Fonte: Nature -  22.06.2021

Molto prima che gli uomini inventassero l’agricoltura, macinavano i cereali per stufati sostanziosi e altri piatti ricchi di amido.

In una giornata limpida, la vista dalle rovine di Göbekli Tepe si estende su tutta la Turchia meridionale fino al confine siriano, a circa 50 Km. di distanza. Questo sito archeologico posto in cima a una montagna presenta quello che è stato descritto come il tempio più antico del mondo, databile intorno a 11.600 anni fa, così antico, infatti, che i suoi pilastri a forma di T e i suoi recinti circolari risalgono a prima della comparsa dell’artigianato della ceramica nel Medio Oriente.

Le persone che hanno costruito queste strutture monumentali vissero poco prima di un'importante transizione nella storia umana: la rivoluzione neolitica, quando gli umani iniziarono a coltivare la terra e ad addomesticare gli animali. Ma a Göbekli Tepe non ci sono tracce di grano coltivato, il che suggerisce che i suoi residenti non avevano ancora fatto il salto avvenuto con l’invenzione dell'agricoltura. Il gran numero di ossa di animali trovate nelle rovine dimostrano che le persone che vivevano lì erano abili cacciatori; sono state inoltre rinvenute tracce di grandi feste. Gli archeologi hanno suggerito che gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori provenienti da tutta la regione si riunissero a volte in quel luogo per enormi barbecue e che questi banchetti di carne li abbiano portati a costruire le imponenti strutture in pietra.

Ora, questa interpretazione è stata messa in discussione, grazie a ricercatori come Laura Dietrich del Deutsches Archäologisches Institut di Berlino. Negli ultimi quattro anni, la Dietrich ha scoperto che le persone che costruirono queste antiche strutture si alimentavano attingendo a tini pieni di porridge e stufato di cereali, che questi antichi residenti macinavano e lavoravano su scala quasi industriale [1]. Le tracce trovate a Göbekli Tepe rivelano che gli antichi esseri umani facevano affidamento sui cereali molto prima di quanto si pensasse in precedenza, ancor prima che compaiano prove che queste piante si cominciasse a coltivarle. E il lavoro della Dietrich si inserisce in un crescente filone di ricerca che sta studiando più da vicino il ruolo che i cereali e altri amidi hanno avuto nella dieta degli uomini preistorici.

I ricercatori stanno utilizzando un'ampia gamma di tecniche, dall'esame di segni microscopici su utensili antichi all'analisi dei residui di DNA all'interno di vasi. Alcuni ricercatori hanno provato persino a preparare sperimentalmente pasti di dodicimila anni fa usando metodi di quel tempo. Guardando ancora più indietro, le prove suggeriscono che alcune persone mangiavano piante amidacee più di centomila anni fa. Nel loro insieme, queste scoperte confutano l'idea di vecchia data che i primi uomini vivessero principalmente di carne, una visione che ha fatto da supporto all’affermazione della cosiddetta paleo dieta, popolare negli Stati Uniti e altrove, che raccomanda di evitare cereali e altri amidi.

Il nuovo lavoro colma una grande lacuna nella comprensione dei tipi di alimenti che componevano le antiche diete. «Stiamo raggiungendo una massa critica di materiali per dedurre che ci manca una nuova categoria», afferma Dorian Fuller, un archeobotanico dell'University College di Londra.


Un giardino di macine di pietra

Le scoperte della Dietrich sulle feste a Göbekli Tepe sono iniziate nel "giardino di pietra" del sito. Questo è il nome che gli archeologi hanno dato sprezzantemente a un campo vicino dove hanno scaricato macine di basalto, trogoli di calcare e altri grandi massi di pietra lavorata trovati tra le rovine.

Mentre negli ultimi due decenni gli scavi proseguivano, la collezione di macine, afferma la Dietrich, è cresciuta senza che nessuno ci facesse caso. «Nessuno ci ha pensato». Quando ha iniziato a catalogarle nel 2016, la studiosa è rimasta sbalordita dai numeri. Il "giardino" copriva un'area delle dimensioni di un campo da calcio e conteneva più di diecimila macine e quasi seicentocinquanta piatti e recipienti di pietra scolpita, alcuni abbastanza grandi da contenere fino a duecento litri di liquido.

«Nessun altro insediamento nel Vicino Oriente ha così tante macine, anche nel tardo Neolitico, quando l'agricoltura era ormai ben consolidata», afferma la Dietrich. «E ha un'intera gamma di vasi di pietra, di ogni dimensione immaginabile. Perché così tanti vasi di pietra?». Sospettava che servissero a macinare il grano per produrre zuppe di cereali e birra. Gli archeologi avevano a lungo sostenuto che i tini di pietra nel sito fossero la prova di un consumo occasionale di birra cerimoniale a Göbekli Tepe, ma lo consideravano un piacere raro.

Sottovalutare le risposte che ci provengono dalle pietre lì e in altri siti non è un processo semplice. In archeologia è molto più facile individuare tracce di farine di carne rispetto a quelle di cereali o altre piante. Questo perché le ossa degli animali macellati si fossilizzano molto più facilmente dei resti di un banchetto vegetariano. La natura fragile dei resti di piante antiche rende l'archeobotanica – lo studio di come gli antichi usavano le piante – un lavoro complicato e che richiede tempo. I ricercatori usano setacci, reti fini e secchi per lavare e separare i detriti nei siti archeologici. Minuscoli frammenti di materiale organico come semi, legno carbonizzato e cibo bruciato galleggiano verso l'alto, mentre lo sporco più pesante e le rocce, affondano.

La stragrande maggioranza di ciò che emerge è costituito dalle materie prime, i pezzi che non sono mai arrivati ​​in una pentola. Identificando e contando semi d'erba, chicchi di grano e vinaccioli mescolati nel terreno, gli archeobotanici possono dire cosa stava crescendo nell'area intorno all'insediamento. Quantità insolite di una data specie offrono prove circostanziali che quelle piante potrebbero essere state usate, e forse coltivate, in passato.

Alcune delle prime prove della coltivazione di piante, ad esempio, provengono da chicchi di grano di farro trovati in un sito vicino a Göbekli Tepe che sono leggermente diversi per forma e genetica dalle varietà selvatiche [2]. A Göbekli Tepe stesso, i grani sembrano selvatici, suggerendo che l'agricoltura non si era ancora sviluppata o era nelle sue prime fasi. (Gli archeologi sospettano che potrebbero essere passati dei secoli prima che la coltivazione alterasse la forma dei grani).

Prove dirette di quali piante venissero cucinate sono più difficili da trovare. Per capire cosa mangiassero le persone, gli archeologi si rivolgono a fonti precedentemente ignorate, come pezzi di cibo carbonizzati. Sono gli errori del passato: stufati e polenta lasciati troppo a lungo sul fuoco, o pezzi di pane lasciati cadere nel focolare o bruciati nel forno. «Chiunque abbia cucinato un pasto sa che a volte si brucia», afferma Lucy Kubiak-Martens, un archeobotanico che lavora per BIAX Consult Biological Archaeology & Environmental Reconstruction a Zaandam, nei Paesi Bassi.

Fino ad anni recenti, a questi resti di pasti rovinati difficili da analizzare, raramente veniva riservata particolare attenzione. «È un tipo di materiale difficile. È roba fragile e brutta», afferma Andreas Heiss, un archeobotanico dell'Accademia austriaca delle Scienze a Vienna. «La maggior parte dei ricercatori li ha semplicemente trascurati». I frammenti di ceramica incrostati di resti di cibo sono stati ripuliti o scartati come «materiale grezzo», e resti di cibo carbonizzato sono stati liquidati come «probabile cibo» non analizzabile e accantonati o gettati via.

Il primo passo per cambiare questa percezione è stato tornare in cucina. Questa è stata l'ispirazione di Soultana Valamoti, un archeobotanico dell'Università «Aristotele» di Salonicco in Grecia che, non a caso, è anche un'appassionata di cucina. La Valamoti ha trascorso i primi anni della sua carriera trasportando secchi e setacci da un sito di scavo all'altro in tutta la Grecia, il tutto mentre setacciava i magazzini dei musei alla ricerca di antichi resti di piante da analizzare. Il lavoro l'ha convinta che c'era una quantità di prove non sfruttate nei resti di cibo bruciato, se fosse riuscita a trovare un modo per identificare ciò che stava esaminando.

Più di venti anni fa, la Valamoti ha deciso di trasformare il suo laboratorio in una cucina sperimentale. Ha macinato e bollito il grano per fare il bulgur, quindi lo ha carbonizzato in un forno per simulare un incidente di cucina di tanto tempo fa (si veda «Food remains from Bronze Age-Archondiko and Mesimeriani Toumba in northern Greece?»). Confrontando i resti bruciati con campioni di quattromila anni fa provenienti da un sito nel nord della Grecia, è stata in grado di dimostrare che le versioni antiche e moderne corrispondevano e che questo modo di preparare il grano aveva le sue radici nell'Età del bronzo [3].


Fonte: Soultana Maria Valamoti
et al./J. Archaeol. Sci.

 
Nel decennio seguente, la Valamoti continuò a sperimentare. A partire dal 2016, una borsa di studio del Consiglio Europeo della Ricerca le ha permesso di creare una collezione di riferimento di oltre trecento tipi di campioni antichi e sperimentali di cibo abbrustolito e carbonizzato. Dopo aver preparato la pasta per il pane, il pane cotto, il porridge, il bulgur e un alimento tradizionale chiamato trachana dal grano e dall'orzo cimelio, la Valamoti ha carbonizzato ogni campione in un forno in condizioni controllate.

Quindi ha ingrandito i risultati abbrustoliti da 750 a 1.000 volte per identificare i cambiamenti rivelatori nella struttura cellulare causati dai diversi processi di cottura. Che siano bolliti o freschi, macinati o interi, secchi o ammollati, i grani hanno un aspetto diverso ad alto ingrandimento. La cottura del pane lascia dietro di sé bolle rivelatrici, ad esempio, mentre bollire il grano prima di carbonizzarlo, dice Valamoti, gelatinizza l'amido. «E possiamo vedere tutto questo al microscopio elettronico a scansione».

Confrontando i campioni antichi con i suoi esperimenti moderni, Valamoti è stata in grado di andare oltre l'identificazione delle specie vegetali per ricostruire i metodi di cottura e i piatti dell'antica Grecia. Ci sono prove che le persone nella regione mangino bulgur da almeno 4.000 anni [4]. Bollendo l'orzo o il grano e poi essiccandolo per lo stoccaggio e la successiva rapida reidratazione, afferma Valamoti, «puoi lavorare il raccolto in grandi quantità e sfruttare il sole caldo». «Quindi puoi usarlo tutto l'anno. Era il fast food di una volta».

Anche altri ricercatori stanno cercando di trovare tracce di antichi errori di cottura. I resti di cibo carbonizzato «ci stanno fornendo prove dirette sul cibo», afferma Amaia Arranz-Otaegui, archeobotanica del Museo di Storia Naturale di Parigi. «Questo è rivoluzionario. È una fonte di informazioni senza precedenti».

In passato è stato difficile, per i ricercatori, trovare prove concrete che i nostri lontani antenati mangiassero piante. «Abbiamo sempre sospettato che l'amido fosse nella dieta dei primi ominidi e dei primi Homo sapiens, ma non ne avevamo le prove», afferma Kubiak-Martens.

I dati genetici supportano l'idea che le persone mangiassero amido. Nel 2016, ad esempio, i genetisti hanno riferito [5] che gli esseri umani hanno più copie del gene che produce enzimi per digerire l'amido rispetto ai nostri parenti primati. «Gli esseri umani hanno fino a venti copie mentre gli scimpanzé ne hanno due», afferma Cynthia Larbey, archeobotanica dell'Università di Cambridge (UK). Quel cambiamento genetico nel lignaggio umano ha contribuito a plasmare la dieta dei nostri antenati, e ora la nostra. «Ciò suggerisce che c'è un vantaggio selettivo nelle diete ad alto contenuto di amido per l'Homo sapiens».

Per trovare prove a sostegno nella documentazione archeologica, Larbey si è rivolto ai focolari di cottura in siti in Sudafrica risalenti a centoventimila anni fa, raccogliendo pezzi di materiale vegetale carbonizzato, alcuni delle dimensioni di un’arachide. Al microscopio elettronico a scansione, ha identificato il tessuto cellulare da piante amidacee [6], la prima prova di cottura di piante amidacee da parte dei nostri antenati. «Tra i centoventimila e i sessantacinquemila anni fa, essi cucinavano radici e tuberi», afferma Larbey. Le prove sono notevolmente coerenti, aggiunge, in particolare rispetto ai resti di animali dello stesso sito. «Nel tempo cambiano le tecniche e le strategie di caccia, ma continuano comunque a cucinare e a mangiare piante».

I primi umani probabilmente seguivano una dieta equilibrata, ricorrendo per le calorie alle piante amidacee quando la selvaggina era scarsa o difficile da cacciare. «Ed essere in grado di reperire i carboidrati mentre si spostavano in nuovi ambienti, avrebbe fornito importanti alimenti di base», aggiunge Larbey.

Le prove suggeriscono che le piante erano popolari anche tra i Neanderthal. Nel 2011, Amanda Henry, una paleoantropologa ora all'Università di Leiden nei Paesi Bassi, ha pubblicato le sue scoperte sulla placca dentale prelevata dai denti di uomini di Neanderthal sepolti in Iran e Belgio tra quarantaseimila e quarantamila anni fa. I microfossili vegetali intrappolati e conservati nella placca indurita hanno mostrato che stavano cucinando e mangiando cibi amidacei tra cui tuberi, cereali e datteri [7]. «Le piante sono onnipresenti nel nostro ambiente», afferma Henry, «e non c'è da sorprendersi se le usiamo».

Lo scorso maggio, Christina Warinner, paleogenetista dell'Università di Harvard a Cambridge, nel Massachusetts, e i suoi colleghi hanno riferito di aver estratto DNA batterico dalla placca dentale dei Neanderthal, compreso un individuo di centomila anni fa proveniente dall'attuale Serbia. Le specie trovate ne includevano alcune specializzate nella scomposizione dell'amido in zuccheri, supportando l'idea che i Neanderthal si fossero già adattati a una dieta ricca di piante [8]. La placca sui denti dei primi esseri umani moderni condivideva un profilo batterico simile, fornendo ulteriori prove per suggerire che si nutrivano di piante amidacee.

I reperti respingono l'idea che i nostri antenati trascorressero il loro tempo seduti intorno ai fuochi da campo per lo più masticando bistecche di mammut. È un'idea che è penetrata nella cultura popolare grazie ai sostenitori della paleo dieta che affermano che i cereali, le patate e altri cibi ricchi di amido non hanno posto nei nostri piatti perché i nostri antenati cacciatori-raccoglitori non si sono evoluti per mangiarli.

Ma ormai è chiaro che i primi umani cucinavano e mangiavano carboidrati quasi da quando potevano accendere il fuoco. «L'idea antiquata che i cacciatori-raccoglitori non mangiassero cibi amidacei non ha senso», afferma Fuller.


Cuochi invisibili

La spinta a capire meglio come gli umani cucinassero in passato, sollecita anche a prestare maggiore attenzione ai cuochi stessi. Guardare alle attività domestiche e alla vita quotidiana fa ormai parte di una crescente tendenza in archeologia. «Essenzialmente, stiamo cercando di capire che tipo di informazioni puoi trovare su persone su cui non sono mai state scritte storie», afferma Sarah Graff, un'archeologa dell'Arizona State University di Tempe.

In passato, quando i ricercatori trovavano resti di piante nei siti archeologici, spesso li consideravano come «ecofatti» accidentali: oggetti naturali, come semi, polline e legno bruciato, che offrono prove sul tipo di piante che crescevano in una regione. Ma si è cominciato a considerare i resti di cibo in modo diverso, appunto come prova di un'attività che richiedeva esperienza, intenzione e abilità. «Il cibo preparato deve essere considerato prima di tutto un artefatto e poi una specie», afferma Fuller. «Riscaldato, fermentato, macerato: fare il cibo è come fare un recipiente di ceramica».

E, poiché i ricercatori collaborano sempre più per confrontare i resti antichi, stanno trovando notevoli somiglianze nel tempo e nelle culture. Ad esempio, in alcuni siti neolitici in Austria risalenti a più di 5.000 anni fa, gli archeologi hanno rinvenuto croste carbonizzate di forma insolita. Era come se il contenuto di una grande giara o pentola fosse stato riscaldato finché il liquido non si fosse consumato e la crosta secca, all'interno, avesse cominciato a bruciare. La prima ipotesi del team è stata che le croste provenissero da barattoli di stoccaggio del grano distrutti in un incendio. Ma al microscopio elettronico a scansione, le pareti cellulari dei singoli grani sembravano insolitamente sottili – un segno, dice Heiss, che era successo qualcos'altro.

Dopo aver confrontato i reperti austriaci con croste simili trovate nei birrifici egiziani dello stesso periodo, Heiss e Valamoti hanno concluso che le pareti cellulari sottili erano il risultato della germinazione, o malto, un passaggio cruciale nel processo di produzione della birra. Questi primi agricoltori austriaci producevano birra [9]. «Siamo arrivati ​​a conclusioni completamente diverse» dalle ipotesi precedenti, dice Heiss. «Numerose linee di prova si sono davvero intrecciate e sono andate a posto».

Il pane, a quanto pare, va collocato ancora più indietro. Arranz-Otaegui stava lavorando in un sito di quattordicimila cinquecento anni fa, in Giordania, quando ha trovato frammenti carbonizzati di «probabile cibo» nei focolari di antichi cacciatori-raccoglitori. Quando ha mostrato le immagini al microscopio elettronico a scansione del materiale, a Lara González Carretero, un archeobotanico del Museum of London Archaeology che lavora sulle prove della cottura del pane in un sito neolitico in Turchia chiamato Çatalhöyük, entrambi i ricercatori sono rimasti scioccati. Le croste carbonizzate provenienti dalla Giordania avevano bolle rivelatrici, che mostravano che erano pezzi di pane bruciati [10].

La maggior parte degli archeologi ha ipotizzato che il pane non sia apparso nella dieta fino a quando il grano non fosse stato coltivato, cinquemila anni dopo l'incidente di cottura in questione. Quindi sembra che i primi fornai in Giordania usassero il grano selvatico.

Le prove forniscono indizi cruciali sulle origini della rivoluzione neolitica, quando le persone iniziarono a stabilirsi, a coltivare grano e addomesticare gli animali, cosa che avvenne in tempi diversi in varie parti del mondo. Prima dell'inizio dell'agricoltura, una pagnotta di pane sarebbe stata un prodotto di lusso che richiedeva un lavoro lungo e noioso per raccogliere il grano selvatico necessario per la cottura. Questo ostacolo avrebbe potuto aiutare a stimolare cambiamenti cruciali.

La ricerca di Arranz-Otaegui suggerisce che, almeno nel Vicino Oriente, la domanda di pane potrebbe essere stata un fattore che ha spinto le persone a tentare di coltivare il grano, mentre cercavano modi per garantire una fornitura costante di prodotti da forno. «Quello che stiamo vedendo in Giordania, ha implicazioni per processi più grandi. Ciò che ha guidato la transizione verso l'agricoltura è una delle questioni fondamentali in archeologia», afferma Arranz-Otaegui. «Questo mostra che i cacciatori-raccoglitori usavano i cereali».

La prossima frontiera per gli archeobotanici sono le insalate preistoriche. I ricercatori stanno lavorando su come cercare i resti di cibo che non è stato cotto, come le verdure a foglia verde, un altro aspetto trascurato dell'antica dieta. Poiché nella documentazione archeologica le verdure e le verdure crude sono ancora più difficili da trovare dei semi e dei cereali cotti, Kubiak-Martens le chiama «l'anello mancante» nella conoscenza delle antiche diete. «Dai resti carbonizzati non c'è modo di dimostrare che siano state mangiate foglie verdi», afferma Kubiak-Martens. «Ma sareste sorpresi di quanta verdura verde ci sia nei coproliti umani», ossia nelle feci conservate. Kubiak-Martens ha ottenuto, nel 2019, una sovvenzione per esaminare le paleofeci di seimila trecento anni fa conservate nelle zone umide dei Paesi Bassi, che spera riveleranno tutto ciò che gli agricoltori preistorici avevano sulle loro tavole.


Ricreare pasti antichi

La ricerca per comprendere le diete antiche ha portato alcuni ricercatori a ricorrere a soluzioni estreme. È il caso di Göbekli Tepe, che ha prodotto pochissimi resti organici che potrebbero fornire indizi sui pasti a base di piante preistoriche avvenuti lì. Quindi la Dietrich ha seguito un’idea innovativa, mettendoci un sacco di olio di gomito. Il suo approccio è stato quello di ricreare gli strumenti utilizzati dalle persone per preparare il cibo, non i piatti stessi.

Nel suo arioso laboratorio, in una strada alberata di Berlino, la Dietrich spiega il lungo processo, fisicamente impegnativo, da lei messo in atto. Partendo dalla replica di una macina – un blocco di basalto nero delle dimensioni di un panino che si adatta perfettamente al palmo della sua mano –, l’ha fotografata da centoquarantaquattro angolazioni diverse.

Dopo aver trascorso otto ore a macinare quattro Kg. di farro, la Dietrich ha fotografato di nuovo la pietra. Un programma software ha prodotto quindi modelli in 3D dalle due serie di immagini. I suoi esperimenti hanno dimostrato che la macinazione della farina fine per la cottura del pane lascia sulle pietre tracce diverse rispetto alla produzione di grano macinato grossolanamente, ideale per la bollitura come il porridge o la birra.

E dopo aver maneggiato migliaia di macine, si è dimostrata spesso in grado di identificare al tatto a cosa servissero. «Tocco le pietre per sentirne l'appiattimento», dice. «Le dita possono sentire i cambiamenti a livello nanometrico». Confrontando i modelli di usura nelle sue repliche moderne, con le pietre ammucchiate nel giardino roccioso di Göbekli Tepe, Dietrich ha potuto dimostrare che la farina di pane macinata fine era l'eccezione. In uno studio del 2020 [11], sostiene che le persone che vi abitavano, per lo più macinavano il grano grossolanamente, quanto basta per rompere il suo duro strato esterno di crusca e renderlo facile da bollire e mangiare come porridge o fermentare nella birra.

Per testare la teoria, la Dietrich ha incaricato uno scalpellino di scolpire una copia di una vasca di pietra da trenta litri di Göbekli Tepe. Nel 2019, lei e il suo team hanno cucinato con successo il porridge utilizzando pietre riscaldate, registrando e cronometrando attentamente ogni fase del processo. Hanno anche prodotto una birra neolitica da grano germinato a mano, o malto, nel recipiente aperto. I risultati sono stati «un po' amari, ma bevibili», dice Dietrich, «se hai sete nel Neolitico».

Dalle macine e da altri strumenti per la lavorazione delle piante a Göbekli Tepe, ora sta emergendo un'immagine di ciò che accadeva lì dodicimila anni fa. Piuttosto che iniziare a sperimentare con i cereali selvatici, pare che i costruttori di monumenti fossero proto-contadini che avevano già familiarizzato con le possibilità di cottura offerte dal grano, nonostante non avessero colture domestiche. «Questi sono in assoluto i migliori strumenti per la molitura e ho visto molte macine», afferma la Dietrich. «Le persone di Göbekli Tepe sapevano cosa stavano facendo e cosa si poteva fare con i cereali. Sono oltre la fase di sperimentazione».

I suoi esperimenti stanno cambiando il modo in cui gli archeologi studiano e interpretano il sito e il periodo in cui è stato costruito. Le loro ipotesi iniziali mostravano il sito un po' come la confraternita di un college americano: molti cacciatori maschi in cima a una collina che innaffiavano antilopi alla brace con tini di birra tiepida durante le celebrazioni occasionali. «Nessuno aveva davvero pensato alla possibilità di un consumo di piante su larga scala», dice Dietrich.

In uno studio della fine dello scorso anno [12], la Dietrich sostiene che l'interpretazione di «barbecue e birra» è molto lontana dal vero. Il gran numero di strumenti per la lavorazione del grano a Göbekli Tepe suggerisce che, anche prima che l'agricoltura prendesse piede, i cereali erano un alimento quotidiano e non solo parte di un occasionale processo di fermentazione.


Note:

[1] L. Dietrich et al., PLoS ONE 14, 2019, e0215214.
Il porridge è una zuppa ottenuta facendo bollire in acqua e latte chicchi macinati, schiacciati o tritati di alimenti ricchi di amido, normalmente avena, e aromatizzati a piacere. L’autore dell’articolo qui intende genericamente zuppe di cereali. (N.d.t.)

[2] M. Heun et al., Science 278, 1997, pp. 1312-1314.

[3] S.M. Valamoti,
Veget. Hist. Archaeobot, 11, 2002, pp. 17-22.

[4] S.M. Valamoti
et al., J. Archaeol. Sci. 128, 2021, 105347.

[5] C.E. Inchley
et al., Sci. Rep. 6, 2016, 37198.

[6] C. Larbey, S.M. Mentzer, B. Ligouis, S. Wurz e M.K. Jones,
J. Hum. Evol. 131, 2019, pp. 210-227.

[7] A.G. Henry, A.S. Brooks e D.R. Piperno,
Proc. Natl Acad. Sci. USA 108, 2011, pp. 486-491.

[8]  J.A. Fellows Yates et al., Proc. Natl Acad. Sci. USA 118, 2021, e2021655118.

[9] A.G. Heiss
et al., PLoS ONE 15, 2020, e0231696.

[10] A. Arranz-Otaegui, L. Gonzalez Carretero, M.N. Ramsey, D.Q. Fuller e T. Richter,
Proc. Natl Acad. Sci. USA 115, 2018, pp. 7925-7930.

[11] L. Dietrich e M. Haibt,
J. Archaeol. Sci. Rep. 33, 2020, 102525.

 [12] L. Dietrich et al., J. Archaeol. Sci. Rep. 34, 2020, 102618.


Andrew Curry

Traduzione di Alessandro Cocuzza - Redazione di Antropocene.org

Fonte: Nature 594, 2021, pp. 488-491