Fonte: Sublation Media - 07.05.2024

Pubblichiamo la recensione di due nuovi libri che ci forniscono indicazioni su come la classe capitalistica continuerà a difendere il distruttivo sistema economico e sociale in cui viviamo. Per chi cerca alternative al capitalismo verde, questi libri aiutano a comprendere le argomentazioni dei poteri consolidati per capire come possiamo contrastarle.



Creare grafici per compiacere l'élite globale


Due nuovi libri sostengono che il capitalismo risolverà la crisi climatica ed ecologica. Pur avanzando tale tesi con stili e focus diversi, Climate Capitalism: Winning the Race to Zero Emissions and Solving the Crisis of Our Age, di Akshat Rathi, giornalista di Bloomberg, e Not the End of the World: How We Can Be the First Generation to Build a Sustainable Planet, della scienziata Hannah Ritchie, portano il lettore a una conclusione simile: il nostro attuale sistema sociale ed economico (il capitalismo) produrrà i cambiamenti tecnologici necessari, grazie alle forze di mercato, alle macchine più economiche e agli incentivi governativi, per portare a un'era di abbondanza, al progresso umano e alla «prima generazione sostenibile» del mondo.

Sia Rathi che la Ritchie sono due tecno-ottimisti e politico-pessimisti che nascondono il cambiamento sociale e politico dietro il paravento della sostituzione tecnologica.

Climate Capitalism è più esplicito rispetto a Not the End of the World nell'appoggiare il capitalismo per risolvere la crisi climatica (anche se, come sostengo, ognuno dei due fa il tifo per il capitalismo in una misura o nell'altra). Diviso in dodici capitoli, il libro di Rathi descrive l'ambito in cui i capitalisti del clima stanno cercando di affrontare il cambiamento climatico e di «vincere la corsa verso lo zero netto». Lo fa tracciando, il più delle volte, il profilo di singoli imprenditori o capitalisti, utilizzando il suo background giornalistico per creare una narrazione del tentativo del capitalismo di diventare “verde” ed evitare il peggio della crisi climatica.

Le soluzioni del capitalismo verde sono note a chiunque presti attenzione: dai veicoli elettrici, alle energie rinnovabili e alla cattura del carbonio, fino agli individui e alle istituzioni che si vantano delle loro credenziali di capitalismo verde, come Bill Gates e Unilever. Secondo Rathi, è grazie a una combinazione di imprese private, politiche governative e istituzioni internazionali che è possibile accrescere il cambiamento tecnologico che alla fine vincerà la corsa verso lo zero netto.

La Ritchie adotta un approccio diverso. Piuttosto che tracciare il profilo di un individuo o di un'organizzazione, essa presenta dati accuratamente selezionati per raccontare la storia del progresso umano e ambientale. La Ritchie si preoccupa di raggiungere la sostenibilità su due fronti: il benessere ambientale e quello umano. Per lei, nessuna generazione è stata in grado di raggiungere entrambe le mete nello stesso tempo. Le generazioni precedenti potevano avere un impatto ambientale minore, ma non erano in grado di garantire all'umanità un livello di vita sano e duraturo, mentre oggi abbiamo fatto progressi nel benessere umano a spese del mondo naturale.

Alla luce di ciò, secondo la Ritchie, le persone (soprattutto i giovani) sono approdate al “doomismo”[1] e alla convinzione che l'umanità non stia facendo progressi nel perseguire obiettivi sociali o ambientali e descrive Not the End of the World come il libro che avrebbe voluto avere quando era adolescente.

La Ritchie scrive per alleviare le preoccupazioni e le paure dei giovani, iniziando ogni capitolo con un titolo di giornale, indicando i dati che potrebbero contraddire tali affermazioni «iperboliche» e cercando di offrire ai lettori una speranza di fronte alla nostra attuale crisi ecologica. Essa vuole essere l'Hans Rosling dell'ambientalismo, anche se spesso ha il tono e l'approccio di uno Steven Pinker[2]. Mentre Rathi si concentra sul cambiamento climatico, la Ritchie si concentra sulla crisi ecologica più ampia, che comprende la biodiversità, la plastica negli oceani, la deforestazione e altro ancora.

Ogni libro ha i suoi punti di forza. Rathi dà il meglio di sé quando usa le sue capacità giornalistiche per fornire la lunga storia di come siamo arrivati a questo punto, o quando traccia il profilo di un personaggio altrimenti oscuro che ha, o sta, svolgendo un ruolo importante nella transizione “verde” del capitalismo. Ad esempio, mentre la maggior parte dei lettori conosce Elon Musk e la sua influenza sui veicoli elettrici, molti potrebbero non conoscere l'ex ministro cinese della Scienza e della Tecnologia, Wan Gang, che è stato determinante nel far sì che la Cina investisse nella produzione di veicoli elettrici e che, alla fine, diventasse ciò che è diventata oggi. Il libro di Rathi si legge come se stesse scrivendo una serie di articoli per Bloomberg, decidendo alla fine di concentrare dodici storie diverse in un unico libro.

Il punto di forza della Ritchie è l'impegno nei confronti dei numeri e dei dati. Offre interessanti dati su fenomeni come le emissioni pro capite di oggi rispetto ai suoi nonni, il fabbisogno di terra dell'olio di palma rispetto all'olio di cocco, i benefici delle discariche, e altro ancora. Il tentativo della Ritchie di alleviare l'ansia e lo stress delle giovani generazioni è ben accetto. Sono d'accordo con lei sul fatto che dovremmo ispirare i giovani ad agire e non a credere che non si possa fare nulla. Inoltre, mentre la maggior parte dei libri sull'attuale emergenza ecologica si concentra esclusivamente sul cambiamento climatico, la Ritchie usa il suo libro per esplorare molteplici questioni ambientali interconnesse. Sebbene la maggior parte delle conclusioni a cui giunge la Ritchie sembrino suggerire che le preoccupazioni per la crisi climatica o per l'inquinamento da plastica siano esagerate, l'autrice è onesta nel dire che i politici e il grande pubblico non stanno prendendo abbastanza sul serio l'estinzione di massa delle specie. Sono d'accordo.

Tuttavia, al di là di questi punti di forza, non sono convinto degli obiettivi centrali di entrambi i libri.

Per un libro sul “capitalismo climatico”, Rathi si basa su molte economie non tradizionali che non possono essere descritte come capitalistiche. Infatti, il capitolo iniziale del libro di Rathi è dedicato alla Cina e a come è arrivata a dominare la produzione di veicoli elettrici. Leggendo questo capitolo, ci si rende subito conto di quanto i sussidi statali, la ricerca statale e le case automobilistiche di proprietà dello stato siano stati essenziali per l'ascesa dei veicoli elettrici in Cina e, di conseguenza, in tutto il mondo. Mentre è in corso un dibattito su come caratterizzare correttamente il sistema economico e sociale cinese (come «capitalismo di stato» o «socialismo con caratteristiche cinesi»), Rathi non si preoccupa nemmeno di affrontare questi problemi principali o di chiedersi se è d'accordo che il modello del Partito Comunista Cinese sia ciò che il capitalismo climatico è o dovrebbe diventare.[3]

Allo stesso modo, Rathi cita Orsted, un'azienda offshore produttrice di energie rinnovabili le cui azioni di maggioranza sono di proprietà del governo danese. Rathi definisce Orsted un «manifesto della transizione energetica». È confusionario definire un'azienda energetica statale come manifesto della transizione energetica e allo stesso tempo scrivere un libro che difende il cosiddetto “capitalismo climatico”. Rathi pensa che le aziende energetiche esistenti o emergenti sarebbero disposte a vendere le loro azioni ai governi e a far sì che i sistemi energetici diventino di proprietà pubblica per fornire la rapida transizione energetica pulita di cui abbiamo bisogno? Anche in questo caso, Rathi non si pone mai il problema.

Parte di questa confusione è dovuta al fatto che egli non definisce mai chiaramente cosa sia il capitalismo climatico o il capitalismo più in generale. Quando lo fa, non è esattamente un'entusiastica approvazione o una visione positiva per la presunta «unica opzione disponibile». La definizione di capitalismo che più si avvicina è quella di «crescita economica illimitata» e di «sistema economico estrattivo... impostato sulla massimizzazione dei profitti». In tutto il libro, Rathi si affretta a dire ai lettori che il capitalismo «senza vincoli» o «senza controllo» non risolverà la crisi climatica. Ma cosa sia o appaia il capitalismo controllato e vincolato, va oltre la sua immaginazione. Egli ci dice simultaneamente che non esiste un'alternativa al capitalismo, senza però dimostrarci come l'unica opzione che abbiamo sia definita con chiarezza o sia effettivamente in grado di risolvere il problema che dovrebbe risolvere.

Questo porta a un'altra importante critica a Climate Capitalism. Cosa significherebbe per il capitalismo climatico «vincere la corsa verso lo zero netto»? Allo stato attuale, le emissioni e la produzione di combustibili fossili sono ai massimi storici e alcuni modelli non prevedono una fine a breve termine. Ci stiamo dirigendo, con le attuali politiche energetiche, verso un aumento del riscaldamento di 3° Celsius entro la fine del secolo (e questo richiede una massiccia e irraggiungibile cattura di anidride carbonica). La classe politica e capitalistica non ha la minima volontà di trasformare il nostro sistema alimentare frutto di un'agricoltura intensiva, industriale, guidata corporativamente a qualcosa di più democratico, sia per le persone che per la terra, sostenibile e fondato sulla biodiversità (in tutto il libro Rathi non menziona l'agricoltura o la produzione di cibo, anche se il settore è responsabile di circa un terzo di tutte le emissioni). Questo avviene nonostante gli aumenti record dell'offerta di energia rinnovabile, della diffusione di veicoli elettrici e di tecnologie verdi.

Il problema di «vincere una gara» e contemporaneamente di ridurre velocemente le emissioni al fine di evitare la catastrofe, è che entrambi sono soggetti a immediati vincoli temporali. Finora il capitalismo non ha dimostrato di sapersi muovere abbastanza velocemente. Per collocare in una prospettiva diversa il fallimento del capitalismo, quasi tutti i principali paesi capitalistici del mondo hanno accettato la soglia di 1,5°C dell'Accordo di Parigi, che siamo destinati a superare entro il 2030 (Rathi definisce questo obiettivo come “arbitrario”). Se raggiungiamo i 3 ° Celsius, l'aumento della temperatura sarà doppio rispetto allo standard concordato dalle classi capitalistiche e politiche.

Questo non è vincere la gara: è un fallimento assoluto e un'operazione di verdewashing. Rathi ha "saltato" il traguardo.

A un certo punto, Rathi sostiene una carbon tax. Sebbene le tasse sul carbonio si siano dimostrate finora insufficienti a ridurre le emissioni e non siano il massimo della mobilitazione politica, è importante chiedersi cosa accadrebbe ai profitti delle classi capitalistiche se venisse applicato un prezzo effettivo sulle emissioni di carbonio. Secondo uno studio, unico nel suo genere, sui "danni aziendali da carbonio", le imprese perderebbero il 44% dei loro profitti se dovessero pagare per i danni attribuibili al loro inquinamento climatico. Quando a uno dei ricercatori è stato chiesto quale sarebbe l'importo totale in dollari per tali danni, il coautore Christian Leuz ha rivelato che «a 190 dollari [l'attuale costo per tonnellata di carbonio dell'EPA statunitense], l'industria dei servizi pubblici subirebbe, in media, danni più che doppi rispetto ai suoi profitti. Tutti i settori della produzione di materiali, dell'energia e dei trasporti registrerebbero danni medi superiori ai loro profitti».

Un'altra analisi del 2013, incentrata sulla determinazione dei prezzi delle esternalità ambientali, è giunta a una conclusione simile che non fa ben sperare per il “capitalismo climatico”. L'influente analista del clima David Roberts, scrivendo per Grist, concludeva asserendo che: «Dei venti principali settori regionali classificati in base all'impatto ambientale, nessuno sarebbe redditizio se i costi ambientali fossero completamente integrati. Rifletteteci un attimo: Nessuno dei settori industriali più importanti del mondo sarebbe redditizio se pagasse tutto il suo carico. Zero».

Non pagare per i danni che i loro sistemi di produzione causano – quelli che spesso vengono chiamati «esternalità» – sia alla salute delle persone che alla sostenibilità degli ecosistemi, è stato per il capitalismo un modo di sfuggire al calo del saggio di profitto e di mantenere il suo dominio nonostante i suoi evidenti danni alle persone e alla biosfera. È questo il sistema, con la sua estrema disuguaglianza, la sua natura antidemocratica e le sue tendenze psicopatiche, che Rathi difende.

Mentre Rathi difende esplicitamente il capitalismo, Not the End of the World della Ritchie adotta un approccio diverso per difendere il business as usual. Per la Ritchie, nonostante qualche crepa qua e là, il capitalismo rimane una forza progressista. Pur ammettendo che alcune cose devono cambiare – il passaggio dai combustibili fossili all'energia rinnovabile e nucleare, una dieta fondata più sui vegetali e la riduzione della pesca eccessiva – la Ritchie si basa su dati altamente selettivi per raccontare una storia di progresso apparentemente senza fine, ignorando studi, fenomeni e alternative che contrastano con il tipo di capitalismo verde che sta vendendo.

Prima di discutere alcune implicazioni della sua tesi e delle politiche che sostiene, è importante analizzare alcune affermazioni della Ritchie sull'uso selettivo dei dati.

In primo luogo, nonostante il tono arrogante con cui la Ritchie discute della riduzione della povertà, omette i dati che contraddicono la sua stessa affermazione che il capitalismo è stato positivo per la riduzione della povertà. La Ritchie suggerisce che la povertà sta diminuendo. Ma, come essa osserva, il modo in cui la povertà viene misurata può cambiare i risultati. Nel libro, la Ritchie utilizza la soglia di «estrema povertà» di 2,15 dollari al giorno (2017 PPP). Ma come molti studiosi hanno sottolineato, questa soglia è troppo bassa per ottenere anche solo l'alimentazione necessaria, per non parlare di cose come un alloggio decente e l'assistenza sanitaria. Gli studiosi hanno sostenuto che sono necessari almeno 8,40 dollari per ottenere una normale aspettativa di vita e 14,70 dollari per raggiungere una "fuga permanente" dalla povertà. A questi livelli, tra i 4,1 e i 5,5 miliardi di persone sono in povertà e il numero è aumentato dal 1990.

La povertà è tutt'altro che prossima a essere eliminata. Infatti, all'attuale ritmo di cambiamento, ci vorrebbero più di duecento anni per risolvere il problema della povertà se misurata a 8,40 dollari al giorno (2017 PPP). In altre parole, secondo lo stesso standard della Ritchie, non saremo la prima generazione a costruire un pianeta sostenibile, perché la povertà persisterà per molte generazioni nel futuro. Questo non è progresso, è un'accusa al sistema economico e sociale che la Ritchie (e Rathie) difendono. E invece di presentare ai suoi lettori questi dati, la Ritchie li ignora per vendere una narrazione.

Oltre all'omissione intenzionale di uno degli indicatori più significativi del progresso (o della sua mancanza) in materia di povertà, la narrazione della Ritchie sulla nostra emergenza ecologica è altrettanto sospetta. La Ritchie è un difensore della narrativa della crescita verde: l'idea che la tecnologia e l'efficienza ci permetteranno di disaccoppiare gli impatti ambientali dalla crescita economica. In effetti, è questo che secondo lei «ci permetterà di essere la prima generazione [sostenibile]».

Ciò che la Ritchie non tiene in considerazione è che la crescita verde non è all'altezza del compito. Numerosi studi e articoli hanno valutato i tassi di disaccoppiamento attuali e previsti necessari per la sostenibilità ambientale, e tutti sono giunti a conclusioni simili. Per citarne solo uno: «In un documento del 2019 gli autori hanno esaminato 179 articoli pubblicati sul disaccoppiamento tra il 1990 e il 2019, non trovando alcuna prova del tipo di disaccoppiamento necessario per la sostenibilità ecologica», a un ritmo sufficientemente veloce. Inoltre, molte di queste narrazioni sulla crescita verde si basano su una tecnologia di cattura del carbonio irreale o su una vasta disuguaglianza tra il Nord e il Sud del mondo per permetterci di disaccoppiare sufficientemente la crescita dagli impatti ambientali. Mentre pochissimi paesi hanno raggiunto un sommario disaccoppiamento dell'anidride carbonica dal PIL (il datore di lavoro della Ritchie, Our World In Data, deve correggere il suo titolo), l'uso delle risorse non ha mostrato segni di disaccoppiamento. Lo stesso Resource Panel delle Nazioni Unite ha indicato che il 90% della perdita di biodiversità e il 55% delle emissioni di CO2 sono attribuibili all'estrazione e all'uso delle risorse.

Ma la falsa narrativa della crescita verde non fa che peggiorare. La Ritchie e altri sostenitori della crescita verde proiettano il mondo di oggi sul futuro di domani, nonostante il fatto che la crisi climatica ed ecologica rimodellerà radicalmente i nostri stili di vita, la politica e le economie. Questo cambiamento nell'economia globale è forse meglio dimostrato dall'impatto che i cambiamenti climatici e i danni ambientali avranno sul PIL del prossimo secolo. Secondo un recente studio, si prevede che il 19% del PIL globale andrà perso nonostante le riduzioni delle emissioni previste per il prossimo secolo.

In altre parole, il carbonio già presente nell'atmosfera ci sta portando sulla strada del “disaccoppiamento per disastro”.

Se a questo si aggiunge il fatto che il 55% del PIL globale dipende da una biodiversità ottimale (che viene uccisa e affamata a ritmi allarmanti), il futuro della crescita verde non è altro che una favola. La Ritchie e i suoi propagandisti della crescita verde stanno assicurando un futuro di recessione economica permanente continuando a difendere l'etica del “crescere o morire”. In qualche modo, nonostante il suo libro sia fondato su dati e studi, la Ritchie ignora ancora una volta i dati e le prove che contraddicono le sue convinzioni tecno-ottimistiche basate sulla fede.

Infine, una delle affermazioni più centrali della Ritchie in tutto il libro riguarda l'importanza di massimizzare i rendimenti agricoli. La sua tesi è che l'agricoltura è la pratica più impattante sulla terra. Aumentando le rese agricole (soprattutto grazie agli OGM e ad altre pratiche della “rivoluzione verde”) possiamo ridurre la necessità di aumentare i terreni agricoli e quindi ridurre l'uso del suolo, consentendo un maggiore cattura e sequestro di carbonio e una maggiore biodiversità. Questo è noto come risparmio di suolo. La Ritchie propone spesso questa argomentazione indicando ipotesi su come sistemi alimentari diversi possano o meno richiedere più terreno rispetto al sistema agricolo intensivo, industriale e guidato dalle aziende che lei difende.

Tuttavia, la massimizzazione della resa agricola è di per sé indice di un uso sostenibile del territorio? Non necessariamente. In tutto il libro, la Ritchie parte dal presupposto che l'aumento delle rese agricole si traduca in una riduzione dei terreni agricoli, come se facendo una cosa si ottenesse necessariamente l'altra. Ma ci sono un paio di ragioni per cui questo non è vero. In primo luogo, se un agricoltore (o una società) aumenta le rese, è probabile che ciò si traduca in un reddito o in un profitto maggiore. Piuttosto che intascare tutti i profitti, l'agricoltore cercherà di espandere la propria attività – investendo in più tecnologia o terreni per accrescere ulteriormente i rendimenti, tendendo così ad aumentare la quantità di suolo utilizzato eliminando la “terra risparmiata”. Questo è un fatto normale in un sistema capitalistico che dipende dall'accumulazione di capitale. In qualche modo, la Ritchie non prende nemmeno in considerazione una simile proposta.

Piuttosto che guardare ai controfattuali come fa la Ritchie, cosa dicono i dati sulle relazioni tra aumento dei rendimenti e risparmio di suolo? In uno studio del 2009, i ricercatori hanno esaminato ventitré colture, dal 1979 al 1999, in centoventiquattro paesi per verificare l'effetto dell'aumento delle rese agricole sui terreni coltivati. Hanno riscontrato che nei paesi in via di sviluppo c'è stata una debole tendenza al risparmio di suolo per tutte le colture, anche se l'uso della terra per le colture di base è diminuito. Nei paesi sviluppati, concludono, «non ci sono prove che l'aumento delle rese delle colture di base sia associato a una diminuzione della superficie coltivata pro capite». In questo caso, vediamo il risultato diretto di un risparmio di efficienza in un'area (le colture di base) che viene spazzato via da un aumento dell'uso del suolo altrove. Questo fenomeno di guadagno di efficienza in un'area, mentre l'aggregato aumenta, è noto come paradosso di Jevons.

I problemi non fanno che peggiorare per la Ritchie e la sua tesi del risparmio di suolo. Uno studio del 2013 ha rilevato che in sei paesi tropicali del Sud America, nel periodo 1970-2006, l'aumento delle rese agricole non ha comportato una diminuzione dell'uso dei terreni agricoli, che anzi è aumentato. Anche un terzo studio, pubblicato nel 2023 sulla rivista «Biodiversity and Conservation», ha rilevato che la tesi del risparmio di suolo non ha prodotto i risultati promessi, concludendo che: «Maggiori aumenti di resa portano a tassi di deforestazione più elevati nell'Africa subsahariana e in America Latina e Caraibi, mentre l'aumento della resa media induce l'espansione dell'agricoltura nell'Asia orientale e nel Pacifico, dando sostegno all'ipotesi del paradosso di Jevons».

Il paradosso di Jevons si trova ovunque, e non solo in agricoltura: le automobili sono più efficienti ma le emissioni dei trasporti sono in aumento; i guadagni di efficienza energetica vengono vanificati dalle grandi dimensioni delle abitazioni negli Stati Uniti e, secondo la Energy Information Administration, il consumo di energia supererà i guadagni di efficienza energetica nei prossimi decenni, nonostante l'aumento delle energie rinnovabili e i miglioramenti dell'efficienza. Piuttosto che esaminare i controfattuali, dovremmo prestare attenzione ai sistemi che abbiamo in atto e al modo in cui stanno o non stanno raggiungendo la sostenibilità. Nonostante il paradosso di Jevons sia un fenomeno ben noto e verificato, sfugge all'attenzione della Ritchie. È il mondo di Jevons, e la Ritchie fa del suo meglio per non viverci.

Per un libro come il suo, venduto come fosse fondato sui dati, la Ritchie non aiuta la propria causa ignorando tante prove facilmente disponibili. Infatti, uno dei problemi che ho riscontrato nel libro è il numero di affermazioni apparentemente scientifiche che la Ritchie fa senza fornire alcuna citazione che i lettori possano esaminare da soli. Ero così confuso da questa situazione che ho contattato l'editore per ottenere una copia in PDF del libro, pensando di avere una sorta di edizione che potesse non includere tutte le citazioni. Sono rimasto deluso dal fatto che anche il PDF non contenesse le citazioni che cercavo. I lettori sono sostanzialmente vincolati alla parola della Ritchie senza alcuna possibilità di fare un riferimento incrociato a molte delle sue affermazioni basate sugli studi da cui trae le proprie conclusioni.

È un comportamento sospetto. Ancora più sospetto è il modo in cui la Ritchie sostiene di aver scritto un «libro apolitico». Nonostante le sue presunte intenzioni, il suo impatto e le sue argomentazioni sono profondamente politici. In effetti, le questioni e i conflitti che riguardano la natura sono probabilmente i più politici di tutti i soggetti. Come scrivono Bruno Latour e Nikolaj Schultz, «parlare di natura non significa firmare un trattato di pace; significa riconoscere l'esistenza di tutta una serie di conflitti su tutti i temi che riguardano l'esistenza quotidiana, a tutti i livelli e in tutti i continenti. La natura non unifica, ma divide».

In parole povere: la Ritchie è ingenua. In tutto il testo, si rifà ripetutamente all'idea apolitica che «siamo tutti coinvolti». Mi dispiace dirlo alla Ritchie, ma non siamo tutti in questa situazione. Non stiamo tutti tirando nella stessa direzione, per le stesse tecnologie, sotto gli stessi sistemi di proprietà, con gli attuali livelli di distribuzione di risorse, energia e ricchezza. Si tratta di questioni fondamentalmente politiche, e come tutte le questioni politiche ci sono vincitori e vinti: Chi prende certe decisioni? Perché sono state prese? Che impatto avranno su alcuni tipi di persone rispetto ad altri? In un mondo che si trova ad affrontare forme crescenti di conflitto, disuguaglianza e un accentuato colonialismo verde, queste domande politiche vengono messe in secondo piano dalla Ritchie. Non sono dalla stessa parte dei maggiori sostenitori della Ritchie, come Bill Gates, William MacAskill o Stewart Brand. Queste persone cercano di dominare e possedere la Terra, con poco riguardo per la democrazia, la sostenibilità o l'uguaglianza economica.

Non chiarendo la sua ideologia o posizione politica, presentando le argomentazioni, le informazioni e sostenendo questi criminali capitalisti, la Ritchie si è posizionata dalla parte dei ricchi e dell'élite. Dire di essere a favore della “sostenibilità” non è una posizione politica, per quanto la Ritchie voglia mettere a tacere il rumore esterno e andare oltre la politica. Per quanto parli di ottimismo, la Ritchie è in fondo una pessimista. Lascia che siano i mercati, la classe capitalistica e la tecnologia a prendere le redini della nostra transizione, piuttosto che i movimenti sociali e politici che sarebbero necessari per permetterci di essere «la prima generazione a costruire un pianeta sostenibile».

Non è difficile, leggendo Not the End of the World, riempire gli spazi ideologici vuoti della Ritchie. Dalla sua difesa della Rivoluzione verde, nonostante le sue esagerate dimensioni coloniali e antidemocratiche, alla mancanza di attenzione (e superficiale critica) verso qualsiasi altro tipo di civiltà eco-sociale, fino alle approvazioni del libro da parte di alcuni dei più popolari difensori del capitalismo verde, il libro della Ritchie è tutt'altro che apolitico. Per esempio, in tutto il libro, la Ritchie non prende quasi mai in considerazione un'alternativa al futuro da lei prospettato e, quando lo fa, fornisce inutili strumentalizzazioni e depistaggi. Prendiamo la sempre più popolare teoria economica e filosofia ambientale della decrescita, alla quale la Ritchie dedica due pagine.

Innanzitutto, per correggere la Ritchie, la decrescita non crede nell'assenza di crescita economica, soprattutto per i poveri. Anche una lettura superficiale della maggior parte della letteratura popolare sulla decrescita potrebbe alleviare le sue preoccupazioni. La decrescita si rivolge ai ricchi a livello globale, sia all'interno dei paesi che tra di essi. Il fatto che l'autrice faccia questa falsa affermazione per criticare la redistribuzione della ricchezza è già di per sé eloquente.

In secondo luogo, la crescita misurata dal PIL è una misura insufficiente del benessere. Ecco perché paesi come la Spagna, il Cile e l'Italia possono avere aspettative di vita più lunghe o simili a quelle degli Stati Uniti o del Regno Unito, pur avendo un PIL pro capite significativamente più basso.

In terzo luogo, se la Ritchie fosse interessata al progresso, accoglierebbe con favore le intuizioni che il campo della decrescita ci ha offerto. In particolare, lo sviluppo di una società indipendente dall'imperativo della crescita economica è di per sé una buona cosa. Piuttosto che accettare l'inevitabile recessione che è ricorrente del ciclo di crescita del capitalismo, la decrescita cerca di migliorare il benessere umano e non umano indipendentemente dal fatto che l'economia cresca o meno. La Ritchie, come tutti i sviluppisti verdi, accetta l'inevitabile recessione come un risultato del nostro sistema dipendente dalla crescita. Si tratta di una posizione intrinsecamente conservatrice e anti-progressista.

Infine, la Ritchie sostiene che non esiste un futuro in cui potremo utilizzare meno energia rispetto al consumo energetico gonfiato e diseguale di oggi o a quello previsto per il futuro. Una conclusione così prematura da parte della Ritchie è un modo per togliere uno strumento dal nostro bagaglio prima ancora di aver provato a usarlo. Un numero crescente di studi e ricerche conclude che è possibile utilizzare meno energia di quella attuale, migliorando al contempo la qualità della vita della maggior parte delle persone. Naturalmente, ciò dipenderebbe dall'adozione di azioni politiche di ridistribuzione della ricchezza, dal ridimensionamento o dall'eliminazione dei settori dell'economia globale che non perseguono il benessere e dal dare priorità a forme di comportamento e tecnologie che richiedono livelli di consumo energetico inferiori rispetto a quelli superiori.

Ma queste spinose questioni politiche vengono eluse dalla Ritchie al fine di seguire la linea di minor resistenza e il business as usual. La decrescita è solo una delle alternative che la Ritchie ignora: si possono trovare alternative stimolanti, ecologicamente rigenerative e socialmente giuste nell'agroecologia, nel movimento municipalista o nei Green New Deal internazionalisti, solo per citarne alcune. La Ritchie può comportarsi come se non ci fossero alternative, ma è abbastanza ovvio che sostiene il sistema così com’è. Altrimenti non avrebbe scritto un libro per difendere l'apparente “progresso” che il capitalismo ha portato e presumibilmente porterà.

Spesso non è chiaro quale sia il pubblico della Ritchie o che cosa lei stia criticando. La Ritchie suggerisce che il doomismo è dilagato, ma al di là di un titolo di giornale all'inizio di ogni capitolo, è difficile sapere chi siano questi doomers[4]. Non c'è una sola volta che l'autrice indichi un individuo influente nelle parti di un doomer, un'istituzione che spacci il doomismo o un movimento politico che si basi sull'affermazione che siamo condannati. Il punto più vicino alla comprensione del doomismo da parte della Ritchie si trova alla fine del libro, quando scrive: «I catastrofisti non sono interessati alle soluzioni. Si sono già arresi».

Questo è strano.

Se il doomismo si basa sull'arrendersi e sul non risolvere i problemi, allora sarebbe difficile trovare dei doomisti influenti. Anche gli attivisti più allarmisti (la Ritchie fa riferimento in un'intervista a Roger Hallam) non sarebbero di certo caratterizzati come “doomers”. La Ritchie può essere in disaccordo con queste persone dal punto di vista politico o per il modo in cui comunicano i problemi ambientali, ma suggerire che il doomismo sia un problema fondamentale mentre non fornisce alcun esempio che sopravviva a un esame, in sostanza sta solo argomentando con una posizione che si è inventata. Per essere una persona così dedita ai fatti, ai dati e all'obiettività, almeno in apparenza, la Ritchie si basa su sensazioni, vibrazioni e sul proprio disagio soggettivo di fronte all'emergenza planetaria.

Plaudo alla Ritchie per aver cercato di alleviare l'ansia e lo stress dei giovani riguardo alla crisi ambientale. Tuttavia, avendo un'età simile alla sua, non mi sembra affatto convincente che segnalando alcuni grafici e presentandosi come un'“apolitica” possa ispirare o tranquillizzare i giovani. Soprattutto perché ciò che i giovani devono capire è che la crisi ecologica è fondamentalmente un problema politico che sarà risolto solo da una mobilitazione di massa di persone che riconquistino il potere democratico e guidino la società verso la decarbonizzazione, l'abbondanza delle specie e il benessere.

In altre parole, i giovani non hanno bisogno di una narrazione secondo cui «questo è il migliore dei mondi possibili», ma devono essere incanalati in direzioni e organizzazioni politiche radicali. La Ritchie può lasciare al lettore interessanti dati di fatto, ma oltre a diventare migliori consumatori nel capitalismo, non lascia ai giovani quasi nessuna direzione verso cui indirizzare la loro rabbia, sfiducia o ansia per il loro futuro. Per quanto mi riguarda, la cosa che mi ha alleviato lo stress, mi ha fatto sentire più realizzato, mi ha dato uno scopo e mi ha aiutato a sentirmi meno solo (cosa di cui soffrono anche i giovani), è stata quando ho incominciato a fare attivismo e dedicarmi all’organizzazione politica.

Nulla di tutto questo si trova nel suo libro.

Infatti, i suoi consigli su come agire e realizzare un «cambiamento sistemico» sono quelli di votare e acquistare prodotti ecologici per inviare segnali al mercato. Sembra che la Ritchie non stia cercando di realizzare un cambiamento sistemico su larga scala (nonostante il gesto molto vago dello slogan), altrimenti presterebbe molta più attenzione al potere politico e alla costruzione di movimenti sociali.

Fortunatamente, essa non parla per la mia generazione o per quelle che verranno dopo. Sempre più giovani capiscono che il capitalismo è ingiusto e superato e cercano invece sistemi e ideologie alternative, come il socialismo. La Ritchie offre grafici per le élite globali e la classe miliardaria al fine di alleviare le loro paure e preoccupazioni. La sua è una politica orientata a placare gli animi: piuttosto che promuovere la lotta ecologica e di classe, la Ritchie vuole abbassare i toni, anche se i giovani sono privati del presente e del futuro affinché la classe capitalista possa continuare a fare profitti.

In definitiva, i libri della Ritchie e di Rathi forniscono indicazioni su come la classe capitalistica continuerà a difendere il nostro sistema economico e sociale distruttivo. Per chi cerca alternative al capitalismo verde, questi libri aiutano a comprendere le argomentazioni dei poteri radicati e capire come possiamo contrastarle.

Mentre continua il dibattito sulla necessità o meno di abolire il capitalismo per risolvere l'emergenza ecologica, la domanda molto più interessante è se il capitalismo riuscirà a realizzare la transizione verde in modo sufficiente e in tempo, dati i suoi perversi incentivi.

Il fatto che il capitalismo venga abolito o meno entro il 2050 potrebbe essere irrilevante. Le nostre uniche opzioni non sono l'abolizione del capitalismo o l'accettazione del capitalismo verde. Piuttosto, dovremmo costruire alternative che non si basino sulle massime capitalistiche del crescere o morire, del profitto e del dominio, ma che costruiscano un potere democratico, una forte sostenibilità ecologica e il benessere per tutti.

Io so da che parte stare. E voi da che parte state?


Andrew Ahern


Note

[1] Con «climate doomism» si indica l’atteggiamento rassegnato di chi pensa che il cambiamento climatico sia ormai inarrestabile. [N.d.T]

[2] Hans Rosling, medico svedese scomparso nel 2017, è soprattutto conosciuto per aver legato il suo nome come divulgatore statistico alla creazione di grafici dinamici capaci di mostrare in modo chiaro ed avvincente l’evolversi storico di certi fenomeni. Viene probabilmente citato dall’autore per essere stato uno scienziato convinto che il mondo vada meglio di quanto crediamo, come cercava appunto di dimostrare attraverso i suoi grafici dinamici. Steven Pinker, invece, è un famoso scienziato cognitivo canadese. Probabilmente qui il recensore si riferisce al tono arrogante usato da quest’ultimo, come si intuisce indirettamente più avanti quando parla del «tono arrogante … della Ritchie». [N.d.T.]

[3] Quello cinese, al di là del ruolo dello stato e di quanto generalmente si dica e pensi il recensore, è un capitalismo a tutti gli effetti, come l’uso del denaro, la presenza del lavoro salariato, la competizione interna e internazionale e l’esistenza di una finanza speculativa lo confermano pienamente. [N.d.T.]

[4] Si è preferito lasciare il termine in inglese. Il significato è evidente. Per doomism si veda la nota 1. Abbiamo reso il successivo doomsayers derivante dallo stesso etimo con “catastrofisti” (ma anche “profeti di sventure”). [N.d.T.]


Traduzione di Alessandro Cocuzza

Fonte: Sublation Media 05.05.2024