A proposito di "Affrontare la complessità", un libro di Federico Butera checi accompagna tra comprensioni e insidie della transizione ecologica.
L’obiettivo che ci si prefissa è difficile, perché il vero «green new deal» è l’accordo fra umano e natura. Secondo l’autore, credere che sostituendo il fotovoltaico al petrolio, l’eolico al carbone, torneremo in armonia con l’ambiente è un errore che porta a lasciare le cose come stanno.
Mi immergo con troppa disinvoltura nella lettura dell’ultimo libro di Federico Butera, autorevole membro della nostra Task Force «Natura e lavoro»: Affrontare la complessità. Per governare la transizione ecologica (Edizioni Ambiente, pp. 312, euro 26 ). Non fate il mio stesso errore. Il libro è tosto, anzi tostissimo, e prima di leggerlo bisogna prepararsi. Non perché sia troppo pesante o troppo difficile (Federico Butera ha l’arte della semplificazione che gli viene dall’aver non solo costruito cose eccezionali ma insegnato per decenni al Politecnico di Milano). Al contrario: prepararsi perché ti prende e travolge con una valanga di informazioni che non sono quisquilie ma notizie che ti trascinano a riproporti quelle domande essenziali che si affacciano alla mente nell’adolescenza e poi via via ti abitui a lasciarle senza risposte e alla fine fai a meno di portele: che cosa è la Terra, chi la comanda, come è nata, dove finirà, chi diavolo sono io e che ci faccio qui in questo stivaletto che è chiamato Italia in un anno che viene indicato come 2021 ma non capisco nemmeno che senso abbia questa cifra?
COSÌ COMINCIO A LEGGERE e subito mi rendo conto di quella che dovrebbe essere un’ovvietà: sebbene negli ultimi tempi con grande frequenza ripetiamo certe locuzioni non ci soffermiamo nemmeno a cercare di capire cosa significhino.
«Cambiamenti climatici», per esempio. Sì, oddio, un bel guaio. Ma detto così non si capisce subito di che si tratti davvero, che indica solo l’inizio di una catena senza fine di guasti irreparabili, perché gli eventi metereologici anomali determinano temperature che sciolgono i ghiacciai (nelle Alpi europee già metà dal 1900) e però svuotano anche i bacini esistenti, sicché in quelli che ancora resistono debbono abbeverarsi tre volte tanti animali e umani e già ora ben 145 paesi devono ormai condividere quel residuo di acqua con altri 268; e siccome l’equità è difficile da praticare la condivisione negli ultimi 50 anni ha già prodotto, oltre a epocali migrazioni, 37 conflitti di grande portata e assai di più ne produrrà perché alla già nota land grabbing pienamente in atto soprattutto in Africa si è ora aggiunta la water grabbing.
E poi alla carestia di acqua si aggiungono i danni dell’acqua in eccesso, quella che dalle montagne è scesa a valle innalzando il livello dei mari e minacciando ormai non solo la nostra Venezia e il Bangladesh ma anche New York, e tutti i principali aeroporti del mondo chissà perché tutti costruiti vicino alla costa. E, per effetto di giganteschi temporali, allagando con sempre maggiore frequenza il Texas che cito perché è solo l’ultima vittima, quella che abbiamo visto sott’acqua solo pochi giorni fa alla televisione. Troppa o troppo poca acqua: perché produce anche siccità che estingue le riserve sotterranee e nel liquido che resta, per via del calore, muffe e funghi; in superficie distruzione dei raccolti, perciò poco cibo mentre la popolazione aumenta e già così, per via di come noi abbiamo disegnato il mondo, ci sono 800 milioni di esseri denutriti e 2 milioni di obesi.
COMINCIA A VENIRTI l’angoscia, perché queste cose le hai già lette molte volte ma spiegate bene e tutte insieme ti fanno un altro effetto. Tiro un sospiro di sollievo perché alla fine dell’elenco sui danni dell’acqua (solo un capitolo del libro!) Butera avverte che però c’è una grande risorsa sostitutiva: la tundra russa e le estese zone gelide del Canada. Tuttavia il sollievo è breve: purtroppo non possono aiutare a darci acque e terre normali, perché contengono un terzo dello stock di carbonio organico del mondo (qualcosa che equivale a 100 volte le attuali emissioni degli Stati Uniti). Perciò addio.
Questo libro di Federico Butera – la raccomandazione del suo autore è sacrosanta – non va letto per ritrovare sia pure con una spiegazione di alto livello la documentazione completa di tutti i fenomeni che stanno ammazzando il nostro ecosistema (basterebbero le 400 note bibliografiche che accompagnano lo scritto per capire quanto sostanziosa e precisa sia la documentazione su ogni fenomeno indicato). È stato concepito nell’intento di far capire – come del resto dice il titolo – che non c’è alcuna speranza di vincere la difficilissima battaglia che con tanto ritardo abbiamo cominciato a combattere per salvarci dalla catastrofe solo se saremo capaci di capire, e dunque affrontare, la complessità, le tante connessioni che legano uno all’altro i fenomeni in atto e che non saremo mai in grado di fermare uno per uno. È un concetto decisivo ma che mi mette paura, quando penso a come invece la questione viene affrontata dai vari piani istituzionali che si stanno varando.
Il volume – avverte Butera – è destinato ai docenti, che peraltro non esistono ancora e sarebbe urgente cominciare a formare affinché siano forniti, all’asilo così come all’università. Ma anche, almeno con un «bignami», ai ministri.
«Credere che sostituendo il fotovoltaico al petrolio, l’eolico al carbone, il biogas al gas naturale, la plastica biodegradabile a quella fatta di petrolio – scrive Butera – torneremo in armonia con l’ambiente è un errore che porta a lasciare le cose come stanno, continuando a navigare verso la catastrofe solo a velocità più ridotta».
L’obiettivo è più difficile, perché il vero green new deal è l’accordo fra umano e natura. E, va aggiunto, perché ne è la premessa: fra gli esseri umani, impedendo che una piccola parte di loro imponga a tutti la conservazione di un sistema fondato sull’attuale modello di sviluppo, vale a dire su una produzione sempre più vasta di beni che non rispondono ai bisogni vitali ma sono imposti dalla dittatura che chi dalla produzione trae il profitto esercita su chi consuma. Una dittatura così efficace che il movimento operaio stesso da più di un secolo ha finito per accettare l’idea che un maggior benessere avrebbe potuto venire da un sempre più celere sviluppo di beni-merci, quali che sia. Senza alcuna misura che consenta di stabilire compatibilità fra la velocità del loro utilizzo e quella della loro rigenerazione, il metodo di misurazione chiamato «impronta ecologica», che dovrebbe in realtà esser obbligatoria per ogni prodotto. (Pensate come sarebbe importante chiederla prima di concedere anche solo un euro di finanziamento pubblico?).
DIVENTEREBBE più chiaro che già oggi l’Italia consuma tanta materia non rinnovabile quanto solo un pianeta quattro volte più grande di quello che abbiamo può fornire senza accumulare un debito che non saremo in grado di ripagare. E l’Italia non è il peggio, e se solo l’India, che consuma di meno di quanto potrebbe (0,7% dice la sua impronta paese) è un paese dove ci sono tanti ricchi ma anche buona parte degli 800 milioni di denutriti del mondo vuol dire che c’è qualcosa che non funziona in questo sistema. Che Federico Butera ha l’onestà di chiamare per nome: il capitalismo.
La Terra si è già molto ammalata nel corso della storia, l’ultima volta pare sia stato 250.000 anni fa. Ma allora noi umani ancora non esistevamo. Ora invece ci siamo e potremo attrezzarci. Se non siamo capaci di farlo, peggio per noi: siamo solo lo 0,6 % delle specie viventi, e se spariamo non se ne accorgerà nessuno.
Nemmeno un bel funerale a meno che non provvedano gli scarafaggi.
Luciana Castellina
Fonte: il Manifesto - 16.04.2021
Aggiungi commento