Fonte: Climate&Capitalism - 12.09.2023

Alcuni esponenti della sinistra sostengono che "socialismo della decrescita" significherebbe una privazione di massa. Richard Seymour risponde che il socialismo mira a migliorare la qualità della vita, e questo potrebbe significare produrre meno cose.



In questo momento è in corso un dibattito sulle banane, tipo test di Rorschach, che - non sono fatto di pietra - riguarda per lo più le banane.

L'argomento [del dibattito] è l'affermazione che i consumatori della classe operaia del “Nord globale” potrebbero avere meno merci con l'ecosocialismo che con il capitalismo. Ciò che nel capitalismo è razionale produrre e trasportare in mezzo mondo, potrebbe non esserlo altrettanto nell'ecosocialismo. In realtà, le banane sono un cattivo esempio. La loro impronta di carbonio non è molto grande e potrebbe essere ridotta. La carne allevata tra i resti delle foreste pluviali brasiliane, o l'olio di palma prodotto in piantagioni monocolturali in Indonesia, sarebbero esempi migliori.

La risposta di gran lunga migliore a questo dibattito è di Arun Gupta, su Dissent Magazine, il quale suggerisce che possiamo fare di meglio che scegliere tra più o meno alimenti di scarsa qualità. È povero prometeismo pensare che il socialismo consista nell'offrire ai lavoratori più di ciò che il capitalismo già fornisce: elude, la questione del desiderio, rispetto al quale tutte le privazioni e le abbondanze sono relative.

Ma l'ipotesi che i lavoratori abbiano meno necessità di qualcosa è profondamente scatenante per un certo tipo di socialista. E come la campanella di Pavlov per un cane affamato, [questa ipotesi] ha provocato l’uso sbavante della parola “austerità” in più di un'occasione. Il dibattito è reso più grossolano da questi rozzi tic, che probabilmente hanno avuto origine da Leigh Phillips del Breakthrough Institute.

L'austerità non può essere sintetizzata come una “politica del meno”, soprattutto dove “meno” significa meno prodotti come i viaggi aerei o la carne bovina. Non si tratta di austerità se, in un'economia democraticamente pianificata, concordiamo collettivamente di fare a meno di questo o quel prodotto. Leggere l'austerità in questo modo significa darle un'inflessione curiosamente depoliticizzata, priva dell'analisi di classe.

Lo scopo dell'austerità, in parole povere, è far pagare ai lavoratori la crisi del capitalismo, per isolare il sistema dalle sfide democratiche prodotte da quella crisi e, con gli stessi mezzi, consentire la ripresa dell'accumulazione del capitale su basi più redditizie. In questo senso, è decisamente dalla parte della “crescita”. Ed è anche contro-democratica. L'austerità inizia con la logica dell'emergenza, solitamente causata da una crisi del debito pubblico, che scavalca le normali procedure democratiche.

Quasi sempre [l'austerità] comporta la chiusura temporanea dello spazio per il dibattito nei media nazionali, la creazione di speciali apparati “indipendenti” per supervisionare i tagli fiscali, e l'investimento di un'autorità speciale in istituzioni finanziarie internazionali  irresponsabili. Poiché un discorso ferocemente moralizzante è diretto a precedenti lassismi nella spesa statale, ai diritti e alle conquiste, l'unico dibattito consentito è come liberare efficacemente lo Stato da queste implicazioni.

È necessario precisare che limitare la “crescita”, in un'economia pianificata democraticamente, anche se fosse sbagliata, anche se si basasse su un ragionamento errato, non assomiglia in alcun modo a un regime di austerità capitalistica?

Perché, allora, questo ideologema continua ad essere riproposto?

È a causa dell'innata difficoltà di immaginare un'economia pianificata che non sia diretta da una versione riformata e ampliata dell'attuale Stato capitalista, tale da dover “imporre” dei vincoli?

È a causa della difficoltà di immaginare un desiderio utopico che non si limiti ad aumentare e infiammare i desideri già suscitati dal mercato mondiale capitalista?

È a causa di un'interpretazione dottrinaria di “ciò che dice Marx”, in cui il socialismo è tendenzialmente interpretato come lo scatenamento dei già prodigiosi poteri produttivi del capitale?

È forse a causa del sospetto che la gente non sia pronta a rinunciare ai propri giocattoli per un illusorio socialismo della decrescita?

Qualunque sia la ragione, i sostenitori, non meno dei detrattori della decrescita, sono fissati sul pensiero quantitativo, sull'idea che tutto dipenda dall'espansione o dalla contrazione della quantità netta di prodotto, come se il cambiamento che cerchiamo non fosse radicalmente qualitativo. Come se lo scopo fosse accumulare più “cose”, piuttosto che migliorare radicalmente la qualità della vita di tutti. E da questo punto di vista, anche un drastico miglioramento delle condizioni di vita della maggior parte dei lavoratori potrebbe, attraverso la camera obscura, sembrare “austerità” anche se significa “fare a meno” di alcune cose.

Richard Seymour

Traduzione di Alessandro Cocuzza - Redazione di Antropocene.org

Fonte: Climate&Capitalism 12.09.2023


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