Fonte: Monthly Review - 01.11.2023
In questa intervista con Batuhan Sarican, John Bellamy Foster discute l'idea di ecosocialismo, mettendola in relazione al suo personale rapporto con l'ambiente e al nostro rapporto collettivo con il metabolismo della natura.
Batuhan Sarican: John, come è iniziato il suo rapporto con la natura? Cosa ricorda della sua infanzia?
John Bellamy Foster: Sono cresciuto nella costa nord-occidentale degli Stati Uniti, famosa per le sue foreste e l'ambiente in generale. Sono nato a Seattle, ma fino ai cinque anni ho vissuto a Raymond (Washington), una città dove si lavorava il legname e dove mio padre faceva l’insegnante. Alcune segherie di Raymond, una delle quali di proprietà della Weyerhaeuser Corporation, producevano scandole di cedro rosso occidentale (Thuja plicata). La segatura del cedro rosso occidentale è tra le principali cause di asma conosciute, poiché contiene una sostanza chimica chiamata acido plicatico, anche se all'epoca non era molto riconosciuta. Sia io che i miei due fratelli abbiamo sofferto di asma cronica fin da piccoli, anche se nella mia famiglia non c'erano precedenti. Mi sono ritrovato con uno dei casi di asma più gravi dello stato.
Quando avevo cinque anni, ci siamo trasferiti a Fircrest, un sobborgo vicino a Tacoma (Washington). Sono diventato molto consapevole dell'ambiente perché quando siamo andati a vivere Tacoma, l'odore delle cartiere era insopportabile e mia madre era sempre preoccupata per gli effetti dell'inquinamento sulla mia asma. Anche la città si presentava congestionata (anche se non secondo gli standard odierni). Così, fin da piccolo ho sviluppato un’avversione per l’inquinamento, la congestione e alcuni aspetti dell’industrializzazione. Il contrasto tra l'ambiente naturale relativamente incontaminato del Nord-Ovest e l'inquinamento causato dall'industria del legname, dalla lavorazione del legno e dalle cartiere, era forte.
Non molto tempo dopo il nostro arrivo a Ficrest, quando avevo sei anni, mia sorella minore di tre anni, ebbe un attacco d’asma e fu portata d’urgenza in ospedale, dove morì la notte stessa. Anch'io, due settimane dopo, ebbi un grave attacco d'asma e per poco non morii, sia a causa dell'asma che a causa delle medicine prescritte in ospedale. Questo divenne un evento ricorrente nella mia vita. Mi abituai alle tende a ossigeno, alle flebo, alle lunghe degenze ospedaliere e alle dosi massicce di steroidi, che mi fecero raddoppiare di peso.
Una volta tornato a casa dall'ospedale, non mi fu permesso di uscire, di correre o andare a scuola (dovevo avere un insegnante privato) su ordine del medico. Infine, all’età di sette anni, fui mandato al centro nazionale per l’asma di Denver, lontano dai miei genitori per più di due anni. Era un ex sanatorio e aveva i migliori medici per curare l’asma dello Stato. Tutto ciò ha avuto un profondo effetto su di me e mi ha dato precocemente una coscienza ambientale.
Naturalmente, anche le escursioni e il campeggio nel Nord-Ovest, in particolare nella Olympic National Park , hanno successivamente fatto parte della mia crescita. Quando nel 1970 ci fu la prima Giornata della Terra, partecipai a varie attività, nell’idea di un approccio razionale all’ambiente. In quel tempo vivevo a Olympia (Washington), una cittadina meno inquinata. Pensavo che le condizioni di vita nel Nord-Ovest fossero invidiabili rispetto al resto del paese. La mia attenzione principale era la protesta contro la guerra del Vietnam, dove il napalm veniva sganciato sui bambini, piuttosto che sull’ambiente in quanto tale.
Mi sono riavvicinato alla questione ecologica solo negli anni Ottanta attraverso il marxismo ed una critica sistematica del degrado ambientale ad opera del capitalismo. All’inizio degli anni Ottanta a Toronto, mentre frequentavo la scuola di specializzazione alla York University, discutendo con un amico fui sorpreso di scoprire che Karl Marx veniva descritto come antinaturalista, una cosa ovviamente errata. Quando a metà degli anni Ottanta tornai nel Nord-Ovest per assumere l’incarico di professore universitario, dopo otto anni di lontananza, le cose erano decisamente cambiate. Le persone si sedevano sugli alberi per bloccare il disboscamento delle vecchie foreste e il fiume Columbia era stato designato come il fiume più radioattivo del mondo a causa delle perdite della centrale nucleare di Hanford. Ovunque c’erano preoccupazioni per l’uso dei pesticidi – Rachel Carson li definiva biocidi – soprattutto in relazione alla silvicoltura. Nel frattempo, i cambiamenti climatici, la distruzione dello strato di ozono e l’estinzione accelerata delle specie in tutto il mondo rendevano chiaro che il problema ambientale era ormai planetario e che poteva essere compreso solo come conseguenza degli effetti del capitalismo come sistema globale. Tutto questo portò a un cambiamento dei miei studi alla fine degli anni Ottanta ed alla pubblicazione di The Vulnerable Planet nel 1994.
BS: Quando ha iniziato ad interessarsi al socialismo?
JBF: Fin dalla più tenera età ero profondamente innamorato delle rivoluzioni in senso storico, ben prima di avere una reale comprensione del socialismo. Ero, in un certo senso, quello che negli Stati Uniti viene definito, un “bambino dal pannolino rosso”, anche se non nella stessa misura di mia moglie, Carrie Ann Naumoff, cresciuta in una famiglia di attivisti del Partito Comunista e del sindacato della classe operaia industriale. Mia madre era inglese ed era stata coinvolta in varie organizzazioni affiliate al Partito Comunista in Gran Bretagna, principalmente legate alla lotta per l’apertura di un Secondo fronte nella Seconda guerra mondiale. Quando arrivò in nave negli Stati Uniti, fu consigliata da un passeggero tedesco di non rivelare la propria storia politica, per via della caccia ai “rossi” da parte del crescente maccartismo. Non seppi del suo coinvolgimento politico in Gran Bretagna finché non fui adolescente e già impegnato nelle proteste contro la guerra. Decise allora, visto che avevo determinato il mio corso politico, che poteva farmi conoscere la sua storia. Mio padre era un socialista del New Deal e un sostenitore di Henry Wallace nella campagna per le presidenziali nel 1948. Riteneva importante che io leggessi Il Manifesto del Partito Comunista e altre opere simili quando ero ancora alle elementari. Ero circondato dalla sua biblioteca di libri sul socialismo, sulla pace e sull'ambiente. Tutto ciò che aveva a che fare con la rivoluzione mi affascinava fin dall'età di sei, sette anni, anche se ovviamente c'era un certo romanticismo. Quindi, il socialismo mi è venuto naturale. Tutte le discussioni in famiglia, mentre crescevo, erano molto radicali per gli standard americani. Ma non sono diventato consapevolmente marxista finché non sono entrato al college. Verso la fine della guerra del Vietnam quando il movimento contro la guerra era ormai morto, nel mio scoraggiamento, per un po' ho vacillato tra un irrazionalismo sprezzante (leggendo Friedrich Nietzsche, Arthur Schopenhauer e Søren Kierkegaard) e un marxismo critico, che avevo iniziato a studiare a un livello molto più profondo. Ovviamente ha vinto il marxismo. Di fronte al colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti nel Cile di Salvador Allende ed alla crisi economica capitalista della prima metà degli anni Settanta, decisi di dedicare la mia vita alla critica del sistema.
BS: Nel suo articolo intitolato “Ecology and the Transition from Capitalism to Socialism", pubblicato nel numero di novembre 2008 di Monthly Review, lei sostiene che «La relazione dell’uomo con la natura è al centro della transizione al socialismo». Può spiegarci questo concetto?
JBF: Il socialismo è stato definito da Marx e Friedrich Engels in termini umano-ecologici. Quindi, nel materialismo storico classico, natura/ecologia e socialismo erano intrinsecamente correlati. La situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels era un testo ambientalista tanto quanto un testo socialista. Marx vedeva il lavoro e il processo di produzione come costituenti il metabolismo sociale tra l'umanità e il metabolismo universale della natura. Definiva il socialismo in termini di regolazione razionale di questo metabolismo sociale da parte dei produttori associati in modo tale da conservare l'energia umana e promuovere il libero sviluppo umano. L’umanità doveva relazionarsi con la terra in modo sostenibile come boni patres familias (buoni capifamiglia). La produzione, per Marx, era quindi una relazione ecologica oltre che economica, e il socialismo era una forma razionale di quel metabolismo in cui la terra era sostentata e «il libero sviluppo di ciascuno [era] la condizione per il libero sviluppo di tutti».
BS: A questo punto, non è un approccio più corretto pensare che la lotta ecologica sia già parte del socialismo, piuttosto che parlare di un ambito separato, l’ecosocialismo?
JBF: Questa è una buona domanda. Alcuni teorici hanno cercato di sostituire il socialismo con l’ecosocialismo, il che è un errore. Il socialismo stesso è ecologico. L’ecosocialismo, propriamente detto, non è visto come qualcosa di distinto o al di là del socialismo, ma come una tradizione particolare che mette in luce più pienamente gli aspetti ecologici che appartengono propriamente al socialismo stesso e senza i quali esso è in palese contraddizione con se stesso. Non ci può essere uguaglianza sostanziale senza sostenibilità ecologica, né sostenibilità ecologica senza uguaglianza sostanziale.
BS: Parliamo della “frattura metabolica”. Può spiegare, con un linguaggio semplice, all’uomo della strada, cos'è la frattura metabolica e come influisce sulla sua vita?
JBF: L'idea di base della frattura metabolica non è molto difficile. Il rapporto dell'uomo con la natura, come quello di ogni forma di vita, è di tipo metabolico; cioè, ci appropriamo dell'energia e delle risorse materiali dell'ambiente come base per la vita, le metabolizziamo nel nostro corpo e restituiamo i rifiuti alla terra. Nel caso degli esseri umani, in quanto esseri “automedianti” della natura, il nostro rapporto con la natura assume la forma di un metabolismo sociale esercitato principalmente attraverso il lavoro e il processo produttivo. Tuttavia, con lo sviluppo del capitalismo, questo metabolismo sociale è stato alienato: l’umanità si è allontanata sempre più dalla terra, come è evidente in quella che Marx ha definito “espropriazione originaria”, con l’allontanamento delle popolazioni dalla terra tra il XV e il XIX secolo, e l’espropriazione di terre, risorse e corpi umani in tutto il mondo, che costituisce la base del capitalismo industriale. In questo sistema, la natura non è più vista come una relazione a cui appartenere, ma qualcosa da conquistare e trattare come un “dono gratuito” al capitale.
Marx fu profondamente influenzato dal lavoro del chimico agrario tedesco Justus von Liebig, che si concentrò sulla questione del ciclo dei nutrienti e sulle contraddizioni che si erano sviluppate nell’agricoltura industriale a questo proposito. Con la concentrazione delle popolazioni nelle grandi città industriali, gli alimenti e le fibre venivano spediti a centinaia e persino a migliaia di chilometri verso i nuovi centri di produzione. Di conseguenza, i nutrienti essenziali del suolo, come azoto, fosforo e potassio, finivano nelle città come rifiuti e inquinamento, e non venivano restituiti al suolo, la cui fertilità così si esauriva. (Questo processo raggiunse in seguito uno stadio ulteriore, quando gli animali da fattoria furono rimossi dal suolo e concentrati in allevamenti intensivi.) Marx vide in ciò una «frattura nel processo interdipendente del metabolismo sociale» tra l’umanità e la natura, producendo così una crisi ecologica. Per ripristinare il suolo inglese furono importati guano dal Perù e ossa dai campi di battaglia napoleonici e dalle catacombe d'Europa. La crisi del suolo della metà del XIX secolo portò allo sviluppo dell’industria globale dei fertilizzanti, che alla fine portò alla frattura ecologica planetaria collegata all’interruzione dei cicli globali dell’azoto e del fosforo. La questione del ciclo dei nutrienti e il concetto di metabolismo, sono diventati, in questo contesto, la base di tutto il pensiero ecosistemico e dell’ecologia dei sistemi. Oggi gli scienziati del clima descrivono il riscaldamento globale come una “frattura antropica” nel metabolismo del Sistema Terra.
BS: A proposito, questo concetto esposto da Marx non indica che ogni socialista dovrebbe anche lottare per l’ecologia?
JBF: Sì, certo; e funziona anche al contrario. Ogni ecologista dovrebbe lottare per il socialismo.
BS: È possibile affermare che Henry David Thoreau, che visse da solo sulle rive del lago Walden per due anni e si rifiutò di pagare le tasse, sia sopravvissuto alla frattura metabolica? Per dirla in un altro modo, possiamo invertire individualmente la frattura metabolica?
JBF: Thoreau poteva sentire il fischio del treno da Walden Pond ed era ben consapevole che non esisteva un vero isolamento dal mondo del capitale. Si lamentava del fatto che il sistema industriale mirava semplicemente a far sì che «le corporazioni potessero arricchirsi». Non esiste un'inversione individuale della frattura metabolica. Possiamo trovare personalmente un rifugio e un sollievo temporanei. Tuttavia, in quanto esseri sociali che si occupano dell'umanità nel suo complesso, non possiamo chiudere gli occhi di fronte al destino di centinaia di milioni e persino di miliardi di persone la cui vita sarà influenzata negativamente, in molti casi abbreviata, dalla frattura planetaria. Né possiamo ignorare il destino delle generazioni più giovani e di quelle che forse dovranno ancora venire, il che solleva interrogativi sulla sopravvivenza umana. Ovviamente abbiamo qualcosa da imparare da Thoreau in termini di disobbedienza civile, un'eredità che ha lasciato a tutti noi, anche se forse ne abbiamo usufruito troppo raramente.
BS: Siamo nella prima fase di una crisi climatica di origine antropica. Sempre più persone accettano che questa crisi sia un problema di oggi e non di domani, a causa delle anomalie climatiche (caldo e pioggia estremi, ondate di calore, deterioramento dell’equilibrio idrologico e così via). Queste anomalie sembrano colpire le comunità più svantaggiate. Come mette in relazione la frattura metabolica con le disuguaglianze socioeconomiche?
JBF: Sarebbe sbagliato pensare che questa sia la «prima fase di una crisi climatica di origine antropica». Conosciamo questa crisi ormai da oltre mezzo secolo e abbiamo fatto ben poco per evitarla. La realtà è che ci stiamo rapidamente avvicinando ad un aumento di 1,5°C della temperatura media globale e un aumento di 2°C non è molto lontano. Per avere il 50% di possibilità di evitare un aumento di 2°C, dobbiamo ridurre le emissioni globali di carbonio di circa il 5% all'anno a partire da ora, il che richiederebbe una trasformazione rivoluzionaria del nostro rapporto con la Terra. Questi guardrail climatici sono importanti, poiché evidenziano ciò che gli scienziati del clima temono sia il punto di non ritorno, dove entreranno in gioco effetti di feedback positivi, che possono condurre i cambiamenti climatici irreversibilmente fuori dal nostro controllo. In questo senso, non siamo nella prima fase della crisi climatica di origine antropica, ma piuttosto ci stiamo avvicinando alla fase decisiva, che potrebbe determinare il destino dell’umanità. È certamente vero che le popolazioni sono sempre più consapevoli della portata della minaccia dovuta agli eventi meteorologici estremi, ma i poteri costituiti, che ovviamente conoscono profondamente queste tendenze, stanno facendo di tutto per bloccare i necessari cambiamenti sociali e lo sviluppo di un’autentica coscienza di ciò che sta accadendo, poiché la loro priorità è fare tutto il possibile per mantenere e rafforzare il proprio potere.
Questo di per sé ci dice che è tutta una questione di disuguaglianza socioeconomica. Solo nel 2023, i miliardari del mondo hanno visto un aumento della loro ricchezza di quasi 900 miliardi di dollari. L’anno scorso Oxfam ha pubblicato un rapporto che indicava che i 125 miliardari più ricchi, in media, erano responsabili di un milione di volte le emissioni di carbonio della persona media che appartiene al 90% più povero del mondo. Anche se le crisi ecologiche ed economiche minacciano una crisi totale per l’umanità, i cosiddetti “padroni dell’universo”, come a volte vengono definiti, fanno i lro interessi, bloccando il cambiamento necessario. Naturalmente, non è difficile sapere chi sia immediatamente più vulnerabile al cambiamento climatico: i poveri e gli sfruttati in ogni paese, e soprattutto coloro che vivono con salari da fame e in gravi condizioni ambientali nel Sud globale.
BS: Che Guevara diceva: «Il problema fondamentale nella costruzione del socialismo non è lo sviluppo economico, ma lo sviluppo umano». Cosa intendeva il Che per “sviluppo umano”? Può esaminarlo nel contesto della relazione ambiente-uomo?
JBF: Il Che era particolarmente interessato alla necessità dello sviluppo umano sia come base che come obiettivo finale del socialismo. Il socialismo, sosteneva, richiedeva un nuovo essere umano emancipato, concentrato sui bisogni sociali, ancor più che individuali, e dedito allo sviluppo di tutti. Lo sviluppo umano non è un concetto astratto. L’ONU produce anualmente un Rapporto sullo sviluppo umano per contrastare l’obiettivo principale della letteratura mainstream focalizzato sul mero sviluppo economico. Marx è stato forse il primo a fare riferimento a una “gerarchia dei bisogni”, in cui le necessità di base delle persone, tra cui cibo, acqua, alloggio, abbigliamento, assistenza all'infanzia, istruzione, trasporti, mezzi di comunicazione, mezzi di sviluppo personale e opportunità di lavoro creativo, doveva venire prima dei prodotti di lusso per la classe agiata. Gran parte di ciò che viene classificata come ricchezza in una società capitalista va più precisamente definita, come disse John Ruskin, pura “negatività”. Al contrario di un’economia socialista, sono proprio le aree che contribuiscono maggiormente allo sviluppo umano ad essere particolarmente trascurate in un’economia capitalista, come nel caso di Cuba.
BS: In un articolo pubblicato recentemente su Nature, gli autori mostrano che sette limiti planetari su nove sono già stati superati dall'uomo. Pensa che la nostra lotta ecologica globale sia debole? Non siamo abbastanza forti per rovesciare il capitalismo o non stiamo lottando abbastanza?
JBF: L’articolo del maggio 2023 su Nature di Johan Rockström e colleghi, intitolato “Safe and Just Earth System Boundaries” [Limiti del Sistema Terra sicuri e giusti], è della massima importanza e mostra quanto sia diventata pericolosa per l’umanità la situazione attuale, soprattutto quando incorpora le questioni di giustizia sociale con quelle ecologiche . Si tratta di un importante passo avanti rispetto alla concezione originaria dei limiti planetari in quanto incorpora l’analisi dei limiti della giustizia ambientale che condizionano le relazioni tra le generazioni più anziane e quelle più giovani, tra le generazioni presenti e quelle future e quelle tra i Paesi, le comunità e gli individui. Non sorprende, quindi, che la maggior parte dei limiti “sicuri e giusti” del Sistema Terra siano stati superati, a testimonianza della nostra crisi totale.
Ora disponiamo del modello dei nove limiti planetari, determinati dalle condizioni di sopravvivenza dell’umanità sul pianeta, la maggior parte dei quali sono stati superati o sono in procinto di esserlo, tra cui il cambiamento climatico, la riduzione dello strato di ozono, l’acidificazione degli oceani, l’estinzione delle specie, l’interruzione dei cicli dell’azoto e del fosforo, la perdita di suolo (comprese le foreste), la perdita di acqua dolce, il carico di aerosol e di nuove entità (riferite a sostanze chimiche sintetiche, radionuclidi, organismi geneticamente modificati e così via). Il fatto che tutti questi limiti planetari, se superati, rappresentino minacce mortali per l’umanità nel suo insieme e per innumerevoli altre specie, pone nella sua giusta luce il significato del cambiamento climatico (che è solo uno di questi limiti planetari). Ciascuno di questi limiti evidenzia che è in corso una crisi planetaria, e dietro a tutto c’è il sistema di accumulazione del capitale e l’espropriazione dell’intera Terra.
I nuovi “limiti del Sistema Terra sicuri e giusti”, hanno lo scopo di aggiungere una nuova dimensione a tutto ciò, vedendo l’intero problema attraverso la combinazione di limiti ambientali e sociali, con un inner circle [recinto protettivo] che costituisce “un corridoio sicuro e giusto” per l’umanità. Sottolinea che i vincoli sociali per un ambiente sicuro e giusto sono più urgenti degli stessi limiti biofisici planetari e che ora è necessaria una grande trasformazione sociale. Tuttavia, il problema di questa concezione è che ignora la realtà del capitalismo, che è presente in ogni riga dello studio ma che non viene mai menzionata.
In risposta alla sua domanda specifica, la popolazione della Terra è ovviamente abbastanza forte da rovesciare il capitalismo e, sì, non stiamo ancora lottando a sufficienza. Tuttavia, centinaia di milioni di persone in tutto il mondo stanno già entrando in lotta, in un modo o nell’altro, e i loro sforzi saranno sicuramente amplificati ed estesi a miliardi di persone. Non sappiamo se ciò avverrà nei tempi, nella scala e con i livelli di organizzazione necessari. Non sappiamo quindi quale sarà l’esito. Ma sappiamo che questa sarà la più grande battaglia di tutta la storia umana. Il fatto stesso che il futuro non sia determinato, come disse una volta l’ecologo marxista Richard Levins, è «un appello all’esercizio della libertà».
BS: È possibile organizzare (o realizzare) la rivoluzione ecologica globale senza eliminare le forze di mercato?
JBF: Questa è una domanda difficile a cui rispondere perché una risposta completa dovrebbe affrontare il tema di quali sono le forze di mercato, che è un settore impregnato di miti. È più utile porre la domanda al contrario: «è possibile realizzare una rivoluzione ecologica senza una pianificazione economica ed ecologica, e quale sarebbe il ruolo dei mercati in queste circostanze?» Il numero speciale di luglio-agosto 2023 di Monthly Review, il più lungo che abbiamo pubblicato finora, è intitolato “Planned Degrowth: Ecosocialism and Sustainable Human Development.” [Decrescita pianificata: ecosocialismo e sviluppo umano sostenibile]. Spiega che la sostenibilità ecologica – che richiede un’ampia gamma di soluzioni di decrescita mirate specificatamente ai paesi più ricchi e ai settori più ricchi dell’economia mondiale, migliorando al contempo il tenore di vita reale della maggior parte della popolazione mondiale – non può essere raggiunta senza una qualche forma di pianificazione economica ed ecologica. Il mito del sistema di mercato autoregolamentato è proprio questo: un mito. Diventa una giustificazione per lasciare che tutti i risultati si verifichino ex post piuttosto che ex ante, escludendo, quindi, ogni pianificazione sostanziale, in modo che la classe capitalista e le multinazionali possano fondamentalmente mediare tutti gli sviluppi e manipolarli a loro piacimento con la scusa delle neutrali “forze di mercato”. Abbiamo visto cosa ha fatto tutto ciò all’ambiente planetario nell’ultimo mezzo secolo.
Sarebbe un suicidio lasciare il futuro dell’umanità nelle mani delle cosiddette forze di mercato, cioè del capitale globale, che ha un solo obiettivo: l’accumulazione infinita di capitale ai vertici della società, che ha il suo corrispettivo nel motto “Dopo di me, il diluvio!” Senza una pianificazione controllata dai produttori associati non c’è modo di impedire che il treno in corsa del capitalismo ci porti verso il precipizio. Pianificare, ovviamente, non significa eliminare i mercati. Significa che l’economia non sarebbe controllata dai “mercati”. La verità è che il dominio delle “forze di mercato” indica semplicemente che il comando è nelle mani del capitale monopolistico e finanziario: la stessa forza che ci ha portato sull’orlo del collasso ecologico planetario e che ci impedisce di fare qualcosa al riguardo.
BS: Alcuni dicono che il limite di 1,5°C sta per essere raggiunto (troppo tardi per impedirlo); altri pensano che abbiamo ancora tempo (dobbiamo lottare) prima di raggiungerlo. Cosa pensa di questo? Abbiamo bisogno di speranza e di lotta, piuttosto che di un pessimismo portato all'apocalitticismo, non è vero? Come dovremmo reagire alla crisi climatica, il più grande problema di origine antropica che dobbiamo affrontare?
JBF: C’è una diffusa confusione riguardo al limite degli 1,5°C. L’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha indicato che raggiungeremo un aumento di 1,5°C della temperatura media globale, almeno momentaneamente, nei prossimi sette anni. Lo scenario più ottimistico elaborato dall’IPCC (Gruppo Intergovernativo di Esperti sui Cambiamenti Climatici) delle Nazioni Unite nel suo ultimo rapporto, si basa sul fatto che il pianeta non raggiungerà l’aumento di 1,5°C fino al 2040. Anche in questo scenario più ottimistico dell'IPCC si supererebbe di un decimo di grado l’aumento di 1,5°C dopo il 2040, e solo a fine secolo, attraverso una qualche forma di emissioni negative (prelievo di carbonio dall'atmosfera), si riscenderebbe al di sotto di 1,5°C.
È ancora possibile raggiungere questo obiettivo, ma richiede un cambiamento di portata rivoluzionaria superiore a qualsiasi cosa abbiamo mai visto. Pessimismo e ottimismo sono irrilevanti in questa situazione. Si tratta di costruire un movimento globale basato sulla classe operaia globale e più in generale sui “dannati della terra”, e di impegnarsi nella lotta per un mondo di reale uguaglianza e sostenibilità ecologica. Riguarda i giovani di oggi e le generazioni future. O si sceglie la via della rassegnazione dell’umanità verso il suo cosiddetto destino (che al momento procede verso un olocausto planetario), oppure si resiste. Dobbiamo aprire le valvole di sicurezza per fermare il treno in corsa (una metafora usata da Engels) prima di raggiungere i punti critici che destabilizzeranno irreversibilmente il Sistema Terra. Ci troviamo già in una situazione in cui il livello del mare si sta innalzando e, a prescindere da ciò che facciamo, non sarà possibile invertire la tendenza in un secolo, o addirittura in due, ma possiamo ancora influenzare la velocità e l'entità dell'innalzamento.
BS: I governi costituiscono uno dei maggiori ostacoli alla fusione della lotta ecologica con quella sociale. Ad esempio, in Turchia, dove vivo, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), al potere da più di vent’anni, sta saccheggiando l’ambiente, offrendo la natura alle aziende di diversi settori, in particolare a quello edilizio e minerario. Chiunque si opponga viene dichiarato "terrorista" e a volte persino imprigionato. Come dovremmo combattere? Cosa vorrebbe dire al riguardo?
JBF: Il vero problema a questo livello non sono tanto i governi, ma l'intero stato. Il governo è quella parte dello stato capitalista, solitamente intesa come ramo esecutivo e legislativo, più direttamente responsabile nei confronti della popolazione ed è soggetta al cambiamento. Altre parti dello stato includono la magistratura, la polizia, le carceri, la burocrazia statale, l'esercito, i servizi di intelligence, la banca centrale (che oggi è controllata dalle principali istituzioni finanziarie, sostenute dal potere dello stato), i governi regionali e locali, l’istruzione pubblica e così via. Strettamente allineato con lo stato in generale è l’apparato ideologico statale, in primo luogo il sistema mediaticoimprenditoriale. Ci sono migliaia di vincoli che legano il governo al capitale in ogni fase del processo politico, sia prima che dopo le elezioni, e “chi paga il pifferaio detta la melodia”. In questo momento, quella che finora è stata la forma statale dominante nel mondo capitalista avanzato, la democrazia liberale, è coinvolta nella crisi strutturale, e lo stato capitalista sta passando dall’austerità neoliberista all'ascesa neofascista. Se viene eletto un governo anticapitalista, oppure riformista (come attualmente, ad esempio, in alcune parti dell’America Latina), questo si trova ad affrontare l’ostilità di altre parti radicate nello stato capitalista, oltre ad essere attaccato esternamente dal capitale che ha un enorme potere autonomo non direttamente dipendente dallo stato. I governi capitalisti sono fortemente limitati nelle modalità con cui possono regolamentare o interferire con il capitale, ma hanno enormi poteri coercitivi (soprattutto nelle emergenze statali) per reprimere la popolazione.
Quando lo stato capitalista va verso il fascismo (o il neofascismo), ovviamente perde legittimità e si affida sempre più alla coercizione diretta, alla censura e alla propaganda. Definire come “terrorismo” un numero sempre maggiore di forme di protesta, cosa che sta accadendo anche negli Stati Uniti, è un’indicazione di questo cambiamento. È difficile dire quale forma, in termini di strategia e tattica, dovrebbe assumere la resistenza in un particolare stato o regione, poiché le condizioni variano enormemente in tutto il mondo. Tuttavia, senza un movimento organizzato per il socialismo (e l’ecologia) di grande dimensione e rivoluzionario, i cambiamenti necessari non sono possibili. Questa sembra essere una verità incontrovertibile della nostra epoca, che procede ovunque nella direzione di un vero e proprio saccheggio delle popolazioni. La situazione è più estrema, ovviamente, in quei paesi che sono direttamente soggetti all’imperialismo, ma siamo anche di fronte ad un olocausto planetario che colpirà le popolazioni di tutto il mondo.
Penso che la più significativa teoria e critica dello stato sviluppata nel nostro tempo si trovi in Beyond Capital [Oltre il capitale] e Beyond Leviathan di István Mészáros. L'analisi di Mészáros, che ha influenzato Hugo Chávez e la Rivoluzione bolivariana in Venezuela, fa riemergere la classica nozione marxista dell'estinzione dello stato attraverso di creazione di uno stato comunitario. In Venezuela, una parte della base popolare sta cominciando a organizzarsi in tutte le sue relazioni – economiche, politiche, ecologiche e culturali – attraverso lo scambio comunitario all’interno delle comunità locali. Lo stato bolivariano ha sostenuto questa base popolare autonoma e da essa trae gran parte del proprio potere e, in questo senso non è più separato, distante dalla popolazione (sebbene vi siano contraddizioni di ogni tipo). Tuttavia, non esiste un’unica via verso il socialismo, poiché le condizioni variano enormemente, così come i linguaggi rivoluzionari e i percorsi di lotta.
Riguardo alla sua osservazione, molto perspicace, secondo cui lo stato “offre la natura alle aziende”, questo fa parte della finanziarizzazione della natura. Esprime la nuova strategia globale del capitale in relazione alla crisi ecologica planetaria, sulla quale ho scritto recentemente numerosi articoli e che è trattata nel mio nuovo libro, The Dialectics of Ecology.
BS: Ho riletto l’articolo di MR “Organizing Ecological Revolution”, pubblicato nel numero di ottobre del 2005. Perché lo scenario “Nuovo Paradigma di Sostenibilità” (uno dei due principali scenari di transizione proposti dal Global Scenario Group), secondo lei è insufficiente? Cosa intende per “ecocomunalismo”, l’altro scenario che considera più efficace?
JBF: Il Global Scenario Group ha introdotto quella che è conosciuta come “Great Transition Initiative” [Grande Iniziativa di Transizione], che è un processo ancora in corso, e che rappresenta, fondalmentalmente, una prospettiva social-liberale globale. Il Global Scenario Group proponeva due possibili forme di Grande Transizione. Una era un progetto utopico e non rivoluzionario chiamato “Nuovo Programma di Sostenibilità” che doveva essere avviato attraverso l’azione congiunta delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e dalle organizzazioni non governative. Era stata menzionata anche la partecipazione di una più ampia base popolare, ma del tutto accessoria. La parte razionale del Nuovo Programma di Sostenibilità era l’adozione di un’economia di stato-stazionario, come immaginata nel diciannovesimo secolo da John Stuart Mill nella sua fase socialdemocratica e promossa ai nostri giorni dal defunto Herman Daly. Il problema con questo modello è che presuppone l’abbandono della crescita economica e dell’accumulazione di capitale senza che allo stesso tempo vengano alterate le strutture politico-economiche fondamentali del capitalismo. In termini odierni, questa potrebbe essere descritta come una strategia di capitalismo della decrescita. Ho scritto un articolo su questa strategia in cui la descrivevo come un “teorema dell’impossibilità”, ovvero, che è impossibile separare il capitalismo e la sua struttura di classe e istituzionale, dalla spinta all’accumulazione di capitale. Come diceva Marx, questo sistema è per “Accumulare, accumulare! Questi sono Mosè e i profeti!” L’idea che la Banca Mondiale possa promuovere un’economia di stato-stazionario o di decrescita, o che questa possa in qualche modo essere istituzionalizzata all’interno del capitalismo, è una visione antirealista. Daly, che ha lavorato per un certo periodo per la Banca Mondiale, ha riconosciuto questa contraddizione.
Il paradigma dell’ecocomunalismo è diverso in quanto è stato descritto dal Global Scenario Group come una sorta di economia socialista della decrescita, che rompe fondamentalmente con il sistema di accumulazione del capitale. Il pensatore del diciannovesimo secolo che più strettamente può essere identificato con questo paradigma fu il grande artista, artigiano, poeta e socialista William Morris, che nei suoi ultimi anni fu il motore principale della Lega Socialista alla quale erano legate figure come Eleanor Marx ed Engels. Morris è stato sia marxista ecologico che fermamente antimperialista. Sosteneva che l’Inghilterra avrebbe potuto dimezzare il consumo di carbone se avesse eliminato gli sprechi e lo sfruttamento associati al capitalismo. Tre capitoli del mio libro The Return of Nature sono dedicati alle idee di Morris. È stato il pensatore del diciannovesimo secolo più vicino a ciò che può essere definito un “comunista della decrescita”, il termine che Kohei Saito ha recentemente reso popolare.
Il comunismo della decrescita, o decrescita pianificata, mira ad eliminare la sovraaccumulazione, gli sprechi, l’irrazionalità economica, le differenze di classe e la ripetizione alienata della produzione, migliorando ovunque, contemporaneamente, la qualità della vita delle popolazioni. Prende di mira la classe capitalista e gli stati ricchi e imperialisti ed esige la fine della formazione di capitale netto nelle economie ricche. I paesi sottosviluppati e i settori più poveri dell’economia mondiale necessitano ancora di un’ulteriore crescita economica coerente con i bisogni umani. Ci sarebbe bisogno di una convergenza nell'uso dell'energia e delle risorse a livello globale, a un livello sostenibile per tutti a livello planetario, con un aggiustamento verso il basso nei Paesi con un'elevata impronta ecologica pro capite. Tuttavia, come riconosciuto dal Global Scenario Group, il paradigma dell'ecocomunalismo richiederebbe una ricostituzione rivoluzionaria della società in generale, motivo per cui, ovviamente, non è stato dibattuto.
BS: Parlando di sostenibilità, penso che questa nozione sia stata svuotata e utilizzata come copertura (greenwashing) dal capitalismo. Lei associa la vera sostenibilità al socialismo. Non è meglio vederla così?
JBF: Molti termini essenziali, senza i quali difficilmente potremmo iniziare ad affrontare i problemi sociali, sono stati fatti propri e distorti dal sistema di potere di classe, e di conseguenza,oggi vengono contestati. Si tratta di termini come democrazia, libertà, uguaglianza, socialismo, sostenibilità e così via. Non possiamo abbandonare i significati reali, sostanziali e critici di questi termini, che sono cruciali per l’emancipazione e lo sviluppo umano, solo perché sono stati stravolti, distorti, annacquati e di fatto negati dal sistema ideologico dominante. Oggi, negli Stati Uniti la democrazia è identificata con il mercato, in contrasto con il suo significato originario, che era il governo dei poveri, il demos. In queste circostanze, dobbiamo lottare per affermare i significati originari di queste categorie così come sono nati dalle lotte del passato. È necessario condurre la lotta per l’egemonia culturale come parte di quella che Antonio Gramsci chiamava “la filosofia della prassi”. Sarebbe autolesionismo abbandonare la nozione di sostenibilità e lasciare che venga corrotta fino a significare la sostenibilità del capitalismo, l'esatto contrario del suo significato originale. La nostra concezione è la necessaria sostenibilità della relazione umana con la terra, che non può essere realizzata se non in una società di uguaglianza sostanziale.
BS: Concludiamo la conversazione parlando della Monthly Review. Pubblicare dal 1949 una rivista socialista in un paese come gli Stati Uniti, che sono il centro del capitalismo, e continuare la propria vita editoriale “in modo indipendente” anche durante i periodi di “caccia alle streghe”, richiede grande acume e forza di volontà. Credo che sia un grande successo che la rivista sia sopravvissuta fino ai nostri giorni. Quando è diventato direttore della rivista? Come si sono incrociate le vostre strade?
JBF: Ero un avido lettore di Monthly Review, come lo erano molti dei miei amici dei primi anni Settanta. Ero a conoscenza di MR fin dall'inizio, utilizzandola come fonte nei dibattiti al liceo, quando discutevamo della Guerra del Vietnam. Ma è stato il mio amico e compagno di stanza dell'Evergreen State College, Robert W. McChesney, che mi ha invitato a focalizzarmi su MR come visione omogenea. All’epoca studiavamo economia, compresa l’economia radicale. Ciò avveniva durante le ultime fasi della Guerra del Vietnam, il colpo di stato in Cile e la crisi economica della prima metà degli anni Settanta. Monthly Review era al centro di tutto questo, soprattutto per coloro che erano interessati all’economia politica radicale. L'opera più importante della sinistra marxista negli Stati Uniti in quel periodo era Monopoly Capital [Il capitale monopolistico] di Paul A. Baran e Paul M. Sweezy. Un gruppo di noi andò a Seattle quando Sweezy, di ritorno dalla Cina, tenne una conferenza davanti a un vasto pubblico presso l'Università di Washington. Leggemmo tutto su Monthly Review e su Monthly Review Press. Ci recammo a Eugene, nell’Oregon, dove si riuniva l’Union of Radical Political Economists, che all’epoca era anch’essa strettamente collegata alla Monthly Review.
Nel 1976, ho frequentato la scuola di specializzazione presso la York University di Toronto e mi sono appassionato per un paio d'anni ai fondamenti dell'economia politica marxista. Scrissi un articolo in difesa della teoria della caduta tendenziale del tasso di profitto ma poi, quando terminai l’ultima pagina della mia argomentazione, decisi che in realtà non era applicabile alla nostra situazione attuale. In seguito ho studiato con il principale storico revisionista statunitense Gabriel Kolko, che mi fece conoscere i dati sull’utilizzo della capacità produttiva ed il lavoro dell’economista marxista austriaco Josef Steindl. Questo mi ha portato al lavoro del marxista polacco Michał Kalecki e poi, attraverso Kalecki e Steindl, a Monopoly Capital di Baran e Sweezy. Scrissi un lungo manoscritto su “The United States and Monopoly Capitalism: The Issue of Excess Capacity” [Gli Stati Uniti e il capitalismo monopolistico: la questione della capacità in eccesso], e lo inviai a Sweezy, nel 1979 o 1980, che ne rimase colpito e diventammo amici intimi.
Nel 1989 sono diventato membro del consiglio della Monthly Review Foundation e membro del comitato editoriale della rivista. La rivista ha attraversato diverse difficoltà negli anni '90 a causa del fatto che i redattori erano ottantenni e il lavoro rallentava. Ellen Meiksins Wood, con la quale avevo studiato a York, subentrò per diversi anni come redattore, insieme a Harry Magdoff e Sweezy. Nel 2000, McChesney ed io ci unimmo a Magdoff e Sweezy come redattori. Con la morte di Sweezy e Magdoff, rispettivamente nel 2004 e nel 2006, e le dimissioni di McChesney da redattore nel 2004 causata da altre responsabilità politiche e intellettuali (rimase nel consiglio della Monthly Review Foundation), mi sono ritrovato ad essere l’unico redattore. Oggi operiamo in gran parte su base collettiva. Brett Clark è redattore associato, Jamil Jonna è redattore associato per comunicazioni e tecnologia e Sarah Kramer è redattore aggiunto, mentre, per la rivista, abbiamo un comitato editoriale forte e di grande talento che comprende John Mage, Hannah Holleman e Intan Suwandi, con il sostegno di Fred Magdoff e Victor Wallis.
BS: Come redattore di una rivista socialista, quali difficoltà ha dovuto affrontare e sta affrontando ora?
JBF: Le difficoltà sono infinite, ma naturalmente la più grande è che negli Stati Uniti viviamo in un ambiente politico e sociale in cui quella che viene comunemente chiamata "sinistra" è di fatto liberale, social-liberale o socialdemocratica e sostiene in larga misura il capitalismo e l'imperialismo anche se influenzata per certi aspetti dal marxismo. Leo Huberman e Sweezy, i fondatori di MR, furono entrambi trascinati davanti agli inquisitori maccartisti negli anni '50, così come Magdoff, che sarebbe diventato redattore di MR dopo la morte di Huberman nel 1968. Il caso Sweezy, sulla libertà accademica, arrivò fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che decise in suo favore in una delle decisioni che segnarono la fine del maccartismo. Fin dall'inizio, MR ha adottato la filosofia del “Better Smaller But Better” [meglio piccolo ma meglio], uno slogan che Baran ha adattato da V. I. Lenin. Diamo risalto alla chiarezza e ci rifiutiamo di annacquare le nostre idee per ottenere la rispettabilità all'interno del sistema (ovviamente con costi considerevoli per la nostra accettazione all'interno della società statunitense), poiché intraprendere questa strada significherebbe abolire la ragione stessa della nostra esistenza. Diamo risalto alla visione a lungo termine e alla prospettiva antimperialista. Per noi è anche importante che MR abbia come sottotitolo "An Independent Socialist Magazine". Facciamo del nostro meglio per evitare il settarismo che ha così spesso diviso i socialisti e per rappresentare una grande casa per la sinistra socialista e antimperialista. La varietà di questioni che cerchiamo di trattare nella rivista è enorme e, sebbene ritenga che il nostro approccio sia generalmente eccellente, abbiamo avuto più successo con alcuni temi che con altri. Ultimamente, abbiamo cercato di affrontare temi come il capitalismo razziale e la teoria della riproduzione sociale, dedicando a entrambi dei numeri speciali. Si tratta di temi che hanno radici profonde nella tradizione di MR, ma che non sempre siamo riusciti ad affrontare al livello che avremmo voluto.
BS: Quanti lettori e abbonati avete al mese?
JBF: Gli abbonati alla rivista cartacea sono oltre quattromila, mentre i lettori mensili della rivista, se si aggiungono quelli online, sono più del triplo, superando di gran lunga le dodicimila unità. Ma, in realtà, questa è solo la punta dell'iceberg, perché i nostri articoli sono riprodotti, a livello globale, su molti siti web, e ci sono, in tutto il mondo, traduzioni quasi immediate in altre lingue, rendendo il tutto difficile da monitorare. Ad esempio, la maggior parte di ciò che scrivo per la rivista viene tradotta quasi immediatamente in cinese, e i nostri articoli vengono regolarmente tradotti anche in spagnolo, turco, coreano e altre lingue. MR ha quindi un pubblico mondiale. D’altro canto, questo non include i nostri lettori su MR Online, dove pubblichiamo quotidianamente materiali separati dalla rivista. Naturalmente, abbiamo anche un gran numero di lettori attraverso Monthly Review Press, la nostra casa editrice.
BS: Siete passati anche al digitale con il nome di MR Online. Qui gli articoli si possono leggere gratuitamente. Come fa la rivista a generare entrate per mantenersi indipendente?
JBF: Mantenendo deliberatamente basso, rispetto agli standard odierni, il prezzo di abbonamento della rivista. Inoltre, sia gli articoli della Monthly Review propriamente detta, cioè la rivista, sia quelli presenti su MR Online, separati dalla rivista, sono al di fuori dei paywall, a disposizione di tutti. Monthly Review non aderisce quindi minimamente a un normale modello di business. Non è qualcosa di facilmente replicabile. Sopravviviamo grazie alla fedeltà dei nostri abbonati, molti dei quali sono anche soci e sostenitori di MR. Mettiamo i contenuti della rivista a disposizione di tutti su Internet, così da consentire l’accesso a coloro che non possono permettersi di pagare e a coloro che, nel Sud del mondo o altrove, non avrebbero altrimenti un accesso immediato. La maggior parte degli articoli del secolo scorso sono disponibili solo per gli abbonati, che hanno accesso agli archivi completi. Per ricevere la rivista cartacea nella sua forma originale o in formato PDF, al contrario del formato digitale online, è necessario acquistarla direttamente o tramite abbonamento, oppure accedervi tramite le librerie.
Cerchiamo di fare della rivista cartacea qualcosa che le persone vogliono tenere in mano, leggere, studiare e conservare. MR è stata progettata per essere letta in questo modo ed è per questo che ha le dimensioni di un libro. Gli articoli di MR consistono in analisi fatte per durare nel tempo e, tenendo conto delle mutate condizioni storiche, per essere significative, a distanza di venticinque o addirittura cinquant'anni, come lo erano quando sono state pubblicate. Piuttosto che abbreviare gli articoli e cercare di competere con i blog di Internet, ci siamo concentrati sul fornire ricerche più approfondite, su informazioni ed analisi critiche di cui le persone hanno disperatamente bisogno. Di fondamentale importanza è il fatto che Monthly Review ha una continuità nei suoi quasi settantacinque anni di esistenza ed ha una chiarezza, anche negli argomenti complessi, che la rendono unica. Finora i lettori di MR ci hanno sostenuto costantemente, continuando ad abbonarsi alla rivista cartacea. Il loro coinvolgimento in ciò che facciamo è la nostra principale risorsa ed il modo in cui sopravviviamo; questo, unitamente agli enormi sforzi di una manciata di persone che costituiscono il nostro nucleo interno.
Naturalmente, la rivista non è l'unica nostra attività: c’è anche Monthly Review Press. La rivista e la casa editrice hanno un rapporto simbiotico, ognuna rafforza l'altra. Abbiamo inoltre MR Online, che ci porta molti nuovi lettori, soprattutto giovani. Rebecca Manski della Monthly Review Press ha aggiunto una componente video sulla pagina del nostro sito web, che vede coinvolti principalmente gli autori che discutono delle loro opere.
BS: State pensando di passare dall’edizione stampata alla sola edizione digitale?
JBF: No, sarebbe un passo indietro per noi. L'edizione cartacea della rivista è il cuore di MR. Siamo una pubblicazione, sia completamente stampata che completamente digitale: ciò è sempre più raro ma ora la rivista è più presente nelle pubblicazioni d'élite. Se fossimo una rivista esclusivamente digitale, molto probabilmente non sopravviveremmo.
BS: In che modo e in che proporzione l'inclusione delle questioni ecologiche nel programma delle pubblicazioni è cambiata da quando è stata fondata Monthly Review?
JBF: Monthly Review si è sempre occupata di scienze naturali e del rapporto dell'uomo con l'ambiente. Albert Einstein scrisse il suo “Perché il socialismo?" per il primo numero di MR nel 1949. Philip Morrison, un fisico del Progetto Manhattan, tenne una rubrica su MR per molti anni, così come Scott Nearing, uno dei grandi pensatori sociali ambientali degli Stati Uniti. Nearing elogiò sulla rivista Primavera silenziosa di Rachel Carson, quando il libro fu pubblicato. Poco dopo la pubblicazione del famoso Limits to Growth Study nel 1972, i redattori di MR sostennero che la crescita economica avrebbe dovuto essere limitata. Il tema ambientale divenne naturalmente più importante, per la rivista, con l'aggravarsi della crisi ecologica. Un punto di svolta fondamentale per MR fu la pubblicazione, nel luglio-agosto 1986, di un numero speciale su "Science, Technology, and Capitalism", curato da David Himmelstein e Steffie Woolhandler, con contributi di Richard Levins, Richard Lewontin, Nancy Krieger, Vicente Navarro e altri. Levins e Lewontin, che pubblicarono The Dialectical Biologist nel 1985, si avvicinarono molto a MR, scrivendo numerosi articoli per la rivista. Grazie al duro lavoro di Clark e Martin Paddio, Monthly Review Press pubblicò il loro Biology Under the Influence nel 2007. Sono diventato amico di Lewontin, che una volta mi disse: "MR è tutto ciò che abbiamo"; penso sia il complimento più bello che la rivista abbia mai ricevuto.
Sweezy era molto interessato all'ambiente, come si può vedere attraverso le sue analisi negli anni Sessanta e Settanta, così come lo era anche Harry Magdoff. Monthly Review influenzò fortemente lo sviluppo della sociologia ambientale neo-marxiana negli Stati Uniti, soprattutto The Sociology of Survival di Charles Anderson, pubblicato nel 1976 e The Environment di Allan Schnaiberg, pubblicato nel 1980. Sweezy era un caro amico di Gerard Piel, l'editore di Scientific American, e discutevano spesso di questioni ambientali. Piel ha scritto nel 1992 un libro, Only One World, che ha avuto un grande effetto su di me mentre stavo scrivendo The Vulnerable Planet. Sweezy ha scritto due importanti articoli sul problema ecologico planetario nel 1989: “Capitalism and the Environment” (con Harry Magdoff) e “Socialism and Ecology”. In questo secolo il problema ecologico è accresciuto ed è diventato uno dei temi dominanti della rivista, insieme alla questione dell'ecologia marxiana da un punto di vista teorico. Ciò ha in qualche modo, nella rivista, sostituito il precedente ruolo dominante dell’analisi della crisi economica, sebbene continuiamo a pubblicare lavori importanti sul tema. MR è sempre stata una pubblicazione politico-economica interessata soprattutto all’imperialismo, quindi, nella rivista, la critica della crisi ecologica ha questi pilastri intellettuali che la sorreggono. Sempre di più le contraddizioni politico-economiche ed ecologiche sono viste come costituenti la crisi strutturale del capitale che ora minaccia l’esistenza stessa dell’umanità e che è indissolubilmente legata al sistema imperialista.
Gran parte del nostro successo nell’affrontare il tema della crisi ecogica è dovuto a Michael Yates, direttore della Monthly Review Press. Yates è un economista di enorme talento, il cui lavoro è stato principalmente rivolto alle questioni della classe operaia, del lavoro e dei sindacati. Nel suo recente libro del 2022, Work Work Work: Labour, Alienation, and Class Struggle, ha inserito una forte componente ecologica sottolineando le interconnessioni tra lo sfruttamento del lavoro e l’espropriazione della natura. È in gran parte dovuto al lavoro di Yates come redattore (così come agli sforzi di Paddio) se la Monthly Review Press ha recentemente pubblicato tre libri che hanno ricevuto il prestigioso Isaac e Tamara Deutscher Memorial Prize, tra cui due, Karl Marx’s Ecosocialism [L'ecosocialismo di Karl Marx] di Saito e il mio The Return of Nature, incentrati sull’ecologia marxiana. Fred Magdoff è uno scienziato del suolo e scrive anche di economia politica, e in queste vesti ha rafforzato la nostra analisi ecologica, in particolare rispetto alla critica dell’agrobusiness.
BS: Per finire, che cosa ama fare John Bellamy Foster nel suo tempo libero dal ravoro editoriale?
JBF: A parte la rivista, continuo a tenere un paio di corsi all'anno all'università e a lavorare con studenti laureati in diversi dipartimenti, il che richiede molto tempo. Ho anche le mie ricerche e i miei scritti relativamente indipendenti da MR. Mi piace viaggiare, di solito combinando questo con conferenze sul socialismo e l’ecologia a sostegno dei movimenti in tutto il mondo, anche se ultimamente non ho viaggiato molto. Faccio molte conferenze su Internet. Leggo molta narrativa. Oltre a ciò, la vita è dedicata alla famiglia e agli amici, alla comunità e alla natura. Trascorriamo gran parte del nostro tempo all’aperto, facendo lunghe passeggiate ogni giorno e facendo gite al mare e in montagna quando possiamo. Come ha affermato Paul Lafargue, al di là di tutto il lavoro necessario e creativo, abbiamo il diritto all’ozio.
John Bellamy Foster e Batuhan Sarican
Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org
Fonte: Monthly Review vol.75 n. 06 (01.11.2023)
Aggiungi commento