Quando scienza e ideologia si scontrano, è noto che non c'è spazio per la seconda.
L'etica non può infatti avere una base senza il sostegno della scienza, sorpassata o attuale che questa sia, pena il ricadere nei secoli bui dove avveniva il contrario ed era la scienza a doversi piegare alla 'morale' delle credenze e delle superstizioni. Se si dovesse ricorrere agli alimenti di origine animale per sopravvivere, non resterebbe infatti che dare ragione alle credenze religiose che li vedono 'creati' per il fine dell'uomo (?), quindi a concetti protezionisti, sposando i principi della D.U.D.A. del 1978 (gli animali 'destinati' all'alimentazione dovrebbero soffrire il meno possibile ...). La scoperta degli aminoacidi essenziali, della formazione della catena proteica, delle vitamine (in particolare la B12), delle fibre sintetiche, e la loro produzione industriale a partire dalla fine del secolo scorso ha invece permesso all'umanità di fare a meno degli animali non umani, ponendo le premesse di un cambiamento radicale, una vera e propria 'rivoluzione culturale'.
Questa rivoluzione potrebbe influenzare col tempo anche la genetica, per effetto della selezione naturale (v. Micro Mega 6/2016, AA.VV, D. Dor e E. Jablonka 'I geni vengono dopo' e T. Pievani e F. Suman 'Evoluzione biologica e evoluzione culturale’). E' infatti noto che non tutti i vegani necessitino di assumere la vitamina B12 per sopravvivere. Non si può quindi escludere che una auto-produzione della stessa o una riduzione della sua necessità possa verificarsi ove l'apporto esterno sia minimale, dando origine a 'fenotipi' umani con tale caratteristica, quindi formazione di una 'nicchia' ecologica e sociale che, sviluppandosi a causa della maggior salubrità di tale tipo di alimentazione, per effetto della selezione naturale prenda il sopravvento.
Nell'opera sopra citata (T. Pievani e F. Suman, pg. 66) si fa infatti notare come ad esempio (caso contrario) lo sviluppo degli alleli (forme alternative di geni del cromosoma umano), necessari alla digestione del lattosio, si sia generato nelle popolazioni europee di agricoltori e contadini (circa 7 mila anni fa), a seguito della diffusione dei prodotti caseari. Un tipico (ma non unico) caso di coevoluzione geni-cultura, oggi accreditato da buona parte della scienza. La controprova di tale teoria viene dagli studi riguardanti le altre specie, quelle che definiamo antropocentricamente 'gli animali', dove si dimostra come gli effetti della domesticazione hanno causato modifiche fondamentali sia nelle caratteristiche morfologiche, sia in quelle genetiche, proprio per effetto del diverso 'ambiente' di sviluppo.
Resta il fatto che l'evoluzione culturale (e quindi lo sviluppo della specie) è funzione delle conoscenze scientifiche, e non il contrario. Per cui qualsiasi iniziativa volta a mettere in discussione il rapporto umano-non umano non può non tener conto degli aspetti sopra accennati. L'attenzione sugli eventi che riguardano tali aspetti andrebbe pertanto posta non sul 'metodo', ossia il mezzo o lo stratagemma con il quale poter avviare un percorso culturale, quanto sul 'fine' proposto e sul reale contenuto degli stessi. Non resta quindi che prendere atto della assai diversa 'direzione' delle iniziative in questione. La prima, mirante a far emergere l'etica aspecista proprio negli ambienti che l'hanno determinata (e addirittura nel tempio di quelle scienza dedicata allo sfruttamento degli animali non umani, ancora al servizio delle credenze) dando prova di intelligenza e coraggio, seppur con le riserve del caso. La seconda mirante in realtà (e in modo assai poco trasparente) a confermare i millenari luoghi comuni diffusi per sostenere le credenze religiose, dove la voce della scienza giunge attutita per non disturbare troppo lo 'spirito'.
Massimo Terrile
Fonte: Notiziario Movimento Antispecista - 3/2016
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