal luogo dell’allevamento zootecnico degli animali, cioè dai luoghi della produzione del cibo, per nasconderne l’origine e simulare un’autonomia umana dalla madre Natura; è piuttosto la comunità che vive del sacrifico e della ripartizione della sua colpa.

Nel momento in cui è permessa la macellazione laica degli animali, le case diventano altri luoghi sacri dove si compiono per delega i sacrifici: la città è allora il de-centramento del sacrificio per scopi alimentari, la secolarizzazione della pratica sacrificale che si compie in tante case sacre-laiche, in uno spazio sacro che si amplia. I grattacieli sono le nuove cattedrali secolarizzate che si ergono verso il cielo e in cui si compiono i sacrifici secolarizzati. La città è spirito oggettivo, sublimazione distruttiva della Natura: la nozione di anima separata e indipendente dal corpo può sorgere solo nella cultura della città che si è staccata dal corpo della Natura.

Gli uomini non abitano più la Terra ma abitano in case che sono templi secolarizzati, “sconsacrati”, dove ora si accumulano, si accatastano le ricchezze e le proprietà individuali, ma anche che materialmente costituiscono una reificazione dell’accumulo del denaro, quando la prima forma “monumentale” della ricchezza è quella di un bene immobile, ben fondato, duraturo, tanto più solido e più grande, tanto più simile a un tempio, quanto maggiore ricchezza rappresenta. Sono forme cristallizzate di denaro accumulato e quindi rappresentano accumulazioni di colpa: da qui anche la grande angoscia che rappresentano gli spazi grandi di case grandi, e il tentativo di riempire il più possibile. Le città sono depositi di sublimazione accumulata, monumenti di colpa ed espiazione accumulate, colpa cristallizzata; ogni generazione ha in eredità case come un debito da pagare con un’ulteriore accumulazione di monumenti per altri figli, monumenti illusori per sconfiggere la morte.

Se vivere in città mantiene questo senso originario, possiamo comprendere tutto quello che abbiamo perduto.

Abbiamo perso il senso della Natura, il senso dell’essere della Natura. Oggi, sempre di più, specialmente nelle grandi città, viviamo in un mondo puramente umano: abitiamo in case di cemento, percorriamo strade di catrame attraverso macchine di metalli o di latta, o rotaie attraverso treni metallici; lavoriamo in palazzi di cemento, metallo o vetro e che si ammassano sempre più stretti e sempre più alti, immersi nel grigiore dello smog delle fabbriche e delle industrie. Viviamo, cioè, in un mondo di prodotti dell'uomo, in cui tutto sembra essere fatto dall'uomo; un mondo di macchine meccaniche, elettriche, termiche, nucleari, tutte prodotte dall'uomo. L’uomo ha prodotto un mondo di artefatti umani che offusca il mondo della Natura, gli si è sovrapposto come una “seconda falsa natura”, che sembra orientare “naturalmente” le sue scelte violente di vita. Abbiamo fagocitato la Natura tutta, non solo gli altri animali.

Gli altri viventi, le piante, gli altri animali sono “poveri di mondo” nel senso di Heidegger, [7] ma solo nel senso di un mondo trasformato dagli uomini in funzione di un significato concettuale associato ad una utilizzabilità e nel senso dell’espropriazione del loro ambiente proprio autentico esercitata violentemente dall’uomo: i vari prodotti chimici, con cui gli uomini trattano gli alberi e le piante delle terre coltivate, servono ad escluderne una fruizione da parte degli altri animali; gli abbiamo tolto il loro ambiente di vita. Gli altri viventi “non hanno mondo” nel senso dell’avere come possesso-dominio, ma “sono Natura” nel senso esistenziale dell’essere: non hanno rinunciatoal loro essere-nella-Natura almeno nella misura in cui non esercitano una violenza fagocitatrice e predatrice degli altri esseri.

E' raro vedere il cielo libero da smog o da luci artificiali: non riusciamo più a vedere che poche stelle, è quasi impossibile vedere il disco della Via Lattea, la galassia a cui appartiene il nostro sistema solare. Nei posti in cui il clima non è ben temperato, d'inverno è difficile quasi vedere il sole o la luna. E' raro vedere ampie distese di verde, di alberi e piante – se non forse di corsa da un treno, o in cartoline, o in documentari o nei cartoni animati per bambini. E' raro vedere animali, se non quelli acquistati e tenuti nelle case, come cani e gatti, se non gli uccelli che l'uomo non riesce a controllare e che ancora trovano rifugio in quei pochi alberi che esistono in città: ci sono miriadi di specie di esseri viventi e noi ne conosciamo direttamente solo poche. Anche gli animali, di cui gli uomini si cibano, sono conosciuti solo in forma di scatolette in cui sono ridotti, oppure della cui pelle o pelliccia si vestono; sono conosciuti solo in ritagli; e anche le piante sono conosciute solo dai frutti che mangiamo. Gli animali mangiati sono animali allevati e selezionati dall'uomo e sono considerati, come già detto, prodotti umani come i prosciutti o i salami cui li riducono; le piante mangiate sono piante coltivate e selezionate dall'uomo, ora anche geneticamente modificate, cresciute solo dove quando e come vuole l'uomo, e sono considerate quindi come prodotti umani.

La Natura viva, selvaggia (la reale Natura Naturans, non naturata dall’uomo), come le piante o le foreste incolte, non c'è più nel mondo “civilizzato”, se non in parchi ed oasi stabili e confinati dall'uomo, come in parte dell'Africa o dell'Asia o dell'America Latina. Gli animali vivi, selvaggi, liberi, non ci sono più se non in parchi, oasi, zoo o circhi, dove pure sono confinati dall'uomo. [8] Oggi, perlopiù, non viviamo che in un mondo umano, prodotto o modificato dall'uomo, a uso e consumo dell'uomo, fatto a immagine dell'uomo. L'uomo, animale neanche tanto forte o potente (impotente naturalmente di fronte a potenze più grandi), con le armi violente della sua “cultura”, si è fatto padrone della Terra, ha sfruttato e distrutto la Natura della Terra, trasformandola completamente, con mezzi e metodi che, dalla modernità della rivoluzione scientifica e industriale, sono sempre più potenti ed efficaci nella distruzione: gli animali e le piante gli appaiono solo morti, fatti a fette nei suoi piatti, eventualmente dopo essere passati dai luoghi dove vengono tenuti prigionieri, ovvero in allevamenti, fattorie e industrie e poi essere uccisi e sterminati nei macelli e nei mattatoi. [9] Gli animali sono scomparsi quasi del tutto ormai anche da quei luoghi in cui erano sfruttati per il lavoro faticoso, come nella coltivazione dei campi, o da quegli altri luoghi in cui erano fonte di divertimento nella loro umiliazione, i circhi.

Se il mondo è un mondo umano, un prodotto umano, quale prassi etica mai potrà avere l'uomo verso suoi oggetti-macchine? Quale prassi etica mai potrà mettere in atto verso viventi che non ha mai conosciuto, che non ha mai visto vivi, con cui non ha mai avuto rapporti di alcun tipo, neanche di lavoro o di scherno? Quale prassi etica mai potrà avere verso degli esseri che è come se fossero stati sempre morti come nel piatto, o prima nelle conserve alimentari da chissà quanto tempo? Quale prassi etica mai potrà avere verso degli esseri dei quali non ha mai sentito le grida di dolore strazianti, percepito l'angoscia mentre vengono uccisi, visto realmente la morte? Quale prassi etica verso quale Natura, se quello in cui vive è un mondo prodotto puramente umano? E prima ancora di avere una qualunque prassi etica, l’uomo non è più un effettivo esserci-nella-Natura. La stessa Natura dell’uomo risulta effettivamente rimossa, negata e resa impossibile.

Probabilmente, è questa la radice profonda di un processo che porterà nel Novecento alla posizione estrema di Heidegger: l’esperienza quotidiana dell’uomo non ha accesso alla Natura in sé; il mondo in cui siamo, costitutivo del nostro essere-nel-mondo, secondo Essere e Tempo, [10] è un mondo umano che si manifesta all’uomo in un’azione essenzialmente “economica”, all’uomo intento a procurarsi ciò che gli serve, un mondo che acquista un senso puramente umano nella sua utilizzabilità quale orizzonte agostiniano di beni transeunti e terreni. Heidegger fa riferimento a un mondo del lavoro generico, che non distingue fra lavoro agricolo della campagna e lavoro cittadino, per cui la campagna non può costituire un’alternativa alla città, perché il modo quotidiano di abitare dell’uomo in campagna è sempre caratterizzato dal suo considerare tutte le cose solo in quanto utilizzabili. L’essere umano per Heidegger non è un essere-nella-Natura, ma un essere-nel-mondo.

Fu un saggio del 1929 di Oskar Becker, che tratta Della caducità del bello e della natura avventurosa dell’artista, [11] a ricordare ad Heidegger che, al di là della quotidiana esperienza di utilizzazione di un mondo umano costituito per finalità umane, l’esperienza artistica permette di accedere a una Natura, come ciò che è semplicemente presente al di là dell’uso umano.

Ne L’origine dell’opera d’arte, [12] infatti, qualche anno dopo, Heidegger parla della possibilità di accesso alla Physis tramite l’esperienza artistica: l’arte è, invero, un operare del tutto diverso dal lavoro, un operare in cui le cose si presentano in un processo di de-funzionalizzazione rispetto al loro uso e alle finalità umane. L’opera d’arte, da un lato, è l’esposizione di un mondo umano, come il consacrare e il celebrare in cui si rivelano le stesse divinità; dall’altro lato, nell’aperto di questo mondo, l’opera lascia emergere la Terra. Il Mondo e l’abitare umano si fondano sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo: la Terra si presenta non nei termini di una materia scomponibile e calcolabile come nell’oggettivazione sperimentale tecnico-scientifica ma come l’indischiudibile auto-nascondentesi. Mondo e Terra si contrappongono ma si co-appartengono nell’opera d’arte che è la rivelazione dell’essere dell’ente e storicizzazione della verità che si mostra come bellezza. Non è possibile abitare un mondo senza la sostenutezza di questo nella Terra.

Così, nell’esperienza artistica l’essere umano si presenta non più solo un essere-nel-mondo ma piuttosto come un abitare-la-Terra che lo sostiene: poeticamente abita l’uomo, perché solo nella poesia si svela la Terra e quindi il senso dell’abitare, si svela la Physis nel suo puro splendore. Autentico è abitare-la-Terra, non abitare in una città.

Heidegger pensa anche la tecnica come rivelazione dell’essere, [13] ma questo non deve però implicare una de-responsabilizzazione dell’agire umano tecnico, che resta sempre e comunque violento ed eticamente condannabile, né deve ritenersi lo sviluppo tecnico quasi come una fatalità implicata necessariamente dall’essere come pure, a volte, sembra pensare Heidegger: la rivelazione dell’essere dipende, in una certa misura, dal nostro modo di essere-nella-Natura o di abitare-la-Terra, e da quanto questo nostro esserci è tecnicamente orientato oppure da quanto è poeticamente orientato nella "cura autentica" che nessuna cosa strumentalizza-utilizza, diversamente che in Essere e Tempo. Si pecca quindi già nel pensiero, in quanto questo è la guida e il riflesso di un certo modo di essere-nella-Natura o di abitare-la-Terra e di agire: pensare tecnicamente e strumentalmente, causalmente a partire dall’intenzione di produrre un certo effetto a nostro vantaggio, attraverso una concatenazione necessaria e logica di passi che ci assicurano il controllo e il dominio razionale delle cose, è già violare l’essere e gli enti, la Physis. Bisogna pensare poeticamente, porsi in quel domandare e in quel meravigliarsi continuo che nessuna risposta può acquietare e che ci induce all’ascolto continuo della Physis: è questo pensare eticamente, è questa la pietas del pensiero. Qui, forse per la prima volta, si presenta un'istanza etica effettiva in Heidegger. Nell’esserci tecnico prima o poi esperiremo la potenza distruttrice massima della Physis; nell’esserci poetico potremo continuare a esperire la potenza generatrice della Physis che si rivela.

Così, nei saggi Costruire abitare pensare e Poeticamente abita l’essere umano, [14] il nostro essere umano non è più compreso in termini di un essere-nel-mondo, ma concretamente non è altro che soggiornare-sulla-terra-volgendo-lo-sguardo-al cielo, non è che dimorare in questo frammezzo fra cielo e terra: guardando al cielo anche nella consapevolezza della nostra condizione di sofferenza e di miseria.

L’essere umano abita, per Heidegger, invero, il centro di una croce, in un simbolo quaternario in cui s’incrociano e si riuniscono cielo e terra e ciò che è mortale e ciò che è divino. Questo abitare dell’essere umano è poetico, [15] perché la poesia non è alienazione dalla realtà, ma è consapevolezza di un’esistenza autentica che va restaurata nella rammemorazione dell’essere per cui la relazione con le cose non può essere strumentale-tecnica, ma poetica nella realizzazione di un’unione simbolica.

Nel cielo, da sempre nell’esperienza umana, è custodita la rivelazione del divino: una rivelazione paradossale perché nella manifestatività del cielo il divino si rivela restando nascosto. La poesia, a sua volta come rivelazione, ci dà la misura della nostra esistenza che sta nel divino: non è l’essere umano la misura di tutte le cose, la misura della Terra e di tutte le cose in una prospettiva di geo-metrizzazione del mondo, legata alla agrimensura, alla delimitazione di proprietà private e di spazi sacri; ma è piuttosto il divino che ci dà la misura delle cose e di noi stessi, nel dimorare nella poesia della Natura, nella poiesis della Physis.


Note:

[1] E. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, Sestante for Bergamo University Press, Bergamo 2005, capp. 2 e 3.

[2]  R. Tagore, Sadhana - The Realisation of Life, Macmillan and Co., London 1913; tr. It. di A. Carelli, Sadhana. Reale concezione della vita, Carabba, Lanciano 1915.

[3] J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez le Grecs, Maspero, Paris 1965; tr. it. di M. Romano e B. Bravo, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino 1978.

[4] M, Cacciari, La città, Pazzini RN 2004, 2009.

[5] N. O. Brown, Life against Death. The Psychoanalytic Meaning of History, Wesleyan University, Middleton CT 1959; tr. it. di S. Besana Giacomoni, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano 1964, 1978.

[6]  R. Girard, La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972; tr. it. di O. Fatica & E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980; R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978; tr. it. di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983; R. Girard, Le bouc émissaire, Grasset, Paris 1982; tr. it. di C. Leverd & F. Bovoli, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987.

[7] M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik – Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Klostermann, Frankfurt am Main 1983; tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica - Mondo – finitezza - solitudine, Il melangolo, Genova 1999, § 42, pp. 230-232, § 47, p. 252.

[8] E. Fiorani, Selvaggio e domestico, Muzzio, Padova 1993.

[9] P. Singer, Animal Liberation, Avon Books, New York 1975, 1990; tr. it. di P. Cavalieri & E. Ferreri, a cura di P. Cavalieri, Liberazione animale, Milano, Mondadori 1991; J. Rifkin, Beyond Beef: The Rise and the Fall of the Cattle Culture, Kirkus Associate 1991, Plume, New York 1993; tr. it. di P. Canton, Ecocidio – Ascesa e caduta della cultura della carne, Mondadori, Milano 2001.

[10] M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W von Hermann, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger); tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, con aggiornamento bio-bibliografico di A. Marini 1976; nuova edizione italiana a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar (esemplare della baita) di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, di A. Marini, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006.

[11] O. Becker, Von der Hinfälligkeit des Schönen und der Abenteuerlichkeit des Künstlers. Eine ontologische Unterssuchung im ästhetischen Phänomenbereich, in Festschrift Edmund Husserl zum 70. Geburtstag. Max Niemeyer Verlag, Halle a. d. Saale, 1929; tr. it. di V. Pinto, Della caducità del bello e della natura avventurosa dell'artista, Guida Editori, Napoli 1998.

[12] M. Heidegger (1935-1936), Der Ursprung des Kunstwerkes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; trad. it. a cura di P. Chiodi, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, pp. 3-69; tr. it., con testo tedesco a fronte, a cura di G. Zaccaria, I. De Gennaro & M. Amato, L’origine dell’opera d’arte, Marinotti, Milano 2000; tr. it. a cura di A. Ardovino, Dell’origine dell’opera d’arte. Prima stesura (1931-1932), in Dell’origine d’opera d’arte e altri scritti, Aesthetica preprint, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 2004, http://www.unipa.it/~estetica/download/Heidegger.pdf.

[13] M. Heidegger (1953), Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27.

[14] M. Heidegger (1951), ...Dichterisch wohnet der Mensch..., in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G. Vattimo, ...Poeticamente abita l’uomo..., in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 125-138.

[15] M. Heidegger (1951), Bauen Wohnen Denken (“2. Darmstädter Gespräch, Mensch und Raum”, Herausgegeben im Auftrag des Magistrats der Stadt Darmstadt und des Komitees Darmstädter Gespräch 1951, von Otto Bartning. Neue Darmstädter Verlagsanstalt 1952), in Gesamtausgabe, I. Abteilung, ‘Ver offentlichte Schriften 1910 – 1976’, Band 7 ‘Vorträge und Aufsätze’, Klostermann, Frankfurt am Main 2000, II (Seiten 145 – 164); tr. it. di G. Vattimo, Costruire Abitare Pensare, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 96-108; M. Heidegger (1951), … Dichterisch wohnet der Mensch..., in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G. Vattimo, ...Poeticamente abita l’uomo..., in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 125-138.


Enrico Giannetto