The Blue Commons. Rescuing the Economy of the Sea, di Guy Standing, Penguin Books, 2022.

Per gran parte della storia umana, gli oceani sono stati visti come un bene comune globale, i cui benefici e risorse appartenevano a tutti noi in egual misura. Ma i nostri mari – e l'ambiente marino nel suo insieme – sono devastati da uno sfruttamento a scopo di lucro. Il risultato è una crisi sociale, economica ed ecologica che minaccia lo stesso sistema di supporto vitale della Terra.



In questo articolo, apparso il 16 agosto scorso su Climate&Capitalism, l’autore, Guy Standing, ex direttore del programma dell'UN’s International Labor Organization, presenta il suo ultimo libro, The Blue Commons. Rescuing the Economy of the Sea, uscito nel luglio scorso presso l’editore Penguin Books, nella collana di saggi Pelican Books. Non si tratta di una vera recensione quanto della trattazione in forma sintetica di alcuni temi del volume. Nel presentarvelo, pur riconoscendo l’indiscutibile valore scientifico dell’opera, a noi della Redazione di Antropocene.org preme sottolineare quello che ci è parso un punto di debolezza dell’argomentazione, là dove l’autore propone di ovviare al saccheggio delle risorse marine, perpetrato dalle multinazionali con la complicità degli stati, attraverso il rilancio di «un'etica del mare come bene comune» che si traduca, ad esempio, nella pratica virtuosa di risarcire la società «con "dividendi comuni" finanziati da prelievi sullo sfruttamento a fini di lucro». L’analisi dell’autore ci risulta animata da una sorta di volontarismo là dove prova a suggerire soluzioni a un problema giustamente presentato nella sua complessità. Né Guy Standing sembra lontanamente sfiorato dall’idea di affrontare alla radice il problema della difesa dei diritti dell’ambiente, attraverso una visione più organica, mettendo ad esempio in questione la logica del sistema della merce, del profitto e del lavoro salariato.

Redazione di Antropocene.org


 

SALVIAMO I BENI COMUNI BLU!

Come le multinazionali stanno derubando il mare

Pesca eccessiva, estrazioni sui fondali, avidità delle aziende: è tempo di riprendere il controllo

di Guy Standing

Per gran parte della storia umana, gli oceani sono stati visti come un bene comune globale, i cui benefici e risorse appartenevano a tutti noi in egual misura. Ma i nostri mari – e l'ambiente marino nel suo insieme – sono devastati da uno sfruttamento a scopo di lucro. Il risultato è una crisi sociale, economica ed ecologica che minaccia lo stesso sistema di supporto vitale della Terra.

Gli oceani coprono il 70% della superficie del pianeta, forniscono metà dell'ossigeno che respiriamo e aiutano a combattere il cambiamento climatico assorbendo l'anidride carbonica. Circa il 40% della popolazione mondiale vive in comunità costiere e dipende dalle risorse oceaniche, costiere e marine per il proprio sostentamento e il proprio benessere.

Molte delle questioni critiche che interessano i «Blue commons» [1] richiedono un'azione internazionale. Queste includono l'esaurimento delle popolazioni ittiche da parte della pesca industrializzata sovvenzionata; distruzione dei fondali marini e delle barriere coralline vitali da parte delle multinazionali del petrolio; la minaccia della distruzione della biodiversità in seguito all'estrazione di minerali in acque profonde; e la sconsiderata diffusione dell'acquacoltura commerciale.

La UN Ocean Conference del 2022, tenutasi il mese scorso a Lisbona, ha prodotto molte belle parole e promesse, ma nulla che possa invertire queste tendenze. Poco prima della conferenza, dopo oltre due decenni di negoziati, la World Trade Organization ha concluso un debole accordo sui sussidi alla pesca, in cui l'impegno iniziale di abolire i “sussidi dannosi” è stato cancellato dal testo finale.

Il mio nuovo libro, The Blue Commons, sostiene che l'unico modo per fermare, e invertire, la distruzione e l'esaurimento delle risorse marine e degli ecosistemi è quello di ricreare un'etica del mare come bene comune, gestito a beneficio di tutti coloro le cui vite e i mezzi di sussistenza dipendono da esso.

Solo i comuni cittadini hanno un interesse tangibile ed emotivo a preservare il paesaggio marino e a utilizzare le risorse dei mari in modo sostenibile. E dovrebbero essere risarciti per la perdita dei "blue commons" con "dividendi comuni" finanziati da prelievi sullo sfruttamento a fini di lucro.


Privatizzare il mare

Dal 1945, quando gli Stati Uniti rivendicarono unilateralmente la proprietà della piattaforma continentale e di parti d'alto mare intorno alle loro coste, gran parte dei blue commons è stata convertita in proprietà privata. Nel 1982, l'UNCLOS (United Nations Convention on the Law of the Sea) ha approvato la più grande recinzione della storia, garantendo ai paesi zone economiche esclusive (ZEE) che si estendevano per 200 miglia nautiche dalle loro coste. Ciò ha messo in atto procedure e meccanismi istituzionali che hanno esteso la privatizzazione e la finanziarizzazione a ogni parte dell'economia marina, rinsaldando il neocolonialismo, garantendo a paesi ex-imperiali come Stati Uniti, Francia e Regno Unito milioni di miglia quadrate intorno a terre lontane dalle loro coste, i loro cosiddetti "territori d'oltremare".

È difficile esagerare l'entità del saccheggio dei beni comuni blu nel periodo di dominio economico neoliberista dagli anni '80. I mari sono diventati la frontiera del capitalismo rentier globale. La rapacità crescente del capitale finanziario è evidente quasi ovunque, con la crescita del private equity.

L'industria finanziaria, guidata dalla Banca Mondiale, ha guidato la tanto decantata strategia della "crescita blu", promettendo un'improbabile combinazione di crescita economica, riduzione della povertà e miglioramento ambientale. Gli indici di mercato sembrano allettanti. Se i mari fossero un Paese, il reddito generato da tutte le attività marine lo renderebbe la settima economia più grande del mondo, che (almeno prima del Covid) avrebbe visto una rapida crescita alimentata da turismo, porti e navigazione.


Per limitarci alla Gran Bretagna

Alcuni problemi relativi all'ambiente marino riguardano particolarmente la Gran Bretagna. Nel loro insieme, giustificano la creazione di una 'Commissione nazionale sull'economia blu', per reimpostare la politica economica e sociale delle nostre acque.

Il governo del Regno Unito gestisce un sistema di quote di pesca arretrato e amministrato in modo inefficace che conferisce diritti di proprietà privata alle compagnie di pesca commerciale. La maggior parte della quota di pesca del Regno Unito va a una manciata di grandi società. Ben più di un quarto è stata concessa a sole cinque famiglie, tutte nella lista dei ricchi del Sunday Times. Solo una nave gigante – immatricolata nel Regno Unito ma di proprietà olandese – detiene il 23% della quota inglese.

Il sistema di ripartizione delle quote di pesca è opaco e suscettibile di corruzione. Ma la legge governativa del 2020 sulla pesca, che la regola dopo la Brexit, non ha apportato modifiche. Ha portato a una pesca eccessiva cronica – spesso illegale – aggravata dal fatto che le violazioni sono trattate come reati civili lievi, non penali. Per fare solo un esempio: nel 2015 il super peschereccio di proprietà olandese di cui sopra è stato catturato con 632.000 chili di sgombro catturato illegalmente. È stato multato di sole £ 102.000 e poi è stato autorizzato a vendere il pesce per £ 437.000 e a mantenere la sua quota. [N.d.T. Naturalmente, qui il simbolo £ si riferisce al pound, la sterlina britannica]

Ad aggravare questa impunità, la Royal Navy e il Marine Sea Fisheries Inspectorate della Scozia dispongono di sole dodici “marine protection vessels” [in sostanza, motovedette. N.d.T.] per monitorare le pratiche di pesca in un'area marina tre volte più grande della superficie terrestre del Regno Unito. Nel frattempo, la Marine Management Organization (MMO), l'organismo di regolamentazione dell'Inghilterra, ha subìto un taglio del budget in base alle politiche di austerità, cosa che ha portato a un forte calo delle ispezioni e delle indagini sulle violazioni della pesca e a un altrettanto calo delle ammonizioni e delle azioni penali.


Protezione marina solo di nome

Il governo del Regno Unito ha preteso di estendere la protezione del mare e delle specie marine attraverso le aree marine protette (AMP), chiamate anche zone di conservazione marina. Queste coprono quasi un quarto delle acque territoriali del Regno Unito. Ma la maggior parte delle AMP sono scarsamente protette, a causa dei metodi di pesca fortemente distruttivi come la pesca a strascico e il dragaggio consentiti in molte di esse.

Di recente, l'MMO ha intentato una causa contro Greenpeace per aver fatto cadere massi in aree presumibilmente protette per interrompere la pesca a strascico. Il giudice ha avuto il buon senso di liquidare il caso come «assurdo», esortando l'MMO a svolgere il lavoro di sua competenza senza prendersela con coloro che sono stati indotti ad agire al suo posto. Nel frattempo, la BP è stata recentemente autorizzata da un altro organismo regolatore del governo a scaricare migliaia di tonnellate di tubi e cavi d'acciaio provenienti da una piattaforma petrolifera dismessa in una AMP nel Mare del Nord.

Secondo la legge ordinaria del Regno Unito, la monarchia e il governo dovrebbero essere fiduciari o amministratori, responsabili della conservazione dei beni comuni in quanto tali per le future generazioni. Invece, hanno ceduto alle multinazionali i beni comuni da sfruttare a scopo di lucro, con protezioni ambientali o ritorni economici minimi per i comuni cittadini britannici.

Ad esempio, in un'altra svendita dei comuni blu, la Crown Estate (società immobiliare della regina) è stata autorizzata a vendere all'asta grandi distese del fondale marino intorno alla Gran Bretagna a società multinazionali per parchi eolici offshore. L'ultima riscossione nel 2021 raccoglierà circa nove miliardi di sterline, per un periodo di dieci anni, per la famiglia reale e il Tesoro.


Miniere d'altura – e il peggio a venire

In arrivo si profilano timori ancora più grandi: le potenziali estrazioni minerarie in acque profonde (i cosiddetti ‘seabed harvesting’) e l'estensione dei diritti di proprietà intellettuale alle ‘risorse genetiche marine’ (MGR), di particolare interesse per la medicina.

UK Seabed Resources, una sussidiaria della multinazionale statunitense degli armamenti Lockheed Martin, in collaborazione con il governo del Regno Unito, detiene le licenze per cercare siti minerari in acque profonde nel Pacifico. L'elevata domanda di minerali come il cobalto e il litio, importanti per le industrie dell'elettronica e delle energie rinnovabili, significa che l'estrazione in acque profonde promette di essere altamente redditizia, ma minaccia di causare danni potenzialmente catastrofici agli ecosistemi marini.

L'International Seabed Authority (ISA), l'autorità di regolamentazione per l'estrazione mineraria in acque profonde in più della metà delle aree oceaniche mondiali, ha il mandato di promuovere «la gestione programmata, sicura e razionale» delle risorse del fondale marino. Ha il compito di mitigare i danni causati dall'estrazione mineraria dei fondali marini, ma non di fermarlo o addirittura limitarlo, nonostante le richieste di una moratoria da parte di eminenti scienziati. E il misero budget dell'ISA non è neanche lontanamente abbastanza sufficiente per monitorare ciò che stanno facendo le grandi aziende. Se l'ISA non riesce a concordare un codice minerario, dopo anni di ritardo, il prossimo anno potrebbe iniziare l'estrazione commerciale non regolamentata dei fondali marini.

Per quanto riguarda i diritti di proprietà intellettuale, il Regno Unito ha perso il proverbiale treno. Aziende di soli tre paesi, Germania, Stati Uniti e Giappone, detengono più di tre quarti delle migliaia di brevetti già depositati sulle risorse genetiche marine. Sorprendentemente, una sola multinazionale, il colosso chimico tedesco BASF, possiede quasi la metà dei brevetti.

Questi brevetti garantiranno per molti anni i flussi di reddito da monopolio dell'economia blu e daranno alle società ricche nei paesi ricchi il controllo privato su un'agenda chiave di ricerca e sviluppo che interessa il mondo intero.

Guy Standing è stato un direttore del programma dell'UN’s International Labor Organization. Tra le sue opere, The Precariat (2011) e Plunder of the Commons: A Manifesto for Sharing Public Wealth (2019). Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta da Open Democracy.


Note:

[1] Abbiamo tradotto la locuzione «Blue commons», come risulta nell’occhiello del titolo, «Beni comuni blu» ma si è preferito lasciarla in originale nel resto del testo. La locuzione ricalca chiaramente quella usata già nel XVII sec. in Inghilterra (commons) per riferirsi alle «terre comuni di uso collettivo per diritto consuetudinario delle popolazioni rurali…, la cui scomparsa – in seguito alle Enclosure bills – costituì la premessa alla rivoluzione industriale». (cit. dall’Enciclopedia online Treccani) [N.d.T.]


Traduzione di Alessandro Cocuzza - Redazione di Antropocene.org