Sotto un cielo bianco. La natura del futuro, di Elizabeth Kolbert, Neri Pozza, 2022.

Dopo La sesta estinzione, Elizabeth Kolbert prosegue la sua indagine sul cambiamento climatico e analizza alcune recenti tecnologie messe in atto per invertire la caduta verticale verso il disastro irreversibile.

Nel 1962 la biologa Rachel Carson, considerata madre dell’ambientalismo, in Primavera silenziosa metteva in guardia il mondo contro l’uso di pesticidi, una clava contro gli esseri viventi. Oggi, sessant’anni dopo, nel bel mezzo dell’Antropocene, l’era geologica in cui la profezia dell’uomo dominatore «su tutta la terra e su ogni rettile che vi strisci sopra» si è fatta realtà, lasciare che la natura ripari sé stessa non sembra più un’opzione percorribile.

Dopo La sesta estinzione che le è valso il Pulitzer, Elizabeth Kolbert riprende la parola con autorevolezza nel dibattito globale sul cambiamento climatico per analizzare da vicino alcune recenti, raffinatissime tecnologie messe in atto per invertire quella caduta verticale verso il disastro irreversibile. Partendo dunque dal presupposto che nemmeno l’immediata (e inattuabile) dismissione di secoli di progresso tecnologico ci restituirebbe ipso facto la natura, bisogna guardare con attenzione a tutti i tentativi di salvare il pianeta. Anche ai più stravaganti, anche a quelli più pericolosi. Perché, in effetti, il paradosso dell’Antropocene è la ricerca di soluzioni tecnologiche a problemi creati da chi cercava a sua volta soluzioni tecnologiche a problemi precedenti.

Kolbert dunque incontra biologi che cercano di preservare il pesce più raro del mondo che vive in una minuscola pozza nel deserto del Mojave, ingegneri islandesi che trasformano l’anidride carbonica in roccia, ricercatori australiani che tentano di selezionare un supercorallo che sopravviva al mare troppo caldo e acido, genetisti che modificano specie animali per farle estinguere, fisici che progettano di sparare nella stratosfera microscopici diamanti che intercettino la luce solare, raffrescando la terra ma cambiando il colore del cielo.

Sono diecimila anni che l’umanità si esercita a sfidare la natura, e se Kolbert nel libro precedente aveva esplorato i modi in cui la nostra capacità di distruzione ha rimodellato il mondo naturale, ora invita a concentrarsi sulle sfide che ci attendono. Anche se si tratta di fiumi elettrificati, di roditori e rospi “riprogettati”, di grotte finte, del cielo sopra le nostre teste che potrebbe diventare bianco.

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Correggere il mondo è peggio che non toccarlo

- di Fabio Deotto -

C'è un aneddoto che ricorre nelle lezioni universitarie di zoologia e biogeografia, e riguarda la Lissachatina fulica, nota anche come lumaca gigante africana. Nel 1936 l’esercito americano decise di introdurla nelle isole Hawaii: l’idea era di sfruttare queste chiocciole grosse quanto il palmo di una mano adulta come riserva di cibo, ma nel giro di pochi anni alcuni esemplari scapparono e furono liberi di diffondersi. E poiché questa lumaca è in grado di cibarsi praticamente ogni cosa, dalle piante, ai roditori, al cartone, fino allo stucco delle case, ben presto si rese necessario sbarazzarsene. Per farlo, il governo americano pensò bene di introdurre nelle isole un’altra lumaca africana, l’Euglandina rosea, che però, invece di prendere di mira la specie infestante si orientò sulle lumache autoctone, più piccole e facili da cacciare. Nel giro di dieci anni questa mossa portò all’estinzione di otto lumache endemiche. Oltre a essere utile allo studio delle specie invasive, questo aneddoto aiuta a cogliere i pericoli dell’attitudine soluzionista che innerva le società occidentali.

Nel suo nuovo saggio, Sotto un cielo bianco (Neri Pozza), la giornalista americana Elizabeth Kolbert affronta le derive ambientali e climatiche di questa tendenza, concentrandosi in particolare sulla nostra incapacità di prevedere le conseguenze trasversali dei singoli interventi e su come questo limite cognitivo ci renda ancora più difficile adattarci a un mondo più caldo e instabile.

La crisi ambientale in cui ci troviamo, infatti, non è legata soltanto all’enorme quantità di gas serra che abbiamo sputato nell’atmosfera, ma anche a secoli di intervento diretto sugli ecosistemi: abbiamo trasformato direttamente più della metà della superficie terrestre, abbiamo arginato e deviato la maggior parte dei grandi fiumi, abbiamo innescato una sesta estinzione di massa. Nel tentativo di risolvere problemi che percepivamo come isolati, ne abbiamo prodotti innumerevoli altri, spesso impossibili da individuare per tempo.

Kolbert ci accompagna in un illuminante viaggio alla scoperta della nostra illusione di controllo, e lo fa partendo dalla Louisiana. Quando nel 1718 i francesi decisero di fondare la città di New Orleans su un’ansa rialzata del Mississippi, ossia uno dei fiumi più tortuosi e instabili al mondo, sapevano bene di mettersi in una situazione di rischio; le tribù native che popolavano il delta da secoli li avevano avvertiti: non si possono creare insediamenti stabili in riva al fiume, bisogna sempre tenersi pronti a spostarsi più in alto a ogni esondazione. Ma i fondatori erano di altro avviso: se il fiume rischiava di esondare allora andava commissariato, chiuso dentro altissimi argini. Il risultato è che il sedimento che un tempo andava a nutrire i terreni circostanti oggi finisce tutto sputato nel Golfo del Messico, il terreno ancora giovane si sta compattando e la Louisiana si sta rapidamente inabissando nel Golfo del Messico. New Orleans è già 4 metri sotto il livello del mare, 31 aree più a sud sono state cancellate dalle cartine.

Raccontare un mondo già drammaticamente cambiato non è mestiere facile: bisogna superare i limiti cognitivi, culturali e percettivi che appesantiscono il nostro sguardo. Per farlo, Kolbert ha scelto gli strumenti del reportage, facendosi veicolo narrativo delle storie di chi sta sviluppando strategie di adattamento visionarie, dalla creazione di supercoralli capaci di sopravvivere in oceani più caldi e acidi, all’iniezione di particelle di zolfo, o addirittura di diamante, nella stratosfera per schermare l’irraggiamento solare. Kolbert è brava a mantenersi in equilibrio tra un malcelato fascino per l’ingegnosità di queste imprese e la necessità di mostrarne il rovescio potenzialmente catastrofico. Nessuna delle «soluzioni» descritte è del tutto sicura, anzi: nella maggior parte dei casi i rischi superano abbondantemente i vantaggi.

Il cielo bianco a cui fa riferimento il titolo è una delle possibili conseguenze della scelta di pompare migliaia di tonnellate di solfuro nella stratosfera ogni anno. Ed è una delle meno problematiche. Se è vero che un intervento simile potrebbe aiutare a raffreddare rapidamente il nostro pianeta, è anche vero che si tratterebbe di una soluzione temporanea: «Se per una ragione qualunque (una guerra, una pandemia, risultati insoddisfacenti) si smettesse di pompare zolfo — scrive Kolbert - sarebbe come aprire lo sportello di un forno grande quanto il pianeta. Tutto il riscaldamento tenuto nascosto si manifesterebbe improvvisamente».

La scelta di tendere un filo che inanelli le storie di «persone che stanno cercando di risolvere problemi creati da altre persone che cercavano di risolvere problemi» è efficace, ma quando si tratta di chiudere la collana le estremità non si allacciano saldamente. Dopo averne esibito tutte le controindicazioni, Kolbert non riesce a non lasciare la porta del soluzionismo tecnologico socchiusa, e sul finale lascia intendere che alcune di queste iniziative rischiose potrebbero rivelarsi inevitabili, considerando l’urgenza della situazione climatica. Dopo averci accompagnato per 200 pagine in un ubriacante viaggio nel mondo che ci aspetta, insomma, Kolbert lascia a noi il compito di compiere l’ultimo passo. Che però è un passo fondamentale. Perché se è vero che dobbiamo prendere atto che «ci aspetta un futuro in cui la natura non sarà del tutto naturale», è anche vero che il nostro primo obiettivo dovrebbe essere ridurre l’intervento umano al minimo, e in definitiva sostituire la nostra illusione di controllo con una disposizione alla cura dei sistemi esistenti, sedimentati nel corso di un periodo post-glaciale insolitamente stabile e sostanzialmente irrecuperabile. È vero, possiamo anche continuare a studiare come indurre mutazioni ereditarie in colonie infestanti di rospi velenosi, ma dovremmo sempre tenere a mente che la natura segue direzioni e dinamiche che ancora ci sono ignote, ed è sempre un passo avanti a noi. Dopotutto, a quasi un secolo di distanza, le chiocciole giganti africane continuano a sfuggire ai nostri tentativi di eradicazione.


Fabio Deotto - La Lettura - 26.06.2022