Fonte: Monthly Review - 01.06.2024

L'affermazione che Karl Marx sostenesse una crescita materiale illimitata è stata ripresa di recente, da due punti di vista opposti: uno sostiene che Marx abbia abbandonato tali opinioni antiecologiche in tarda età, mentre l'altro sostiene con forza il suo presunto prometeismo. In questo editoriale, i redattori della Monthly Review sostengono che entrambe le parti fraintendono e travisano le opinioni di Marx.



Note della redazione di Monthly Review


Il termine prometeico, riferito in questo contesto al produttivismo estremo, è entrato per la prima volta nel dibattito ecologico come una critica rivolta quasi esclusivamente a Karl Marx. È stato adottato, come forma di condanna, dagli ecosocialisti della prima fase negli anni Ottanta e Novanta, che hanno cercato di trapiantare la teoria liberale green nel marxismo, eliminando quelle che allora si presumeva fossero le posizioni anti-ecologiche di Marx. Tuttavia, il mito prometeico relativo a Marx sarebbe stato sottoposto a un attacco costante, a partire da venticinque anni fa, dal lavoro degli ecosocialisti della seconda fase, attraverso le pubblicazioni di Marx and Nature di Paul Burkett (Haymarket, 1999) e da Marx'sTheory of Metabolic Rift di John Bellamy Foster («American Journal of Sociology» 105, n. 2, Settembre 1999), seguito subito dopo da Marx's Ecology di J.B. Foster (Monthly Review Press, 2000). Con questi lavori, si è compreso che la prospettiva del materialismo storico classico non era quella della promozione della produzione fine a sé stessa – tanto meno dell'accumulazione fine a sé stessa – ma piuttosto la creazione di una società fondata sullo sviluppo umano sostenibile controllata dai produttori associati. La base analitica fondamentale di questo recupero della critica ecologica storico-materialista classica fu la teoria della frattura metabolica di Marx.

Sulla base del recupero della profonda critica ecologica di Marx, l'ecosocialismo ha compiuto importanti progressi nell'ultimo quarto di secolo. Un'opera notevole, a questo proposito, è stata L'ecosocialismo di Karl Marx di Kohei Saito (Monthly Review Press, 2017) [edito in Italia da Castelvecchi nel 2023], che ha portato ulteriori prove a sostegno della critica del mito prometeico e dello sviluppo della teoria della frattura metabolica di Marx. Il risultato è stato l'emergere di una serie di notevoli analisi ecologico-marxiste della crisi planetaria contemporanea fornite da una schiera di pensatori, comprendente figure di rilievo come Ian Angus, Jacopo Nicola Bergamo, Mauricio Betancourt, Brett Clark, Rebecca Clausen, Sean Creaven, Peter Dickens, Martin Empson, Michael Friedman, Nicolas Graham, Hannah Holleman, Michael A. Lebowitz, Stefano Longo, Fred Magdoff, Andreas Malm, Brian M. Napoletano, Ariel Salleh, Eamonn Slater, Carles Soriano, Pedro Urquijo, Rob Wallace, Del Weston, Victor Wallis, Richard York e molti altri ancora, troppo numerosi per essere qui citati.

Tuttavia, negli ultimi due anni, il mito del prometeismo nel pensiero di Marx è stato reintrodotto in modo spettrale da pensatori come Saito, nelle sue ultime opere, e da Matt Huber e Leigh Phillips, autori di Jacobin, che rappresentano due interpretazioni opposte in merito alla questione del ruolo delle forze produttive/tecnologia. Il risultato è stato quello di erigere una “Torre di Babele” che minaccia di estinguere molti dei risultati raggiunti dall'ecologia marxiana.

Nei suoi due studi più recenti: Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2023) e Slow Down (Astra Publishing House, 2024, originariamente intitolato Capital in the Anthropocene), Saito ha fatto marcia indietro rispetto alla sua precedente affermazione, contenuta in Karl Marx's Ecosocialism, secondo cui Marx non era un pensatore prometeico, e ora insiste, basandosi sul lavoro ampiamente screditato del “marxista analitico” G. A. Cohen, a sostenere che Marx fu un determinista tecnologico per la maggior parte della sua vita. Il voltafaccia di Saito, su Marx e il prometeismo, è chiaramente finalizzato ad accentuare quella che Saito definisce la «rottura epistemologica» di Marx, a partire dal 1868. Da quel momento in poi, si suppone che Marx abbia abbandonato completamente il suo precedente materialismo storico, rifiutando tutte le nozioni di espansione delle forze produttive a favore di un'economia di stato stazionario, o di decrescita. Tuttavia, dal momento che non si trova da nessuna parte la benché minima prova testuale a sostegno dell'affermazione di Saito su Marx e la decrescita (al di là di quanto si sostiene da tempo, ovvero che Marx era un teorico dello sviluppo umano sostenibile), Saito è costretto a leggere tra le righe, immaginando mentre procede [nel suo lavoro]. L'idea di fondo della sua nuova tesi è che l'“ultimo Marx” abbia dedotto che le forze produttive ereditate dal capitalismo costituivano una trappola, inducendolo a rifiutare del tutto la crescita delle forze produttive a favore di un percorso senza crescita verso il comunismo. Questa visione, tuttavia, è chiaramente anacronistica. Naturalmente, il fatto che oggi la decrescita pianificata sia un problema reale (si veda il numero speciale di luglio-agosto 2023 di «MR») non significa che il problema si sarebbe presentato in questo modo a Marx nel 1868, ai tempi dei cavalli e dei calessi, quando la produzione industriale era ancora limitata a un piccolo angolo del mondo.

Ironia della sorte, la tesi di Saito secondo cui Marx fu prometeico fino alla pubblicazione di Il capitale (considerato, in questo senso, da Saito come un'opera di transizione) riceve un forte sostegno da Huber e Phillips, nel loro articolo: Kohei Saito's 'Start from Scratch' Degrowth Communism (Jacobin, 9 marzo 2024). Sostenendo con orgoglio la bandiera del “marxismo prometeico”, Huber e Phillips si presentano come appartenenti a una lunga tradizione di noti prometeici, tra cui non solo Marx e Friedrich Engels fanno parte, ma anche V. I. Lenin, Leon Trotsky e Joseph Stalin. Per gli autori di Jacobin, per i quali marxismo = prometeismo, Saito è quindi da biasimare non per aver suggerito che Marx fosse prometeico fino alla stesura di Il capitale, ma piuttosto per aver affermato che Marx ha abbandonato il suo prometeismo negli anni della barba bianca, non riuscendo a portarlo fino alla tomba.

Sebbene adottino una copertura marxista, il punto di vista di Huber e Phillips sulla tecnologia e l'ambiente è praticamente identico a quello di Julian Simon, autore di The Ultimate Resource (Princeton University Press, 1981) e principale critico anti-ambientalista dei limiti ecologici alla crescita nell'ambito dell'ortodossia economica neoclassica degli anni Settanta e Ottanta (si veda Ecosocialismo e decrescita di Foster, in questo numero). Gli autori di Jacobin adottano quindi una visione che non è tanto di orientamento ecomodernista, quanto piuttosto una forma di totale esenzione dell'uomo dalle determinanti ecologiche, in cui si presume che l'umanità sia in grado di trascendere con mezzi tecnologici tutti i limiti del Sistema Terra, compresi quelli della vita stessa. La frattura metabolica, ci viene detto, non esiste perché dipende da una frattura in un inesistente “equilibrio della natura”. In questo caso si ignora il fatto che la nozione di frattura antropica nei cicli biogeofisici della vita sul pianeta, che solleva il problema dell'estinzione di massa, estendendosi anche alla stessa vita umana, è centrale nella moderna scienza del Sistema Terra. Non si tratta di “equilibrio della natura” in quanto tale, ma piuttosto di preservare la Terra come casa sicura per l'umanità e per innumerevoli altre specie.

Andando contro l'attuale consenso scientifico mondiale, Huber e Phillips negano esplicitamente la realtà dei nove limiti planetari (cambiamento climatico, integrità biologica, cicli biogeochimici, acidificazione degli oceani, cambiamento dei sistemi terrestri, uso dell'acqua dolce, esaurimento dell'ozono stratosferico, carico di aerosol atmosferico e nuove entità). Insistono, invece, nel loro totale eccezionalismo, sul fatto che non esistono limiti biosferici alla crescita economica. Quindi, «non c'è bisogno», ci dicono, «di passare a un'economia stazionaria... di tornare a tecnologie più “appropriate”, di abbandonare i “megaprogetti” o di sostenere il concetto critico di... una “frattura metabolica” con il resto della natura che», dicono, «non esiste». Parole come “beni comuni” e “aiuto reciproco” sono classificate come semplici «parole d'ordine». Tutte le argomentazioni sui “limiti alla crescita” sono per definizione forme di «malthusianesimo». L'energia nucleare deve essere promossa come soluzione chiave al cambiamento climatico e all'inquinamento in generale. Per finire, sostengono, nei termini di un darwinismo sociale, che il capitalismo stesso è in qualche modo parte integrante della selezione naturale: «Quindi, per quanto riguarda il resto della natura, qualsiasi cosa noi umani facciamo, attraverso il modo di produzione capitalistico o altro, dall'uso dei combustibili fossili all'invenzione della plastica, è solo l'ultima serie di nuove pressioni di selezione evolutiva».

Phillips si è spinto ancora più in là: «Il socialista», dichiara, «deve difendere la crescita economica, il produttivismo, il prometeismo.... L'energia è libertà. La crescita è libertà». L'obiettivo finale è «più cose». Ciò che serve è «un pianeta ad alta energia, non la modestia, l'umiltà e la vita semplice». Con una sfacciata dimostrazione di irrealismo, Phillips afferma senza mezzi termini che: «si può avere una crescita infinita su un pianeta finito». La Terra, ci informa, può ospitare «282 miliardi di persone», o anche di più. I marxisti, come Herbert Marcuse, che hanno messo in discussione la natura della tecnologia contemporanea, vengono liquidati sommariamente come sostenitori di «posizioni neo-luddiste». Phillips celebra apertamente l'opera reazionaria di Simon, The Ultimate Resource, la bibbia dell'esenzione totale anti-ecologica (Leigh Phillips, Austerity Ecology and the Collapse-Porn Addicts: A Defence of Growth, Progress, Industry and Stuff, Winchester, UK, Zero Books, 2015, pp. 59, 63, 89, 250, 259).

L'audace difesa di Huber e Phillips di un «marxismo prometeico» nel loro articolo su Jacobin è stata fatta con un tale brio che deve aver lasciato il capitalistico Breakthrough Institute [centro di ricerca ambientale californiano], verde d'invidia. Ha già provocato una forte reazione nei circoli ambientalisti di sinistra contro le inanità del cosiddetto “marxismo ortodosso”. Lo dimostra un articolo di Thomas Smith intitolato Technology, Ecology and the Commons-Huber and Phillips' Barren Marxism («Resilience», 21 marzo 2024). Qui ci viene detto, in un ulteriore arretramento della ragione, che Huber e Phillips, nel loro totale disprezzo per l'ecologia, stanno semplicemente «seguendo la linea marxista», promuovendo il «dogma marxista prometeico» – come se le loro opinioni potessero essere viste come rappresentative del “marxismo ortodosso” (che, come disse György Lukács, è legato interamente al metodo), o come se la loro prospettiva fosse un tutt'uno con quella del marxismo odierno. Non è così. Nelle condizioni del XXI secolo, il socialismo è ecologia e l'ecologia è socialismo. Forse l'aspetto più importante dell'analisi di Saito, nonostante tutte le contraddizioni del suo ultimo lavoro, è che riconosce che una profonda visione ecologica era presente nell'opera classica di Marx (e, aggiungeremmo, di Engels), e che questa costituisce una base teorica a cui possono attingere tutti coloro che oggi sono impegnati nella filosofia della prassi, nelle lotte per creare un mondo economicamente egualitario ed ecologicamente sostenibile.


Redazione di Monthly Review

Traduzione di Alessandro Cocuzza

Fonte: Monthly Review vol. 76, n. 02 (01.06.2024)


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