Fonte: Evonomics - 10.09.2022
Uno dei motivi per cui questa storia taciuta è importante, è che anche oggi la “razionalità” economica e il saccheggio rimangono spesso complici del crimine.
Dall'Irlanda all'India, il libero scambio ha portato saccheggio, carestia e morte
Che ruolo dovrebbe avere l'avidità nel modo in cui gestiamo il mondo? Dovrebbe governarci e dare forma a tutto ciò che facciamo?
Direi che viviamo sotto una "greedocrazia" [1] mascherata da una forma di liberalismo. Concepita come l'unico modo razionale, l'avidità è diventata la stella polare delle élites globali prive di sensi di colpa. Ma la grande narrazione cui solitamente si ricorre per giustificare questo credo, secondo cui una avidità buona modella il mondo, ignora vigorosamente a livello basilare la storia e sopprime scorrettamente i dati sui danni odierni causati dall’avidità. Questo saggio vi guiderà attraverso le ragioni per cui i mercati liberi dell’“ordine mondiale liberale” non mirano realmente ad estendere al massimo la prosperità: per giudicare correttamente il loro curriculum è necessario fare i conti con i genocidi e gli olocausti taciuti causati dall'avidità.
Si consideri il modo in cui l’“ottimista razionale” Steven Pinker dipinge la storia del commercio nella sua amata e miliardaria bibbia foriera di buone notizie, The Better Angels of Our Nature (tra le sue opere, il «libro più stimolante che abbia mai letto», ha commentato il famoso filantropo predatore, Bill Gates). In questo libro Pinker dichiara di pensare «come un economista», rifacendosi alla «teoria del commercio gentile del liberalismo classico», in base alla quale il commercio diventa «più interessante della... guerra». I leader razionalmente illuminati ragionano sul fatto che «il tuo partner commerciale diventa improvvisamente più prezioso per te da vivo che da morto».
Confrontate questo glorioso vitale compromesso con il punto di vista di un commerciante impegnato in prima linea nel cosiddetto commercio gentile: «Non può esserci commercio senza guerra», dichiarava Jan Pieterzoon Coen della Compagnia olandese delle Indie orientali. Citazione, questa, da The Nutmeg’s Curse di Amitav Ghosh (un libro eloquentemente allarmante sulle enormi lacune ideologiche presenti nel discorso sulla crisi climatica). A differenza di Pinker, le parole di Coen non erano teorizzazioni astratte e giungevano concretamente alla conclusione opposta sul valore delle vite dei “partner” commerciali. Egli infatti ordinò un massacro degli isolani di Banda per assicurarsi il monopolio. E la cosa coinvolse cinquanta navi e duemila uomini (tra cui, ottanta ronin giapponesi, mercenari samurai senza padrone) che deportarono, «uccisero, catturarono o ridussero in schiavitù» il 90% dei quindicimila “partner commerciali” indigeni. Questo «sterminio quasi totale della popolazione delle Isole Banda [è] chiaramente un genocidio» (concludeva un articolo del 2012 del Journal of Genocide Studies). La maledetta spezia del titolo di Ghosh era così preziosa che una manciata di noce moscata «poteva bastare per l’acquisto di una casa o di una nave», cosa che purtroppo significava che il genocidio del commercio gentile di Coen produceva avidi profitti anche al costo di cinquemila schiavi all'anno (“lavoro” che non durò a lungo nelle condizioni del commercio gentile).
Pinker non sbaglia nel riportare le opinioni dell’Illuminismo. L'economista Albert Hirschman, in The Passions and the Interests, un autorevole libro sul lungo processo che portò un vizio ritenuto un tempo mortale, come l'avarizia, a trasformarsi nell’“interesse personale” puramente razionale, durante l'ascesa del primo capitalismo, conferma che «si parla[va] spesso ... di douceur del commercio». Douceur si traduce con «dolcezza, morbidezza, calma e gentilezza... il contrario di violenza». Hirschman e Pinker citano un lungo elenco di grandi pensatori dell'Illuminismo, tra cui Kant, il quale ad esempio scrisse nel 1795 che «Lo spirito del commercio... non può esistere fianco a fianco con la guerra». Pinker concorda, «le potenze commerciali... tendevano a privilegiare il commercio rispetto alla conquista».
Ma questa maestosa creazione di miti della modernità – l'Illuminismo come trionfo della razionalità e dell'umanesimo – non deve mascherare che l'Età della Ragione fiancheggiò e spesso giustificò il vasto e violento saccheggio dell'economia imperiale (ora spesso eufemisticamente chiamata “libero commercio”). Uno dei motivi per cui questa storia taciuta è importante, è che anche oggi la “razionalità” economica e il saccheggio rimangono spesso complici del crimine. Nonostante tutti gli eleganti sermoni di Pinker, che brandisce statistiche per tranquillizzare l’élite, secondo cui «in realtà il libero mercato dà un premio all'empatia», nella realtà evidentemente c'era poca empatia per persone come gli abitanti delle isole Banda. O per molti altri milioni di vite stroncate o rovinate dal “commercio gentile” e dal "libero scambio", che, come vedremo, potrebbero materializzarsi al vostro confine sotto forma di un esercito commerciale genocida, deciso a «privilegiare l'empatia» e a ridurre il vostro stile di vita in una polvere intrisa di sangue.
Considerate quali effetti hanno avuto le benedizioni del commercio gentile del liberalismo classico sugli interventi necessari per scongiurare la fame, così come presentati dal “marchio Pinker di rigorosa razionalità” [2], che mira a ridurre le complessità bizantine della storia a un qualche genere di facile comprensione che si possa ottenere dando uno sguardo ai “numeri”. I dati da rappresentare dovrebbero preferibilmente essere ora tracciati su un grafico attraente e retoricamente efficace o, in mancanza di ciò, si dovrebbe comprimere la grande complessità della storia in tabelle simili a fogli di calcolo con colonne per rapidi confronti numerici. Si veda, ad esempio, la tabella sui disastri più letali di tutti i tempi a pag. 195 di The Better Angels of Our Nature.
Questa letale classifica delle tribolazioni ha solo due voci chiamate esplicitamente «carestia». Al numero due, «Mao Zedong (carestia principalmente causata dal governo)» con quaranta milioni di morti e, al numero dodici, «India britannica (carestia per lo più evitabile)» con diciassette milioni di morti. Pinker fornisce anche cifre corrette riguardo alla crescita relativa della popolazione, il che permette di rettificare il numero di morti durante la carestia britannica in India a trentacinque milioni: che risulta pertanto più letale della Prima Guerra mondiale (coi suoi quindici milioni di morti) e molte volte più funesta dell'olocausto nazista (coi suoi sei milioni di morti). Pinker incolpa i «dissennati schemi» di Mao che, secondo lui, illustrano come «una leadership utopistica si faccia guidare da un monumentale narcisismo e dalla spietatezza». Ma da nessuna parte Pinker nota, come dimostrerò, che quelle carestie nell’India britannica erano causate da precise politiche ed esplicitamente giustificate dalla dottrina liberale del libero mercato. Queste politiche imperiali “illuminate” furono attuate da élites impeccabilmente eleganti, selezionate perché fossero fortemente spietate, se non addirittura spinte da un monumentale narcisismo alla ricerca di statue. Certamente tali crimini colossali dovrebbero pesare a sfavore del «commercio gentile» nella scala morale della storia…
Inoltre, il “Pinkering” (pensiero razionalmente ottimista e che fa riferimento strettamente ai numeri) nasconde troppo facilmente come le politiche imperiali del “libero mercato” abbiano contribuito alla serie di rivoluzioni che culminarono con Mao, innescate da quei programmi di esemplare commercio gentile noti come le Guerre dell'Oppio (1839-1860). Le nobili forze armate narco-capitalistiche britanniche distrussero il millenario tessuto sociale della Cina, che prevedeva infrastrutture a livello centrale per la prevenzione delle carestie. Questa vasta operazione dell'oppio fonte di enormi ricchezze fu gestita dalla banda di narcotrafficanti di maggior successo della storia (i boss della droga erano nobili ufficiali della guardia britannica). Questo genere di interconnessioni causali complesse ed intricate (col risibile pretesto del rigore) sono ridotte facilmente a “numeri” ben classificati.
Nel suo libro Late Victorian Holocausts [Olocausti tardovittoriani ] lo storico Mike Davis scrive che ci furono tra i dodici e i ventinove milioni di morti durante la carestia indiana avvenuta sotto il governo inglese. Ed esplicitamente dà la colpa di ciò all’«imposizione del libero scambio», osservando come questi milioni di persone siano stati uccisi «nell'età d'oro del capitalismo liberale». I primi resoconti pubblici del febbraio 1878 del giornalista Robert Knight dichiaravano che i funzionari britannici erano colpevoli di «molti omicidi».
Se applichiamo il fattore di scala di Pinker alle cifre di Davis, otteniamo l'equivalente di 24-58 milioni di morti nei XX secolo (da quattro a dieci volte l'entità dell'olocausto nazista). Mentre avveniva tutto questo, il decoroso set di Downton-Abbey esportava grano sui mercati mondiali mentre milioni di persone morivano di fame. “Efficienza” del mercato, allora come oggi, significa allocare le risorse a chi paga di più. Ma non temete, i nobili britannici agirono rapidamente per proteggere ciò che contava di più per loro: il loro amato libero mercato. Imposero nel 1877 l’Anti-Charitable Contributions Act, vietando gli aiuti privati che avrebbero potuto interferire con l’«imposizione dei prezzi del grano da parte del mercato». L'unico aiuto consentito era quello nei campi di lavoro forzato, terribilmente duro, come quello di Madras, che offrivano meno calorie giornaliere di Buchenwald. Come scrive Davis, mentre «l'Asia moriva di fame, gli Stati Uniti facevano il più grande raccolto di grano della storia mondiale... e nella valle centrale della California si bruciava il grano in eccedenza senza valore», secondo la perversa moralità del mercato. Per comprendere lo stato d'animo di questa cerchia incantata di signori imperiali, si consideri che nel 1874 i classici esemplari liberali dell'Economist scrissero che non era saggio incoraggiare gli «indiani indolenti» a credere che fosse «dovere del governo mantenerli in vita». Lord Salisbury, segretario di stato per l'India, riteneva che fosse un errore spendere «denaro per salvare un bel po’ di neri».
Non tutti gli inglesi erano però così insensibili come gli affascinanti gula [3] imperiali dell’élite di governo. Come osserva Shashi Tharoor nel suo libro Inglorious Empire, un articolo sul Times di Londra lamentava che «il viceré si fosse intromesso per reprimere i gesti di carità». E un fondo di soccorso di «820.000 £ fu raccolto grazie a milioni di piccoli contributi da parte di individui, scuole, chiese e corpi dell’esercito in tutto il mondo britannico». Il viceré Lord Lytton, la cui principale qualifica per governare l'India era di essere il poeta preferito della regina Vittoria, definì il fondo una «totale seccatura». Tharoor conclude che «i fatti della colpevolezza britannica anche all’apice della loro “missione civilizzatrice”... sono schiaccianti», ma spesso vengono ancora ignorati.
Perché, viene da chiedersi, queste carestie non sono giustamente chiamate olocausti imperiali? Olocausti inglesi? Olocausti del libero mercato? Olocausti liberali? Olocausti causati da grandi imprese? Olocausti capitalistici?
I lettori distolti dal collegare questo termine al tanto decantato liberalismo, dovrebbero ricordare che “olocausto” significa qualsiasi distruzione di massa. La parola deriva dal greco e indica un’offerta sacrificale bruciata per intero (per questo molti ebrei preferiscono il termine Shoah – catastrofe – privo di connotati religiosi).
Nella sua storia del sistema alimentare mondiale, Animal, Vegetable, Junk, Mark Bittman osserva che i liberali classici amanti del libero mercato tollerarono un aumento del 3.000% del tasso di carestia in India, fatto che segna il passaggio da meno di una carestia ogni secolo ad una ogni tre anni. Invocando esplicitamente il nome dell'efficienza razionale del libero mercato, gli inglesi interruppero violentemente le antiche pratiche di immagazzinamento delle riserve alimentari locali che per secoli avevano consentito alle élites indiane di adempiere al dovere di sfamare i propri poveri in tempi di carestia. A ciò si aggiunse il fatto che, l'aumento spietato della tassazione britannica, erose fortemente il potere d'acquisto dei contadini (Tharoor lo definisce «il culmine di due secoli di crudeltà coloniale»).
Naturalmente, questi meravigliosi peccati imperiali durati un secolo ricevevano critiche anche da parte dei contemporanei. Ad esempio, Thomas Paine, famoso per i pamphlet che diedero un contributo ideologico alla rivoluzione americana, scrisse che «l'indiano nudo e senza istruzione è meno selvaggio del... re d'Inghilterra». Il suo fuoco d'inchiostro incendiario infiammò i coloni contro i «ruffiani coronati» dei reali che governavano in modo spietato, tanto che «ogni angolo del vecchio mondo è invaso dall'oppressione». Paine metteva in discussione il presunto diritto divino dei re, definendo Guglielmo il Conquistatore «un bastardo francese che sbarca con una banda armata ... [per] insediarsi come re contro il consenso dei nativi». Tralasciamo l’ironia e l’ira con cui Paine stigmatizza un’invasione genocida avvenuta «senza il consenso dei nativi americani», per concentrarci sulla sua demistificazione della legittimità divina dei diritti reali: egli conclude che Guglielmo il Conquistatore era «in parole povere un irriverente originale mascalzone, [la cui pretesa di regalità] non aveva certamente nulla di divino».
Paine era disgustato dalle «orribili crudeltà attuate dalla Gran Bretagna nelle Indie Orientali, dove migliaia di persone morirono per carestie non di origine naturale». La sua riflessione morale qui è lodevole, ma i suoi numeri sono migliaia di volte inferiori alla realtà e inoltre non individua esattamente il colpevole: come scrisse Horace Walpole, figlio di un primo ministro britannico, «Abbiamo ucciso, deposto, saccheggiato, usurpato... anzi, che ne pensate della carestia nel Bengala, in cui morirono tre milioni di persone, causata dal monopolio delle provviste da parte dei servi della Compagnia delle Indie Orientali?»). Non dimentichiamoci che la merce-simbolo di Boston era il tè, che veniva trasportato dalla Compagnia delle Indie Orientali. Purtroppo, il profondo desiderio politico di Paine che tale decorosa scelleratezza non venisse «mai e poi mai dimenticata», non ha retto. Le vostre scuole insegnano questa storia? Che l'esercito privato di una grande impresa (due volte più grande di quello regio) ha ucciso milioni di persone per imporre il “libero scambio” e il “commercio gentile”?
I lettori che sono tentati di scuotere la testa di fronte a questa monumentale ignoranza morale e a questa vera e propria disinvoltura, pur essendo certi che la nostra élite di lettori di Pinker non permetterebbe mai che oggi accadesse nulla di simile a quanto detto finora, dovrebbero considerare la situazione mondiale dell'immunizzazione da Covid. La nostra élite dell'avidità razionale sta ancora una volta mettendo i profitti al di sopra del salvataggio di vite umane, non revocando le restrizioni sui brevetti dei vaccini (l'amico di Pinker, Gates, ha svolto un ruolo determinante, tutt'altro che filantropico, in questo). Milioni di morti evitabili, per lo più di paesi lontani e dalla pelle scura, vengono nuovamente offerti in sacrificio sull'altare dell'onnipotente dio liberale dell'avidità. Questo orribile fiasco è stato definito «apartheid vaccinale» da molti sostenitori del Sud del mondo, tra cui il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, a causa della scarsa protezione di cui godono le nazioni povere di colore.
Ad essere onesti, dovremmo notare che quegli allegri inglesi di classe vestiti di jodhpur non erano razzisti nel senso odierno del termine. Erano altrettanto elegantemente malvagi in modo estremo e criminale nei confronti dei loro vicini irlandesi. Davis scrive: «L'India, come l'Irlanda prima, era diventata un laboratorio utilitaristico in cui milioni di vite venivano scommesse sulla fede dogmatica nell’onnipotenza dei mercati». Riguardo alla carestia irlandese, l'amato paladino del liberalismo classico, John Stuart Mill, scrisse che «Gli irlandesi sono indolenti e poco intraprendenti» e «potrebbero essere necessari centomila uomini armati per far sì che gli irlandesi si sottomettano al destino comune di lavorare per vivere» (una posizione recentemente ridicolizzata come: Lasciamogli mangiare la libertà). Non dimentichiamoci che Mill fu per decenni alle dipendenze dei signori saccheggiatori della Compagnia delle Indie Orientali prima di entrare in Parlamento come liberale. Nel caso in cui non conosciate i dettagli della carestia irlandese, morirono un milione di persone, mentre due milioni furono costretti a partire e la popolazione irlandese impiegò centosettant’anni per riprendersi (raggiungendo solo nel 2021 i livelli precedenti alla carestia).
E non dimentichiamoci che le élites europee hanno anche affamato i loro stessi poveri nel processo interno di recinzione dei beni comuni. Le terre comuni adibite a beneficio collettivo (che hanno consentito una “età dell'oro” ai contadini europei) vengono privatizzate. Tutto ciò faceva parte del vasto sforzo politico organizzato per creare e naturalizzare il liberalismo economico e il capitalismo emergente. Come scrive l'antropologo economico Karl Polanyi in The Great Transformation [La grande trasformazione] «la gente delle campagne fu impoverita» in «una rivoluzione dei ricchi contro i poveri».” Da 1500 a 1700 i salari reali scesero del 70%, la fame divenne comune e l'aspettativa di vita scese da quarantatre a trent’anni (toccando i venticinque nello squallore urbano del “dark Satanic Mills” di Blake; locuzione che, senza che egli la scegliesse volutamente, si sarebbe potuta benissimo riferire a John Stuart). Polanyi fornisce ampie prove che «non c'è nulla di naturale nel libero mercato del laissez-faire».
A questo proposito, dobbiamo riesaminare un punto di vista caro a molti pii liberali e greedocrati che imitano Pinker come pappagalli, i quali sono convinti che la loro stessa avidità sfrenata sia profondamente radicata nella natura umana. Polanyi smonta questa affermazione ritenendola una proiezione egocentrica di gente che manca di conoscenze antropologiche e storiche. Sono state studiate molte culture che non sono incentrate su una sfrenata avidità individuale (e non ci sono prove che nessuna di esse abbia origini extraterrestri). In netto contrasto col liberalismo illuminista europeo, Polanyi afferma che «di norma, nella società primitiva l'individuo non è minacciato dalla fame a meno che non lo sia la comunità nel suo insieme». E cita tre esempi: i Kaffir del Sudafrica (per i quali «l'indigenza è impossibile: chiunque abbia bisogno di assistenza la riceve senza alcun dubbio»), la tribù canadese dei Kwakitul («Nessun Kwakitul ha mai corso il minimo rischio di soffrire la fame») e l'India pre-britannica. «In quasi tutti i tipi di organizzazione sociale fino agli inizi del XVI secolo in Europa» prevaleva il principio della libertà dalla fame. Purtroppo, la logica di «distruggere le strutture sociali per estrarre manodopera» sotto la minaccia della fame è diventata la prassi comune del mercato liberale “civilizzato” (come imposto violentemente in Irlanda e in India e in molti altri luoghi).
Cosa importante, Polanyi osserva che questa distruzione del tessuto materiale dello stile di vita dei contadini, per costringerli al lavoro capitalistico, è stata fatta «da parte degli uomini bianchi ai danni di popolazioni bianche» prima di essere esportata a livello mondiale ai danni di barbari ottusi di lontane terre saccheggiabili piene di fanciulle scure. L'idea che lasciare che i poveri muoiano di fame fosse propria nella natura umana ha richiesto vasti sforzi di evangelizzazione del male su grande scala per far sentire il "credo del liberalismo" come se fosse la natura umana stessa. Come Paine notò in un suo altro grande successo,The Rights of Man, [I diritti dell'uomo] : «Una grande parte dell'umanità, in quelli che vengono chiamati paesi civili, si trova in uno stato di povertà e miseria, molto al di sotto della condizione di un indiano». La classica “civiltà” liberale orientata al mercato è andata storicamente di pari passo con il far sembrare la fame di massa in mezzo all'abbondanza moralmente accettabile o come una necessità inevitabile. La Gran Bretagna degli anni Trenta del XIX secolo vide «un aumento quasi miracoloso della produzione accompagnato dal fenomeno di masse ridotte quasi alla fame». Polanyi definisce la Poor Law Reform inglese del 1834 una «crudeltà scientifica», in base alla quale il precedente «diritto alla vita fu abolito» a vantaggio del mercato del lavoro. La minaccia di morire di fame era una «tortura psicologica sostenuta con freddezza e messa in pratica senza problemi... come mezzo per oliare le ruote delle fabbriche di manodopera».
A tale riguardo, può essere illuminante il concetto di “conscience management”. Questa è solo una delle tante idee importanti contenute nel libro Time's Monster (2020) della storica Priya Satia (sul ruolo degli storici nella costruzione di “copioni etici” e delle grandi narrazioni tranquillizzanti per le élites che hanno consentito il male dell'impero). La gestione della coscienza spiega come «nella maggior parte dei casi, l'impero non è stato opera di gente malvagia, ma di persone che credevano di agire coscienziosamente». Alcuni (soprattutto le élites) lo facevano per il «bottino e l’avventura», ma milioni di persone «credevano sinceramente di occuparsi di diffondere la libertà». Sotto quell'ossimoro squisitamente architettato che è l'“imperialismo liberale”, la grande violenza del colonialismo era giustificata per portare le benedizioni della civiltà alle razze selvagge – ci ringrazieranno più tardi. L’autrice respinge giustamente gli odierni difensori moralistici dei benefici dell'occupazione britannica come se dicessero «Hitler era orribile con gli ebrei ma, d'altra parte, ha costruito delle autostrade».
A proposito di Hitler, molti intellettuali e artisti del secondo Dopoguerra hanno definito l'olocausto nazista un «abisso nella storia», come esemplificato dalla dichiarazione di Adorno che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». Ma questa serena e studiosa ricercatezza naviga su un oceano di inchiostro disinformato, basata sull'ignorare i precedenti genocidi attuati dai gentiluomini sopra menzionati. Considerare le atrocità naziste come eccezioni della storia richiede un atto di amnesia collettiva di proporzioni monumentali, di diligente soppressione della secolare carneficina dell'imperialismo liberale. Per non parlare del ruolo degli artisti e degli intellettuali della civiltà liberale nella creazione di “copioni etici” per l'impero. Come sottolinea Ghosh, Alfred Lord Tennyson, il principale poeta lirico della sua epoca, nel 1849 scrisse che le battaglie della natura «rossa nei denti e negli artigli» avrebbero assicurato la vittoria di una «razza coronatrice» di conquistatori europei. Ciò accadeva un decennio prima che Darwin, inThe Descent of Man [L'Origine dell’uomo], dichiarasse che «le razze civilizzate dell'uomo quasi certamente stermineranno... le razze selvagge». Darwin era un liberale e un abolizionista, ma questo tipo di idee sulla classificazione delle razze e la morte degli inferiori che soccombevano erano secondo Ghosh «semplice buon senso [per] un gran numero di occidentali progressisti liberali». Tale licenza di uccidere in massa allo scopo di profitto risale a un altro eroe razionale dell'Illuminismo, Francis Bacon, che in An Advertisement Touching on Holy War, conclude che è lecito e secondo la religione «per qualsiasi nazione che sia ordinata e civile ... [eliminare] dalla faccia della terra» coloro che non lo sono.
Il punto qui non è tanto quello di imporre con discrezione retrospettivamente le nostre norme morali, quanto invece è quello di considerare la magnifica amnesia collettiva necessaria perché gli istruiti di oggi sentano che le atrocità naziste erano eccezioni impensabili per le civili élites europee amanti dell'arte, piuttosto che un modello secolare che stava tornando a galla. Un modello a lungo celebrato nella letteratura e nelle arti “civilizzate”, come ad esempio vediamo nell'inno all'impero di Rudyard Kipling del 1899, che esortava gli imperialisti a «mandare avanti le migliori razze» per assumersi il «fardello dell'uomo bianco» e «servire i bisogni del tuo prigioniero». I prigionieri sono dipinti liricamente come «il vostro nuovo popolo imbronciato, metà diavolo e metà bambino». Per la “virilità” di queste idee, a Kipling nel 1907 fu conferito uno dei più alti riconoscimenti della sua “civiltà”, il Premio Nobel per la letteratura. E non dimentichiamo che poco prima che l'intellighenzia alleata provasse ad esprimere la sua incapacità di comprendere gli orrori di Hitler che «sconvolgevano la storia», quel leone del liberalismo che fu Winston Churchill, nel 1943 promulgò politiche che fecero morire di fame altri tre milioni di indiani.
Tutto ciò è importante perché, come giustamente teme Satia, «la sensibilità storica che ha permesso l'imperialismo è ancora intatta». Aggiungerei che il travestimento più pericoloso di quella sensibilità si nasconde oggi sotto la grande narrazione della crescita del libero mercato della globalizzazione neoliberista, che dovrebbe sollevare i poveri dalla povertà. Questa è la dottrina economica del libero mercato, sostenuta da Pinker, in base alla quale l'avidità delle élites viene meravigliosamente trasformata [N.d.T. letteralmente “alchimizzata”] in modo da essere il meglio per tutti, specialmente per i poveri. Intanto, questa forma di economia che giustifica l'avidità in realtà sottovaluta sistematicamente le preferenze, i diritti e persino le vite dei poveri del pianeta.
Considerate ciò che si nasconde dietro un gergo da sapientoni come quello della razionalità economica e dell'“efficienza”. Come ha rivelato una nota trapelata, firmata dall'ex segretario al Tesoro Larry Summers, personaggio purtroppo ancora influente: «la logica economica dietro la discarica di rifiuti tossici in paesi dai salari più bassi è impeccabile». Poiché «la misurazione dei costi dell'inquinamento nocivo per la salute dipende dai mancati guadagni ... una determinata quantità di inquinamento nocivo per la salute dovrebbe essere effettuata nel paese con i costi più bassi, che sarà il paese con i salari più bassi».
Questo tipo di economia "razionale" è infarcita di pregiudizi sistematici contro i poveri. Opinione, questa, sostenuta nella nota a piè di pagina più piccante di sempre della Federal Reserve: nel 2021 l'economista veterano della Fed, Jeremy Rudd, ha scritto della sua «profonda preoccupazione che il ruolo principale dell'economia tradizionale ... sia quello di fornire un’apologia di un ordine sociale criminalmente oppressivo, insostenibile e ingiusto», sottolineando che ciò «non rifletteva necessariamente le opinioni del Consiglio dei governatori o del personale del sistema della Federal Reserve».
Scandalosamente, pochi economisti affrontano effettivamente nel loro lavoro il tema della povertà (una ricerca del Fondo Monetario Internazionale ha rilevato che solo l'1,4% degli articoli nelle dieci principali riviste di economia si è concentrato sulla povertà). A meno che questo tipo di impeccabile razionalità ed “efficienza” economica non venga esplicitamente contrastato, essa accresce strutturalmente il peso dei poveri: la “logica” economica standard di Summers vede la perdita di guadagno di un americano come equivalente alla perdita di guadagno di duecentosessantacinque burundiani (utilizzando il rapporto tra il Prodotto Interno Lordo nazionale pro capite come proxy dei guadagni tipici in ogni economia). Per quanto razionali ed “efficienti” possiate sembrare nel vostro calcolo concepito come quello di un economista [liberal-loot-orama] [4] approvato da Pinker, esso è chiaramente contrario a qualsiasi moralità e a qualsiasi parvenza di giustizia riguardo alle risorse.
Il sapore più velenoso e seducente di questo riciclaggio dell'avidità è incarnato dalla locuzione «win-win», amata dai liberali, in base a cui l'avidità del mercato che ingrassa le élites viene presentata come un modo per sollevare milioni di persone dalla povertà. Come ha scritto Phillipe Alston, ex Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla povertà, questa retorica è stata usata per ridefinire «il bene pubblico come aiuto ai ricchi per diventare più ricchi». Lungi dall'essere una delle «più grandi conquiste umane», questa narrazione «win-win» è stata un «comodo alibi» per l'avidità senza sensi di colpa.
Perché ogni guadagno per i poveri dovrebbe comportare guadagni per i ricchi? Trovo spaventoso che molti sostenitori di una crescita predatoria pensino di rifarsi semplicemente ai fatti oggettivi, mentre i loro vangeli fondati sui dati di Pinkering nascondono come i mercati allochino effettivamente la maggior parte dei guadagni e delle risorse dell'economia globale esattamente a scopi opposti a quello di ridurre la povertà. Solo il 5% della crescita del PIL globale va al 60% più povero delle persone (il 95% va ad arricchire gli agi di chi non è povero, e anche all'interno di questo dato esso è fortemente sbilanciato a favore dell’1-10% più ricco). Questi numeri superano un semplice test etico? Dovremmo celebrare un ritmo così lento da comportare lo sfruttamento lavorativo di otto generazioni fino a quando i vostri discendenti non supereranno una soglia di povertà disgustosamente bassa? Mentre, per ciascuna di queste generazioni, la maggior parte delle risorse del pianeta viene trasferita nei portafogli dei ricchi?
Tra l’altro, molti fraintendono il significato di questa disgustosamente bassa soglia di povertà ufficiale. Si tratta di un P.P.P. di 1,90 $ al giorno, cioè aggiustato alla parità del potere d'acquisto. Quindi, per quanto è possibile stimarlo, è come vivere ora negli Stati Uniti con circa $ 700 all'anno, un diciannovesimo rispetto alla soglia di povertà ufficiale degli Stati Uniti. E, certamente, innumerevoli peccati si nascondono nei dati costruiti sull'idea che guadagnare dieci centesimi in più, per un totale di $ 2 al giorno ($ 730 all'anno), garantisca di essere classificati come «sfuggito» alla povertà estrema.
Il discorso basato sui dati è qui dominato da una concezione diabolicamente sbagliata della questione morale principale. Contrariamente alla prospettiva di Pinker, che gratifica i plutocrati, la domanda centrale non è se «Le cose stanno meglio ora rispetto a prima», ma piuttosto se «È questa la cosa migliore che possiamo fare». In effetti, stiamo facendo uno sforzo appena decente per ridurre al minimo la sofferenza? Come sottolinea l'antropologo economico Jason Hickel, vista da questa prospettiva, la povertà globale non è mai stata peggiore. Il mondo è più ricco che mai, ma ancora non diamo priorità all'uso di risorse sufficienti per porre fine alla povertà. Per porre fine alla “povertà estrema” sarebbe necessaria solo una piccola frazione della ricchezza mondiale (Hickel calcola il 3,9% del PIL mondiale, mentre Max Rosner di Our World in Data, nel 2013, ha stimato centosessanta miliardi di dollari su una torta di $ 70 trilioni, ovvero meno del 3%). Eppure lasciamo che i mercati globali "decidano" di spendere ogni anno per gelati e creme per il viso una cifra superiore (90 e 100 miliardi di $). Come può avere un senso etico che i mercati "decidano" di utilizzare l'80% della terra coltivabile per ingrassare il bestiame, mentre centocinquanta milioni di bambini sono rachitici a causa della malnutrizione e un miliardo e novecento milioni di esseri umani (il 25% di tutti gli attuali abitanti del mondo) vivono in condizioni alimentari più precarie rispetto agli animali domestici dei paesi ricchi? La profonda stupidità dei dati è dovuta al modo in cui il PIL mescola nello stesso paniere monetario lussi e beni basilari di sopravvivenza, per poi inviare “razionalmente” ed “efficientemente” risorse a chi paga di più, dando così “oggettivamente” la priorità ai capricci dei ricchi. Qualunque sia il vostro orientamento politico o morale, se non ti aiutano a condannare e contrastare questo fenomeno, potrebbero aver bisogno di un aggiornamento. Non sono in nessun senso coerenti, umani o illuminati.
La fede predicata da Pinker, secondo cui i mercati hanno il compito di massimizzare la prosperità, spesso è un camuffamento per la gestione della coscienza. Così come sono praticati attualmente, i mercati non distribuiscono il benessere (o molto altro) in modo eticamente sano. Sicuramente, la cosa giusta da fare è prevenire sempre le sofferenze evitabili, prima di migliorare ulteriormente lo stile di vita dei ricchi. In base a quale logica possiamo giustificare lo sperpero di risorse in ricchi giocattoli quando tanti evidenti vantaggi nella riduzione della sofferenza di base sono a portata di mano? Sebbene non sia così semplice come reindirizzare le risorse finanziarie dai gelati e dalle creme per il viso alla riduzione della povertà, non è nemmeno molto più difficile. Perché i giocattoli e i ninnoli per i ricchi del mondo sono più importanti del cibo per prevenire che quei centocinquanta milioni di bambini soffrano di stitichezza? Sicuramente l'ultimo 1% di acquisti di giocattoli da parte dei miliardari produce molta meno ricchezza di quanta ne produrrebbe, ad esempio, l'istruzione delle centinaia di milioni di bambini che attualmente non sono scolarizzati. Un’imposta patrimoniale dell'1% sui 13.000 miliardi in dollari dei 3.000 miliardari del mondo (il che significa che potrebbero doversi accontentare di un secondo superyacht più piccolo) a fronte di un notevole miglioramento delle condizioni di benessere di duecentocinquanta milioni di bambini. Perché è un compromesso difficile se si è davvero interessati a massimizzare il benessere? Ignorando questi incubi nocivi di sperequazioni distributive, il neoliberismo opera come una forma più sfigata di imperialismo (con una sartoria extra-avanzata di vestiti nuovi dell'imperatore per gentile concessione degli opinionisti di Pinkering, nella versione della nostra epoca dei conquistatori coscienziosi di Kipling – «The Bright Man's Burden» – la supremazia cognitiva (valutata da test inconsistenti come i punteggi del SAT [5]) concede diritti divini a una quota enormemente sproporzionata di risorse globali, e il controllo di quanto orribilmente lentamente gli strati meno brillanti possano guadagnare.
Per presentare icasticamente una questione-chiave, a beneficio degli ottimisti razionali che si rifanno ai dati di Pinker: se la globalizzazione serve davvero a far uscire miliardi di persone dalla povertà, perché il divario tra le nazioni ricche e quelle povere in fondo non è mai scomparso ma è cresciuto? Nel diluvio di visualizzazioni di dati abbaglianti che vengono quotidianamente presentate, come quella a sinistra qui sotto, perché i dati tracciati a destra non hanno ricevuto alcuna attenzione? Il grafico mostra il PIL pro capite, con la linea superiore per le nazioni ricche che si allontana dalla linea inferiore per le nazioni povere. È quasi come se ci fosse un complotto contro la condivisione più equa delle risorse mondiali.
Se siete sinceri nella vostra preoccupazione per i poveri del mondo e non vi siete mai imbattuti in questi fatti, potreste considerare di trovare fonti di informazione alternative. La vostra educazione e i media vi hanno deluso. Non è difficile confutare la narrazione razionale-ottimista dei plutocrati (ma questo è stato uno sforzo eccessivo per troppi giornalisti e opinionisti che preferiscono vendervi favole lusinghiere per gestire le coscienze).
Nel Sud del mondo frasi come “ordine mondiale liberale” e “libero commercio” evocano mali evidenti. Il diplomatico irlandese Conor Cruise O'Brien scoprì che le persone nelle ex colonie erano spesso «disgustate» dalla parola liberalismo, come osserva Pankaj Mishra in un saggio On Liberalism and Colonialism sulla «London Review of Books». La vedevano come una «maschera morale gratificante che una società duramente avida indossa davanti al mondo che deruba». Mishra osserva che tali contraddizioni «hanno perseguitato la retorica del liberalismo sin dall'inizio». E cita la battuta di Samuel Johnson: «Come mai le grida più forti per la libertà si sentono tra i negrieri?».
Fin dalle sue origini, nel termine “liberale” si sono annidate tensioni tra due cuori e due facce. Come lo storico Alexander Zevin ha messo in luce nel suo libro Liberalism at Large: The World According to the Economist, pensatori come John Locke non si definivano liberali. I primi a farlo furono gli attivisti spagnoli che si occupavano di libertà civili all'indomani dello scempio napoleonico. In seguito si aggiunse una corrente tipicamente britannica incentrata sulle libertà economiche (tipicamente ritenute più importanti di dettagli minori come la democrazia). È l'ideologia del laissez faire, del “libero mercato” e del “libero scambio” incentrata sulla finanza, allo scopo di promuovere esplicitamente la quale, come fa tuttora, è stata fondata nel 1843 la rivista The Economist (per un rapido riassunto, si veda un podcast di Zevin intitolato The Refined Sociopathy of The Economist). La componente britannica spinta dall'avidità (alias, greedocracy) ha svolto un ruolo centrale nella fase del liberalismo classico e del neoliberismo. Ma le norme dei liberali classici sono così lontane dall'essere universali che, come riferisce Mishra, i traduttori giapponesi e cinesi di Adam Smith e John Stuart Mill hanno avuto difficoltà a trovare parole per frasi come «legittimo interesse personale» che evitassero la macchia dell'egoismo moralmente riprovevole e della negligenza del dovere. Anche le forme più liberali del pensiero indiano erano «impregnate dalle idee di condivisione, generosità e compassione... drammatizzate dalle allegorie dei classici indiani», come scrive Christopher Bayly in Recovering Liberties: Indian Thought in the Age of Liberalism and Empire. Il pensatore bengalese di fine Ottocento Bal Gangadhar Tilak vedeva il liberalismo come un «sistema di doveri» nel quale «stava al primo posto la condotta etica, non l'interesse personale razionale».
In contrasto con la valutazione di Hannah Arendt in The Origins of Totalitarianism [Le origini del totalitarismo]: la volontà europea di “imperializzazione” significava «organizzare la nazione per il saccheggio di territori stranieri e la degradazione permanente dei loro popoli» (estremamente illuminante sull’assenza di illuminismo liberale). Come dichiarò il gran muftì Muhammad Abduh, «noi egiziani un tempo credevamo nel liberalismo e nella simpatia inglese; ma non ci crediamo più, perché i fatti sono più forti delle parole. La vostra liberalità, lo vediamo chiaramente, è solo per voi stessi e la vostra simpatia è quella del lupo per l'agnello che vuole mangiare».
Gli psicologi occidentali hanno finalmente capito i grossolani errori antropologici ed empirici che si commettono nel presumere che gli esperimenti sui laureandi di un campus universitario dell'anglosfera possano far luce sulla natura umana. Hanno coniato l'acronimo W.E.I.R.D., per occidentale, europeo, industrializzato, ricco e democratico. Qualsiasi economia o politica che consideri l'avidità del commercio dolce come un semplice aspetto della natura umana commette un errore storicamente e antropologicamente ottuso di campionamento W.E.I.R.D. (come Polanyi ha precedentemente osservato).
Per quanto sia splendida la retorica della crescita del commercio, la si intende considerandola progettata per proteggere e ingrassare i privilegiati. Come disse il diplomatico americano George Kennan nel 1948, abbiamo «il 50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della sua popolazione... Il nostro compito... è mantenere questa disparità». Oggi le proporzioni
sono diverse e l'ideologia ora riguarda un’élite mondiale grottescamente autocompiaciuta, ma il neoliberismo continua a dare priorità all'avidità [6] di cui parla Kennan. Attenzione a ciò che si cela dietro i decorosi disegni della bestia a due cuori e due facce del liberalismo.
Aiutiamo i fans del libero mercato e gli ottimisti razionali a non comportarsi (anche inconsapevolmente) come quegli eleganti mostri morali imperiali del liberalismo classico o neo-liberale. Soprattutto quegli avatar dell'avarizia che hanno usurpato il termine “razionale” per indicare qualcosa di assolutamente egoistico: il loro onnipotente e selvaggio dio dell'avidità non sta alleviando la povertà a un ritmo moralmente accettabile. Finché i pregiudizi che ostacolano la giustizia, insiti nei mercati liberi, non saranno contrastati da valori più equi e giusti, l'economia non deve essere la nostra guida principale nelle grandi questioni morali (come la povertà globale o la crisi climatica).
Dobbiamo essere sempre vigili contro i mostri del nostro tempo, come quelle eleganti dottrine che ottundono le coscienze e che equiparano ogni progresso all'avidità di accaparrarsi sempre più risorse del pianeta (rigorosamente per il bene dei poveri, ovviamente). Se si vuole che le parti buone del liberalismo vengano salvate, è meglio che si colga e si faccia ammenda per i suoi orribili precedenti. E prestare molta meno attenzione a quegli opinionisti complici dei plutocrati che la nostra stampa corporativa ama far sfilare.
Dopo essere stati illuminati da quanto si è detto finora, che ruolo dovrebbe avere l'avidità nel modo in cui gestiamo il mondo?
Note:
[1] Neologismo che unisce due termini, greed (avidità) e -cracy (potere) [N.d.T.]è+
[2] Qui e altrove l’autore ricorre ironicamente a delle metafore per criticare il riduzionismo di Steven Pinker, il quale crede di adottare nella sua analisi un metodo razionale, solo perché si rifà a dati statistici, che nel suo caso lo portano però a semplificare la complessità dei fenomeni storici. [N.d.T.]
[3] «La ghul o gul (in arabo: الغول), talora scritto secondo la grafia inglese ghoul, italianizzato in gula, è secondo i musulmani un'entità soprannaturale o uno spirito, le cui origini sono precedenti all'avvento dell'Islam». (da Wikipedia) [N.d.T.].
[4] Ho lasciato questo inciso così com’era nell’originale, in quanto neologismo intraducibile a cui si può arrivare per approssimazione: [liberal-saccheggio-orama], dove «loot» (saccheggio) rimanda al concetto di greed, filo conduttore dell’articolo, e -orama è un suffisso di origine greca, usato regolarmente in italiano in parole composte per indicare «veduta, visione, proiezione» e, per estensione, qualcosa di grande, di smisurato.
[5] SAT, acronimo di Scholastic Aptitude Test e di Scholastic Assessment Test, è «un test attitudinale molto diffuso, generalmente richiesto e quasi universalmente riconosciuto per l’ammissione ai college negli Stati Uniti». (Wikipedia) [N.d.T.]
[6] L’autore dell’articolo qui adotta la locuzione «greed-über-alles» (l’avidità al di sopra di tutto) facendo il verso al Deutschland über alles (La Germania al di sopra di tutto), «il famoso inno di Haydn, per il quale il poeta von Fallersleben scrisse nel 1841 dei versi pieno di sentimento nazionale. Il musicista austriaco finì questa melodia nel 1797 per l'imperatore Francesco II su versi del poeta Haschka e rimase inno ufficiale austriaco (Kaiserhymne)» (Gino Visonà) «Con il crollo dell'impero austriaco Das Lied der Deutschen fu scelta come inno nazionale dalla Repubblica di Weimar. Hitler invece scelse soltanto la prima strofa come inno (seguita dalla canzone nazista Horst-Wessel-Lied), stravolgendo completamente il senso delle parole ottocentesche dell'inno. Come segno di rottura con questa ultima fase in seguito alla seconda guerra mondiale, dal 1952 l'inno nazionale della Repubblica Federale di Germania divenne la terza strofa (Einigkeit und Recht und Freiheit, ossia "Unità, giustizia e libertà")». (in Das Lied der Deutschen, Wikipedia). [N.d.T.]
Jag Bhalla
Traduzione di Alessandro Cocuzza - Redazione di Antropocene.org
Fonte: Climate&Capitalism 27.09.2022
Aggiungi commento