Fonte: Eros Barone - 04.03.2023

Commento al saggio di John Bellamy Foster, Il nuovo irrazionalismo («Monthly Review», 01.02.2023), qui pubblicato.



«Il problema di tutte le discussioni sulla “inclusione dell’umanità nella natura” e delle analisi della frattura metabolica, sostiene Žižek, è che tendono a regredire in una “ontologia generale dialettico-materialista”, riferendosi al materialismo dialettico di Engels e Lenin. In accordo con l’approccio idiosincratico, idealista e irrazionalista di Žižek al “materialismo dialettico”, che pretende di “ritornare da Marx a Hegel e attuare un ‘rovesciamento materialista’ di Marx stesso” attraverso l’idealismo puro, sia il naturalismo-materialismo che l’umanesimo critico devono essere rifiutati, in generale conformità con l’heideggerismo di sinistra». Così scrive il Bellamy Foster riferendosi ai paralogismi di Žižek (paralogismi, va detto, che non hanno neppure il merito di avere come fertile terreno di coltura – terminus a quo e insieme terminus ad quem della riflessione teoretica - un paradosso filosoficamente pregnante e fondante). Sembra anzi che ai postmodernisti e iperculturalisti del tipo žižezkiano la stessa parola “naturale” provochi un brivido “politicamente corretto”. In realtà, contrariamente a ciò che affermano letture epistemologicamente corrive e sostanzialmente banalizzanti dei classici del socialismo scientifico, non vi sono stati pensatori più consapevoli di Marx ed Engels, di quanto siano socialmente mediate la natura e la cultura. E questa mediazione è identificata principalmente con il lavoro: quell’attività finalistica che, come ha rilevato Lukács nella sua Ontologia dell’essere sociale, è ciò che trasforma la natura fino a dotarla di un significato umano. In questo senso, a partire proprio dalla elaborazione di Marx e di Engels per giungere a quella di Lukács e dello stesso Bellamy Foster, la storia della società umana è parte della storia naturale. Ciò significa, tra l’altro, che il carattere sociale è intrinseco al tipo di animali che noi siamo. La cooperazione sociale è necessaria per la nostra sopravvivenza materiale, ma è anche un elemento costitutivo della nostra realizzazione come specie. Pertanto, nello stesso modo in cui la natura è in un certo senso una categoria sociale, anche la società è una categoria naturale.

Gli ideologi postmoderni come Žižek insistono sul primo aspetto fino a renderlo totalizzante, e infatti occultano il secondo. Sennonché per Marx ed Engels la relazione tra natura e umanità non è simmetrica, poiché, come essi rilevano nell’Ideologia tedesca, è la prima che prende il sopravvento. Per l’individuo questo è ciò che è noto come morte, tema trattato e approfondito da quelle correnti del materialismo che, come ha fatto il nostro Sebastiano Timpanaro, hanno posto l’accento sui condizionamenti biologici dell’uomo. Gli esponenti dell’“ideologia americana”, invece, non fanno altro che trascrivere gli ideologemi del “sogno americano” nei filosofemi mutuati da quegli incunaboli del postmodernismo che rispondono ai nomi di Nietzsche, di Heidegger e di Deleuze. La loro visione del mondo detesta, senza dirlo, ciò che è materiale perché esso blocca il nostro slancio verso l’infinito: questo è il motivo per cui il mondo materiale deve essere vinto dalla forza o dissolto nella cultura. Ed ecco perché il postmodernismo e lo spirito dei pionieri sono le facce della stessa medaglia. Né il primo né il secondo possono accettare che sono i nostri limiti a renderci ciò che siamo, così come quella continua trasgressione di essi che si identifica con la storia umana. Laddove gli esseri umani per Marx ed Engels sono parte della natura, ma sono anche in grado di oggettivarla, e questa parziale separazione costituisce un elemento in sé della loro appartenenza ad essa (si veda a proposito di questa dialettica complessa e asimmetrica l’importante saggio di Alfred Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Laterza, 1973).

Marx ed Engels credevano in quella che essi chiamavano «umanizzazione della natura»; tuttavia, a loro avviso, la natura rimarrà sempre, in qualche modo e in qualche misura, indomabile da parte dell’umanità, anche se la sua resistenza nei confronti dei nostri bisogni e la sua avversità nei confronti della vita umana (terremoti, maremoti, mutamenti climatici, malattie) può essere ridotta. È il capitalismo che concepisce la produzione come potenzialmente infinita, salvo esagerare i limiti naturali posti allo sviluppo dell’uomo, come accade per motivi ideologici e sociali nella congiuntura attuale della crisi multipla (economica, pandemica, energetica e ambientale) con il rilancio neomalthusiano e protezionista. Per converso – e il Bellamy Foster è il teorico di questa tendenza sia sul terreno del materialismo dialettico che su quello della politica di classe – il socialismo concepisce l’espansione quantitativa e qualitativa della produzione, come Marx scrive nel primo libro del Capitale, «con una forma appropriata al pieno sviluppo del genere umano», fermo restando che è proprio Marx a considerare come un limite della società borghese moderna il fatto che in essa «la produzione appaia come il fine dell’uomo e la ricchezza come il fine della produzione».

In conclusione, il riconoscimento dei limiti naturali non è incompatibile con l’emancipazione sociopolitica, ma solo con le versioni utopistiche di essa, e il mondo ha le risorse necessarie, non perché tutti possano vivere sempre meglio (“sogno americano” individualistico-elitario), ma per poter vivere tutti bene (prospettiva egualitario-solidaristica del socialismo/comunismo). Laddove è opportuno precisare che la prospettiva del socialismo/comunismo ha come conditio sine qua non la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, che vengono pianificati, amministrati e sviluppati dai produttori associati.


Eros Barone