Fonte: La Décroissance - 01.11.2020

Com’è che il cemento ha finito per invadere il nostro ambiente? Il libro Béton. Arme de construction massive du capitalisme (Cemento, Arma di costruzione di massa del capitalismo), di Anselm Jappe analizza la storia di questo materiale devastante e tanto criticato attraverso lo studio dell’architettura moderna e dell’urbanistica.


Intervista a Anselm Jappe


Fonte: Palim Psao. Pubblicata sulla rivista mensile francese: La Décroissance - nº 174, novembre 2020
Traduzione di Enrico Sanna - Pulgarias


La Décroissance
: Lei scrive: “Gli orrori dell’architettura di oggi e delle costruzioni moderne sono il risultato di una combinazione di cemento e acciaio.” Com’è che il cemento armato, comparso con l’industrializzazione del XIX secolo, è divenuto una presenza ubiqua del nostro mondo, indispensabile all’infrastruttura delle nostre società?

Anselm Jappe: Come ci siamo arrivati? I sostenitori dicono che non è colpa del cemento. Era già usato dai romani, come vediamo in particolare dalla cupola del Pantheon. È solo una miscela di sabbia, calce e acqua: una cosa innocente. Ma è un argomento ingannevole. Non è il cemento in sé, essenzialmente riscoperto nel diciottesimo secolo, ad aver trasformato il mondo, ma un cemento rinforzato, colato in “armature” d’acciaio. Che, inventato nel 1867, si diffuse rapidamente. All’inizio si scontrò con un forte scetticismo, però, e la borghesia non lo volle per le proprie abitazioni. Il principale campo d’applicazione fu l’edilizia popolare. Ma il suo vero trionfo, in tutto il mondo, iniziò soltanto dopo il 1945. La maggior parte però non è andata all’edilizia abitativa e gli edifici pubblici, ma alle infrastrutture: autostrade, parcheggi, aeroporti, sbarramenti, centrali nucleari e altro ancora, ma soprattutto dighe. Ora la Cina sta battendo tutti i record d’uso e non sembra accennare a fermarsi. Anche i “piccoli” lo usano: una parte non trascurabile della produzione mondiale di cemento “cola” negli slum e negli edifici costruiti in economia di tutto il mondo, dando ai poveri l’illusione di essere diventati “moderni”, di stare alla pari con i grandi. Poi questi edifici, costruiti con troppa sabbia e poco cemento, crollano al primo terremoto.

Perché questo enorme successo? Primo, perché il calcestruzzo è davvero economico: i suoi componenti si trovano facilmente in natura e costruire con il calcestruzzo richiede manodopera poco qualificata. Competenze e direzione dei lavori sono esclusiva di architetti e ingegneri con i loro diplomi, il che è in linea con la centralità acquisita da tecnocrati ed esperti, imposta dallo Stato, soggetta al mercato, ma slegata dagli abitanti e dai loro bisogni. La crescita demografica, le migrazioni dalle campagne alla città e le distruzioni provocate dalla guerra hanno fatto da pretesto, nell’Europa postbellica, per la cementificazione, un pretesto accettato da tutti e in seguito adottato dal resto del mondo. La tendenza alla standardizzazione e all’uniformità, che è scritta nel cuore della logica capitalista anche quando è occasionalmente ornata di “personalizzazioni” o “adattamenti al gusto”, si manifesta in questo materiale che sostituisce tutti gli altri e impone uno “stile” simile ovunque – i quartieri nuovi di Shanghai o San Paolo, Parigi o Riyadh non sono diversi tra loro, e così i loro quartieri poveri.

I danni ecologici di questo materiale sono importanti…

Il calcestruzzo ha perso la sua innocenza e oggi finisce spesso sotto accusa. Di recente, il municipio di Parigi ha annunciato la “fine del regno dell’auto, dell’asfalto e del cemento” ma la maggioranza in consiglio è divisa, a quanto pare, sul destino del cementificio di Lafarge, situato sulla riva della Senna al centro di Parigi e accusata di riversare nel fiume rifiuti inquinanti. Come per i pesticidi, la plastica o il petrolio, si scopre pian piano che i materiali presentati come soluzioni puramente tecniche a vecchi problemi dell’umanità sono in realtà legati a molti effetti collaterali assolutamente indesiderabili. Ma il calcestruzzo è scampato a lungo alle accuse del grande pubblico. Perché?

Il calcestruzzo è ritenuto meno nocivo, meno inquinante degli altri materiali citati. Ma così non è: la polvere di cemento può causare malattie respiratorie; le alte temperature richieste per la sua produzione richiedono un elevato consumo di energia, contribuendo così significativamente alle emissioni di CO2 ; l’estrazione della sabbia provoca notevoli danni alle spiagge e ai fiumi e alle condizioni di vita locali, incoraggiando i traffici criminali soprattutto nei paesi poveri; la cementificazione delle città crea “isole di calore” che rendono necessaria la climatizzazione, altra piaga moderna; la cementificazione del suolo favorisce alluvioni sempre più distruttive; il riciclaggio dei rifiuti di cemento armato, infine, raramente si fa a causa dei costi elevati.

Lei ha scritto il suo libro dopo il crollo del viadotto Morandi a Genova. Secondo lei il crollo è dovuto al materiale stesso, un cemento armato che dura pochi decenni, un fatto sintomatico della nostra era dell’obsolescenza. In che senso possiamo considerare questo crollo come “un caso da manuale dell’hybris che caratterizza al massimo grado e a tutti i livelli l’anti-civiltà capitalista”, come scrive lei? Dobbiamo aspettarci ulteriori crolli e degrado nella nostra immensa infrastruttura di cemento armato?

Qui, come in altri casi “ecologici”, il problema non consiste solo in fastidi misurabili, men che mai si tratta di rispondere ad essi con soluzioni a loro volta tecnologiche, come il cosiddetto “cemento verde”. Il cemento armato è veramente un figlio dell’era capitalista tanto quanto di quella industriale. Da questo punto di vista possiamo scoprire molti altri difetti. Come il capitalismo in generale, anche il cemento ha vita breve. Proclama “Dopo di me, il diluvio!” Il crollo del Ponte Morandi a Genova il 14 agosto 2018, ha dimostrato in modo particolarmente evidente che il calcestruzzo unito ad un’armatura in acciaio, ovvero il cosiddetto “cemento armato”, non ha una durata illimitata, come si credeva all’epoca della sua diffusione universale negli anni cinquanta e sessanta. Dopo una cinquantina d’anni, la corrosione dell’acciaio che rinforza il calcestruzzo, una corrosione praticamente inevitabile ma spesso difficile da rilevare, fa sì che la costruzione in questione necessiti di manutenzioni permanenti e costose, tanto per le autorità pubbliche soggette a vincoli quanto per i proprietari privati ​​ossessionati dalla “competitività”. È una spesa che si rimanda volentieri.

È lecito aspettarsi che le numerosissime costruzioni realizzate durante i “Trente Glorieuses”, che furono anche la grande epoca del cemento armato, usato tanto per un padiglione quanto per una diga, soffriranno presto di gravi problemi. I rapporti ufficiali sulle condizioni dei ponti negli Stati Uniti e in Europa sono preoccupanti: in Francia ben 25.000 ponti sono a rischio, secondo un rapporto parlamentare del 2019. Il “crollo della modernità” capitalista e industriale potrebbe quindi assumere un significato molto concreto, molto materiale. Ed è spaventoso immaginare le rovine che lascerà il crollo di un mondo fatto di cemento, amianto, plastica e alluminio! Certo non saranno come le rovine dell’antica Roma.

Lei dimostra anche che il calcestruzzo uniforma lo stile di vita, distrugge l’artigianato e l’habitat locale. In che senso si parla di principale materia prima di un’architettura disumanizzante e di un’urbanistica che trasforma le città in spazi geometrici dedicati alla circolazione delle macchine?

Il calcestruzzo ha giocato un ruolo centrale nella mercificazione delle abitazioni e nella costruzione massiccia di “macchine per abitare” come le chiamava, con precisione ma anche con un senso di orgoglio, Le Corbusier, che ancora oggi è apprezzato da una parte del pubblico come grande architetto e perfino grande umanista, mentre non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni autoritarie e classiste: raffinatezze per i suoi ricchi clienti, “gabbie per conigli” per gli altri. Il cemento godeva di una buona reputazione anche presso la sinistra, che lo vedeva come un materiale proletario particolarmente adatto alla diffusione degli alloggi cosiddetti “sociali”, cioè economici.

Quello che nessuno voleva vedere, salvo rare eccezioni come i situazionisti, è il fatto che abitare non può ridursi ad “avere un tetto”, così come mangiare non significa semplicemente ingerire una quantità sufficiente di calorie. In entrambi i casi entra in gioco un’ampia gamma di fattori emotivi e simbolici: abitare significa soprattutto avere il proprio posto nel mondo, stare nel mondo. Per millenni, e in tutto il mondo, l’architettura ha sempre avuto questa funzione in senso lato.

Dobbiamo poi rimproverare al cemento quello che, al contrario, è stato spesso proclamato il suo più grande merito: aver reso possibile l’architettura del novecento. Il “brutalismo” non gode più di ammirazione, ma chi è che vuole dire addio al cemento, così facile da usare e così economico? Bisogna però sottolineare che il cemento – anzi chi lo utilizza! – è il principale responsabile dell’assassinio dell’architettura “tradizionale” o “vernacolare”, nelle città così come nelle campagne. Questa era generalmente una “architettura senza architetti”, come la chiamava lo storico dell’architettura Bernard Rudofsky. Aveva però molti vantaggi: era fatta dagli abitanti stessi o da squadre locali, con poche tecnologie ma forti conoscenze specifiche; utilizzava materiali disponibili sul posto; si adattava alle condizioni climatiche del luogo; aveva solitamente una vita utile molto lunga; l’impatto ecologico era piuttosto basso; era costituita da una combinazione di criteri materiali, sociali e simbolici; infine possedeva una vasta gamma di sfumature anche all’interno dello stesso villaggio. L’architettura tradizionale non è “primitiva”, spesso presenta ottime soluzioni tecniche, frutto dell’esperienza, ad esempio riguardo l’isolamento termico. Varia da zona a zona e contribuisce così alla diversità del mondo, alla sua ricchezza, alla capacità di sfruttare le condizioni locali, e nell’insieme costituisce una delle principali testimonianze del genio umano. Aver messo da parte, o aver addirittura distrutto, questo patrimonio per sostituirlo con edifici in cemento armato, o in mattoni alveolari, ripetuti allo stesso modo centinaia di volte nello stesso luogo, un giorno apparirà sicuramente come una delle più grandi follie tra le non poche dell’era capitalista e industriale.

Naturalmente, costruire con la pietra lavorata richiede molto più tempo, che nel capitalismo significa più denaro. Se vogliamo che una casa cada a pezzi quando il proprietario ha finito di pagare il mutuo, così da iniziare un’altra costruzione con il “rientro sull’investimento”, se vogliamo i “posti di lavoro”, la “crescita economica”, allora la pietra non conviene. Se invece capiamo, come diceva William Morris già nell’ottocento, che un edificio fatto così dura a lungo e permette alla società di “fare una pausa”, allora la pietra è la scelta adatta. Ma il capitalismo è riuscito a trasformare uno dei materiali più antichi del mondo in un lusso per i ricchi! Con questi materiali sono scomparsi anche il sapere artigianale pazientemente accumulato nei secoli, lo spirito del costruire collettivamente, e in generale l’arte di abitare come qualcosa che fa parte dell’arte di vivere, a tutti i livelli.

“La critica dell’architettura, e del cemento in particolare, costituisce il punto di congiunzione ideale tra la critica del capitalismo, come sistema economico e sociale, e la critica della società industriale”, scrive lei nel suo epilogo. Perché questo punto di congiunzione è una guida importante oggi?

C’è un legame passionale tra la modernità capitalista e il cemento, poco visibile e molto “incosciente”. Accumulazione di capitale significa accumulazione di denaro, e questo significa accumulazione di quantità di valore. Il valore (nel senso marxiano) è dato dal lavoro astratto, cioè il lato astratto del lavoro: il lavoro considerato unicamente come quantità di energia umana spesa, misurata in tempo di lavoro. Il lato astratto del lavoro è l’unico che conta dal punto di vista capitalista, come vediamo nella subordinazione dell’intera vita alla logica del denaro e alla sua moltiplicazione. Da questo punto di vista tutti i lavori sono uguali, conta solo la quantità di valore che producono, e tutti i valori d’uso sono solo “portatori” di questa astrazione fondamentale, sempre uguale, che è il valore delle merci create dal lavoro astratto. Marx definisce una “gelatina” questa massa amorfa di lavoro astratto.

E, materialmente, cosa corrisponde meglio a questa “gelatina” di certi materiali come la plastica o il cemento? Artificiali, sempre identici, estranei al loro ambiente, capaci di assumere qualsiasi forma senza averne una propria: il cemento è perfetto per concretizzare, materializzare questa astrazione fondamentale e immateriale che domina la società moderna. Se ricordiamo che il cemento in inglese si chiama concrete (vedi la Concrete Jungle di Bob Marley), possiamo dire, giocando un po’ con le parole, che il cemento è il lato concreto dell’astrazione capitalista. Certo, nessun imprenditore vi dirà che è per questo che preferisce costruire in cemento: ma il cemento ha le sue ragioni che la ragione non conosce.

Per questo il cemento e il suo mondo stanno nel punto d’incontro tra la critica del capitalismo e la critica della società industriale: non è un materiale “neutrale”, di cui il capitalismo abusa, ma che potrebbe servire a fini più nobili. La sua struttura è di per sé criticabile e le sue applicazioni lo sono ancora di più. Questo esempio dovrebbe quindi costituire l’occasione per legare la critica della società industriale a quella del capitalismo, inteso non solo come dominio di una classe sull’altra, ma anche come accumulazione tautologica e insensata di valore attraverso il lavoro. Non è vero che le tecnologie non sono, come dice qualcuno, “né buone né cattive in sé” e che tutto dipende dall’uso che se ne fa. Non è così, ad esempio, per il nucleare, o per l’ingegneria genetica. L’esempio del cemento ci insegna, d’altra parte, che anche tecniche apparentemente “non apocalittiche”, quasi “innocenti” sono, nella loro stessa struttura, legate al capitalismo e non possono che svilupparsi in questo regime a cui esse a loro volta danno la vita. Non dobbiamo pertanto cadere nella critica del cemento senza mettere in discussione la società capitalista che lo ha promosso – sennò cadiamo nel greenwashing, nei quartieri ecologici di Google – o denunciare il capitalismo senza preoccuparci dei suoi materiali e delle sue tecniche – altrimenti finiamo per chiedere al governo la costruzione di altri complessi popolari.